LACAN E LE SEDUTE A TEMPO VARIABILE. Intervista a Franco Lolli

Share this
2 luglio, 2017 - 10:25
NDR: Sul tema della variabilità del tempo delle sedute analitiche si è consumato, a suo tempo, lo strappo tra IPA e Jacques Lacan. Si tratta quindi di un tema clinico e teorico di grande rilievo su cui varrebbe la pena fare chiarezza anche perché nel tempo sono sorte ulteriori polemiche attorno alla durata intesa come BREVITA’ da alcuni ritenuta eccessiva delle sedute di analisi lacaniana. E’ un tema spinoso ma proprio come tale adatto ad una rivista libera  e polifonica quale è Psychiatry on line Italia ed è con questo spirito che proponiamo questa intervista.
Intervistando un lacaniano non si può pretendere che non usi un linguaggio lacaniano ma si può pretendere, e noi lo abbiamo fatto, che, per spirito di chiarezza e per uscire da veri o presunti esoterismi, ogni temine sia spiegato in maniera chiara per consentire anche a chi non conosce il pensiero di Lacan di comprendere pienamente il senso delle risposte. Non si tratta di semplificare o fare della divulgazione si tratta di permettere la comprensione e l’eventuale apertura di un dibattito attorno a questo testo.

Sullo stesso tema si veda anche l'intervista a Roberto Pozzetti seguendo il link.

Sullo stesso tema si veda anche l'intervista ad Alex Pagliardini seguendo il link

Sullo stesso tema si veda anche l'intervista ad Annalisa Piergallini seguendo il link


 
FRANCESCO BOLLORINO: Su quali basi teoriche e su quali presupposti clinici si basa, storicamente e contenutisticamente, la proposta tecnica di Lacan di istituire un setting in cui il tempo diventi variabile anziché con una durata prefissata e classicamente compresa tra i 45 e i 60 minuti come è  nella psicoanalisi freudiana classica?

 

FRANCO LOLLI: Se facciamo riferimento al testo principale nel quale Jacques Lacan affronta la questione della seduta a tempo variabile (Funzione e campo della parola e del linguaggio), non possiamo non considerare come fondamentale il debito teorico nei confronti dell’insegnamento di Alexandre Koyré, di cui, come noto, Lacan ebbe l’opportunità di frequentare le lezioni e di cui, molto probabilmente, lesse il libro (Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione) che formalizzava la distinzione – divenuta basilare nella concezione della tecnica lacaniana – tra tempo misurato e tempo scandito. Il tempo oggettivo, il tempo misurabile, il tempo delle scienze esatte non esaurisce né ricapitola in sé l’estrema pluridimensionalità dell’esperienza temporale umana. Non solo: se, per un verso, infatti, è possibile quantificare esattamente “il tempo della caduta dei gravi”, per l’altro – sostiene Lacan – non si può pensare che questo corrisponda “al tempo degli astri fissato in eterno da Dio”: occorre, allora, tenere presente che il tempo è esso stesso inscritto nell’ordine significante, che è esso stesso irrimediabilmente sottomesso al linguaggio (e alle sue scansioni) e che, pertanto, non è possibile che considerarne le sue varie declinazioni esperienziali. C’è dunque un tempo misurabile e misurato (che è quello a cui fa riferimento lo scienziato), c’è un tempo del riposo e dell’attività (al quale fa riferimento l’economista), c’è un tempo della coscienza (al quale fa riferimento lo psicoterapeuta), c’è un tempo dell’inconscio (al quale fa riferimento lo psicoanalista), un tempo, quest’ultimo, che non è ‘cronologico’ – che non segue, cioè, le coordinate lineari del tempo – ma che è ‘logico’, discontinuo e retroattivo. La questione che si pone Lacan è, allora, come sintonizzare il lavoro analitico con questa dimensione speciale del tempo dell’inconscio, come evitare, in altri termini, che la predeterminazione della durata del tempo (i 45-60 minuti ai quali facevi riferimento nella domanda) non diventi un ostacolo alla possibilità di manifestazione dell’inconscio (che non è sincronizzato con il tempo della clessidra). In che senso, allora, un timing classico, tradizionale, prefissato, standardizzato, uguale per tutti, può rappresentare un ostacolo alla cura? L’analisi di pazienti ossessivi (particolarmente indicata per rispondere a questa domanda) mette in luce come il tempo prefissato della seduta (dunque, anonimo e indifferente a quanto sta accadendo in seduta) sia sintomaticamente conforme alla manovra nevrotica del soggetto che, in ogni modo, tenta di difendersi dall’inaspettato, dalla sorpresa, dall’incontro inatteso (con il desiderio dell’Altro) e che, al contrario, punta alla contabilizzazione, alla prevedibilità, alla stabilità inerte. Il tempo prestabilito della seduta si modella, così, paradossalmente, alla strategia mortificante dell’ossessivo, incrementandone – seppure involontariamente – l’inconscio guadagno libidico che comporta. La durata prefissata della seduta, più in generale, consente al soggetto nevrotico di calcolare il tempo a propria disposizione, di poterne avere il controllo, di imporre il proprio ritmo di parola all’analista il quale, anch’egli subordinato allo standard orario da rispettare, non può che passivamente accettare l’uso – spesso difensivo – del discorso del proprio paziente. In una sorta di sottomissione ad un parametro la cui giustificazione teorica risulta oggettivamente problematica (perché 45-60 minuti e non 30, 90, 100, ecc.?), analista e analizzante assistono impotenti al godimento del bla bla, della parola vuota, della parola organizzata in funzione dell’evitamento della verità dell’inconscio. Lacan parla, a questo proposito, di ossessivizzazione della seduta, di rituale ipnotico nel quale la seduta rischia di precipitare quando il discorso dell’analizzante si arroga il diritto di usufruire di tutto il tempo a sua disposizione.
La seduta a tempo variabile frantuma irrimediabilmente questa credenza: introduce un dubbio radicale nell’analizzante, il quale, sin dal momento in cui, per la prima volta, l’analista chiuderà la seduta in un determinato passaggio del suo discorso, saprà che non c’è da perder tempo, che il tempo è prezioso (quello della seduta, certamente, ma ancor di più quello della sua vita) e che non può essere sprecato in ruminazioni intellettuali, in narrazioni narcisistiche autocelebrative, in resoconti dettagliati di particolari insignificanti. La seduta a tempo variabile riduce la ridondanza retorica del discorso, ne asciuga le parti ampollose e prolisse, attenua la verbosità del verbo. L’effetto è potente: l’analizzante è disorientato, irritato, ‘svegliato’. Le sue manovre con le quali, solitamente, ‘incanta’ l’Altro non funzionano più. L’interruzione non concordata della seduta dissolve il senso di padronanza che sintomaticamente assume le forme della coazione a ripetere (generalmente indifferente all’azione dell’Altro), proiettando l’analizzante in un disagio che rende pericolante il sistema difensivo.
      
FRANCESCO BOLLORINO: Per tempo variabile si dovrebbe intendere un tempo che varia  a seconda del momento analitico (per capirci da 1 minuto a molte ore per dire) ma nella vulgata e credo anche nella pratica questo si è trasformato, spesso, in sedute della durata molto breve e ancora si può paventare il rischio che tale durata breve, istituzionalizzata, diventi l’equivalente dei 45 minuti classici con il sospetto che alla fine significhi semplicemente poter ricevere più pazienti nell’unita di tempo. Che ne pensi?

 

FRANCO LOLLI: Due considerazioni si impongono in risposta a questa domanda. La prima riguarda l’effettiva consuetudine dell’analista lacaniano a convertire le sedute a tempo variabile in sedute brevi. È, questo, un dato di fatto che, da un certo punto di vista, solleva dubbi e autorizza congetture. La tua domanda, quindi, tocca un punto di estrema delicatezza che intendo affrontare a partire da una considerazione preliminare all’intero ragionamento: è stato lo stesso Lacan a promuovere – teoricamente e clinicamente – una virata (ulteriore) alla questione (tecnica, ma soprattutto etica) della durata della seduta (che, negli ultimi anni della sua attività clinica, diventerà sempre più breve), come effetto del progressivo spostamento dell’asse del suo interesse verso il registro del reale – a scapito, pertanto, della dimensione pacificante del simbolico (e, dunque, della parola). Uno spostamento che, evidentemente, derivava da una quota di disillusione, di disincanto, di sconforto sulle possibilità della parola di sciogliere in maniera definitiva il nodo del reale sintomatico, o, per meglio dire, sull’impotenza della parola presa esclusivamente nella sua funzione semantica. A questo proposito, è interessante notare come i grandi analisti, da Freud in poi, dopo lunghi anni di esperienza clinica, si siano interrogati tutti, sul finire della propria attività di ricerca – ognuno a proprio modo –  sulla quota d’intrattabilità del sintomo, su quel residuo di reale – avrebbe detto Lacan – che la parola non può afferrare e che, di conseguenza, continua ad orientare sintomaticamente l’esistenza del soggetto. L’attenzione di Lacan al reale nasce, a mio avviso, proprio dalla constatazione dei limiti della psicoanalisi, ovvero da una presa di coscienza della difficoltà della parola (e quindi del trattamento psicoanalitico, se lo consideriamo un trattamento puramente di natura semantico) a mettere nel discorso pezzi di reale che, per definizione, sfuggono alla presa del linguaggio. Ebbene, la necessità di ‘abbreviare’ la seduta, di accorciarne al minimo la durata, di prosciugarla di parole per struttura inadeguate a toccare il nocciolo di reale, nasce proprio dall’ipotesi che sia la seduta stessa – ridotta all’osso, spogliata, quindi, del suo rivestimento semantico – a favorire ‘l’incontro con il reale’, l’incontro con l’insignificante, con la pura scansione, con il taglio. Il taglio della seduta, in altre parole, essendo conforme alla struttura stessa dell’inconscio (che è, per l’appunto, taglio) rende possibile all’analizzante un’esperienza che, per un verso, riduce al minimo il godimento sterile che l’uso della parola contiene, per l’altro, lo mette a confronto con la dimensione perturbante del reale (presentificato dall’apparente insensatezza di una seduta psicoanalitica che sembra limitarsi al solo incontro tra analista e analizzante) . In questo senso, la seduta breve possiede a tutti gli effetti lo statuto di atto analitico: attraverso un dispositivo simbolico, qualcosa del reale può essere raggiunto, sfiorato, strappato dal registro dell’indicibile. Il potere ‘terapeutico’ della seduta breve risiede, in conclusione, in questo suo consentire al significante (l’atto simbolico dell’interruzione precoce della seduta) di agire su una materia ‘altra’, sull’economia libidica del soggetto, sui resti di godimento inconscio che la parola in sé non sarebbe capace di trattare.
La seconda considerazione riguarda l’uso clinico della seduta breve. È chiaro che il ricorso a sedute della durata di pochi minuti si giustifica in caso di analisi avanzate, giunte a punti di elaborazione che, proprio per il loro effettivo progresso, necessitano di una spinta ulteriore che permetta l’apertura di un varco nel sistema difensivo dell’inconscio. La pratica delle sedute brevi, in sostanza, non abolisce la consuetudine analitica all’ascolto del materiale portato dall’analizzante, al quale, nelle fasi inaugurali del percorso analitico, è dato tutto il tempo per storicizzare, far emergere i significanti fondamentali della propria esistenza, raccogliere ricordi, sogni, pensieri, ecc. L’uso selvaggio (anticipato e generalizzato) della seduta breve rivela uno dei possibili effetti di degenerazione etica dell’analista: la spregiudicatezza, l’estrema disinvoltura e – perché no? – un calcolo opportunistico delle possibilità aumentate di guadagno, sono degradazioni di una pratica la cui messa in atto richiede, al contrario, un’autorizzazione che solo la supervisione costante del proprio lavoro e la qualità della propria analisi possono garantire. Del resto, se la pratica della variabilità della durata della seduta analitica è nata per contrastare l’ossessivizzazione, la prevedibilità e la scontatezza di un uso presumibile del tempo (da parte dell’analizzante), sarebbe paradossale l’uso indifferenziato della seduta breve che, in tal caso, reintrodurrebbe il rituale che, nelle intenzioni di Lacan, puntava a destrutturare – venendo a perdere, per giunta, il suo carattere di atto, di gesto che separa un prima da un dopo, che fa sì che, una volta realizzato, le cose non siano più come prima.
 
FRANCESCO BOLLORINO: Connesso con la durata variabile vi è il concetto di “taglio sulla parola”. Puoi spiegare tecnicamente e teoricamente il significato clinico di tale  comportamento dell’analista lacaniano?

 

FRANCO LOLLI: La ridefinizione dello statuto dell’inconscio è, a mio avviso, uno dei contributi teorici più importanti dell’insegnamento di Lacan: non più serbatoio di pulsioni ribollenti, contenitore di pensieri conflittuali, deposito informe e minaccioso nel quale si agitano propositi inconfessabili (retaggio di una psicoanalisi ancora evidentemente influenzata da echi tardo-romantici), ma un discorso, il discorso dell’Altro, strutturato, pertanto, come un linguaggio. L’inconscio, preciserà Lacan nel corso del Seminario XI, è discontinuità, è faglia, è scansione, è pulsazione: è taglio. È, per semplificare, un discorso che si manifesta negli inciampi del discorso cosciente, che viene alla luce nella discontinuità del flusso verbale dell’io, che appare, dunque, come un battito, una pulsazione, un’improvvisa apertura che segnala il vacillamento della parola corrente. È la crepa che si spalanca per un attimo a lasciar intravvedere la verità che la spinta alla padronanza dell’io copre.
Il taglio della seduta – inteso come interruzione della libera associazione dell’analizzante su un punto di enigma, di indecisione, di sorpresa, di disorientamento (di manifestazione, cioè, dell’inconscio in quanto taglio) – evita la chiusura di quella faglia che la contingenza speciale della seduta ha consentito di aprire: il taglio della seduta opera contro la tendenza del discorso dell’io a ricoprire quel vuoto (di significazione, di logica, di pensiero) che l’inconscio, nel suo apparire, determina. La ‘felice interpunzione’ a cui Lacan fa riferimento indica proprio questa attitudine dell’analista a impedire, attraverso la chiusura inattesa della seduta, che l’io dell’analizzante strutturi il proprio discorso (di lamento, di intellettualizzazione, di padronanza, di ripristino della propria identità) al fine di esorcizzare il disorientamento conseguente all’emersione della dimensione (di per se traumatica) del taglio.
Il taglio della seduta, in sostanza, rende la seduta omologa allo statuto dell’inconscio: fa della seduta stessa lo strumento che, più di altri, si rivela in grado di provocare un lavoro sul non-saputo. Attraverso la tecnica dell’interpunzione, infatti, la parola sulla quale la seduta è chiusa palesa l’implicita risposta in essa contenuta: l’analizzante, in altri termini, incontrerà nel taglio al quale la sua parola è sottoposta, quell’esperienza di castrazione dalla quale, nevroticamente, si difende da sempre. Il fatto di ‘non poter dire’ riattualizza, infatti, in una forma diversa, l’impotenza originaria: l’enunciato troncato lo rinvierà alla posizione nella quale l’atto primordiale del taglio lo aveva collocato. Nuovamente, egli si troverà confrontato con la potenza del simbolico (con la disparità della relazione con l’analista), sottomesso ad un’azione di ‘mutilazione’ (del godimento della parola, in questo caso), assoggettato ad una richiesta di rinuncia con la quale dover fare i conti.
Il taglio sulla parola, in sostanza, è, di per sé, un’interpretazione che, senza parole, indica all’analizzante la questione con cui deve misurarsi: l’enunciato ‘tagliato’ presentifica l’impossibilità del soggetto di sottrarsi alla legge della castrazione, ovvero, alla posizione che, in risposta a questo impossibile, il soggetto si è sintomaticamente ricavato.
 
FRANCESCO BOLLORINO: Mi sembra che vi sia una dicotomia tra dominio del tempo (proprio della tecnica lacaniana) e dominio del timing (proprio della tecnica freudiana classica) accomunati dalla necessità o dal tentativo da parte dell’analista di intervenire nel momento migliore per creare consapevolezza nel paziente. Che ne pensi?

 

FRANCO LOLLI: In base alla mia esperienza, non credo che la vera posta in gioco in una cura psicoanalitica riguardi l’aumento del livello di consapevolezza nell’analizzante. Non è la consapevolezza ad agire sul sintomo; non è un guadagno di tipo cognitivo ad assicurare l’attenuazione della sofferenza. Anzi: accade molto spesso di ricevere persone che mi raccontano di percorsi psicoanalitici precedenti, nei quali hanno fatto un ottimo lavoro: ora – mi dicono – si conoscono molto più di prima, hanno isolato i punti problematici della propria esistenza, sanno cosa fa loro male, e così via, ma, ahimè, stanno ancora male, soffrono tuttora con la stessa intensità di prima, non hanno ricevuto, in anni di analisi, un effettivo sollievo al proprio malessere. Il sapere, in altri termini, non cura: bisogna avere a mente questo dato clinico inconfutabile. Il sapere non intacca l’economia libidica dell’essere umano: sapere e godimento, in questo senso, non si articolano in alcun modo. La cura psicoanalitica, allora, è tale solo se contempla al proprio interno – formalizzata teoricamente (come propone Lacan) o agita inconsapevolmente (come spesso mi capita di sentire in colleghi di altri orientamenti) – la possibilità che l’analista sia in grado di incrociare il piano simbolico (che è quello sul quale si fonda il dispositivo analitico, per l’appunto, un dispositivo basato sul ‘dire’) con il piano reale (che è quello nel quale il sintomo dell’analizzante affonda le proprie radici). Del resto, la vera scommessa della psicoanalisi (intesa come cura del disagio psichico) è tutta in questo interrogativo essenziale: come può una pratica simbolica intercettare (ed agire su) un piano esistenziale ad essa del tutto estranea (quello del godimento)? Come può la parola, cioè, modificare il rapporto del soggetto con l’aldilà del piacere (al quale l’umano irrimediabilmente tende)? O meglio: che parola deve esser ‘detta’ affinché la ripetizione libidica interrompa il proprio circuito coattivo e alienante, affinché, cioè, la soddisfazione pulsionale risulti modificata?
La pratica della seduta a tempo variabile (tanto più se breve) punta esattamente a promuovere questo incontro: far sì che il dispositivo simbolico (il setting analitico) si modelli in funzione della materia (il reale) che intende trattare, che presentifichi al proprio interno la dimensione asemantica del significante che è il fondamento stesso del sintomo, che metta in scena l’impatto (traumatico) con il non-senso (che senso ha una seduta di pochi minuti?) su cui, come noto, si edifica la sofferenza del soggetto.   
 
FRANCESCO BOLLORINO: Nella tecnica tradizionale per certi versi tutto si conclude all’interno della seduta mentre con la tecnica lacaniana sembra che il working throught sia volutamente ed espressamente portato “fuori della stanza di analisi” con un lavoro affidato al paziente e alla sua introspezione. Che ne pensi?

 

FRANCO LOLLI: In effetti, la sospensione imprevista della seduta ha effetti di messa al lavoro dell’inconscio, anche – e soprattutto, aggiungerei – tra una seduta e l’altra. Questo per almeno due ragioni: la prima, di cui abbiamo già in parte parlato, è che il taglio della seduta lascia ‘aperta’ la questione che l’analizzante stava (a sua insaputa, spesso) in quel momento trattando. La seduta interrotta su un punto di enigma, su un’elaborazione inedita, su un ricordo appena affiorato, su un dettaglio mai notato prima, ecc. non consente scappatoie al soggetto: la seduta si conclude – su iniziativa dell’analista che ne decreta la fine – proprio nella fase della sua massima espansione, prima che l’io riaddormenti il discorso, ipnotizzando – come afferma Lacan – lo stesso analista. Il varco schiuso in seduta resta tale anche al suo termine: la seduta successiva risentirà favorevolmente di tale contingenza speciale. Occorre precisare che questa pratica richiede una grande sensibilità dell’analista nel saper valutare la capacità dell’analizzante di tollerare l’angoscia che una mancata risoluzione conclusiva del discorso può comportare. L’analista deve essere in grado di dosare la pratica della variabilità temporale della seduta, di calibrarla sulla singolarità del caso, di applicarla non come strumento indifferenziato valido per tutti ed in ogni situazione, ma come ‘arma’ specifica, utile solo se ben calcolata nei suoi possibili effetti. Tra questi, in primo piano l’effetto transferale: l’analista deve essere consapevole che l’introduzione di tale ‘tecnica’ tende ad infiammare il transfert. Entriamo, così, nel secondo fattore di stimolazione del lavoro inconscio. Chiudere la seduta in anticipo rispetto alle attese del paziente, senza alcun preavviso, senza giustificazione apparente, senza una chiara ragione, esige che l’analista sia avvertito e pronto a far fronte alle dinamiche transferali che, con il suo atto, innescherà. L’analizzante non informato della pratica della seduta a tempo variabile resterà, infatti, disorientato: si chiederà (e chiederà all’analista) il perché di un tale atto, che gli apparirà inevitabilmente velleitario e ingiustificato. Si interrogherà, pertanto, su cosa ha spinto l’analista a interrompere la seduta in un tempo anticipato e, di conseguenza, si aprirà per lui la questione del desiderio dell’Altro: la domanda, infatti, che si imporrà da quel momento in poi sarà cosa l’Altro (l’analista, innanzitutto) voglia da lui, domanda che, sollecitata in questo modo all’interno del percorso analitico, riproporrà, enfatizzandolo transferalmente, l’enigma del desiderio dell’Altro – tout court – di cui egli si sente oggetto. Ecco, dunque, in che modo la variabilità temporale della seduta slatentizza il materiale inconscio connesso alla questione del desiderio dell’Altro (che, per il soggetto nevrotico, è la questione fondamentale, l’interrogazione intorno alla quale il suo inconscio organizza il destino).
 
FRANCESCO BOLLORINO: Ritieni possibile esportare il tempo variabile dentro setting non lacaniani ovvero utilizzare il tempo variabile come uno strumento di miglioramento della qualità clinica dell’intervento psicoanalitico?

FRANCO LOLLI: Credo che l’invenzione della seduta a tempo variabile sia stata un’importante operazione di aggiornamento della tecnica psicoanalitica, resa necessaria dal logoramento della prassi analitica tradizionale, non più così efficace – come, in effetti, lo era stata ai suoi esordi – nel trattare sintomi sempre più resistenti alle ‘lusinghe’ della parola. “Soltanto l’esperienza clinica potrà insegnarci quali modifiche siano necessarie per rendere accessibile la cura psicoanalitica a strati più vasti di popolazione, nonché per adattarla a intelligenze più deboli”: il proposito di Freud di allargare il campo di applicazione della psicoanalisi e di estenderlo al di fuori dell’universo nevrotico si è effettivamente realizzato. L’analista, attualmente, riceve domande di cura che non provengono più da soggetti dotati di quella sensibilità, di quella capacità introspettiva, di quel livello culturale, in buona sostanza, di quei requisiti che – come raccomandava Freud – sono stati considerati, per decenni, indispensabili ai fini del buon esito del trattamento. Le persone che, oggi, si rivolgono allo psicoanalista sono soggetti in difficoltà, spesso con psicosi non scatenate, con dipendenze rovinose, con pratiche distruttive inarrestabili, soggetti che la clinica psichiatrica definisce borderline, e ancora, soggetti con crisi di angoscia, con sintomi psicosomatici, con stati depressivi, con sintomi il cui valore metaforico è pressoché eclissato dalla prepotenza compulsiva del godimento. Il dispositivo analitico classico non può non adattarsi a queste nuove forme di sofferenza psichica, nelle quali lo scarso transfert sulla parola e la tendenza ad affidare all’Altro la responsabilità (del proprio malessere così come della propria ‘guarigione’) rendono inoperante la tradizionale postura dell’analista.
L’analista cadavere, imbalsamato nella sua classica attitudine di attesa, ridotto a puro strumento di ascolto, a cassa di risonanza delle parole del suo analizzante,  descrive una modalità  di stare in seduta non più conforme alle domande ‘mute’ che riceve. Occorre, in altre parole, che il paziente, dominato dalla pulsione di morte nelle forme invadenti ed eccessive che la contemporaneità manifesta, abbia la possibilità di incontrare nell’analista qualcosa di vivo, di vitale e vitalizzante, capace, cioè, di attivare un desiderio di vita e un rinnovato slancio ‘erotico’ – spesso sepolti dal godimento conservativo del sintomo – tali da favorire il suo reinserimento nel discorso. Se, come ben sappiamo, nella classica cura del soggetto nevrotico, è la ricerca del sapere a svolgere questa funzione di ‘rianimazione’, di risveglio, di riaccensione del motore libidico, nelle nuove forme di sofferenza che quotidianamente incontriamo, questa dimensione del transfert risulta drammaticamente sterile, inattiva e, il più delle volte, assente. Mentre nella clinica tradizionale, infatti, il soggetto si rivolge allo psicoanalista sulle tracce di un sapere che lo liberi dall’impedimento ad accedere al godimento (bloccato dal sintomo che ne assicura, tuttavia, uno clandestino, vissuto, a sua volta, come inaccettabile), nella clinica contemporanea, è prevalente il ricorso allo psicoanalista – spesso, peraltro, non spontaneamente – come tentativo di regolazione del godimento, come richiesta di liberazione dalla pressione eccessiva della pulsione che reclama una soddisfazione che si disinteressa degli effetti che determina. Non è sulla cupido sciendi del suo analizzante che l’analista può, nelle fasi inaugurali del trattamento, fare affidamento. Il suo compito primario, propedeutico ad ogni possibile sviluppo terapeutico, è, allora, quello di mobilitare un inaugurale interesse verso il ‘luogo di cura’, in grado di stimolare il desiderio di tornarvi, desiderio che, come già detto, non può in alcun modo esser dato per scontato. Per far questo, per ‘affezionare’ alla pratica della parola un soggetto che non ha transfert sulla parola stessa e che non trova nella relazione con l’altro un appagamento minimamente paragonabile a quello garantito dall’autismo sintomatico, ebbene, per generare un simile aggancio al dispositivo di cura, la posizione di attesa dell’analista è senza dubbio inefficace: egli non può contare su nessun appeal personale e su nessuna suggestione che non sia legata, direttamente, al suo atto. La possibilità che il paziente si ripresenti alla seduta successiva non dipende in alcun modo da quel fascino che la pratica della psicoanalisi ha esercitato su una fascia (di medio-alto livello culturale) della popolazione occidentale e di cui la psicoanalisi stessa ha, in passato, beneficiato: nella clinica dei sintomi della contemporaneità, non c’è transfert sulla psicoanalisi, di cui il singolo analista possa diventare, nel luogo in cui pratica, il destinatario. Il transfert va interamente costruito: e costruito, per giunta, in alternativa a transfert ben più solidi, in antagonismo a ‘sirene seduttorie’ che promettono risultati maggiori ed in tempi minori, in opposizione ad un discorso sociale che svaluta la ‘lentezza’, la gradualità, l’assimilazione progressiva, le rifiniture dei dettagli, la consapevolezza dei propri limiti, il saperci fare con il proprio sintomo, tutti attributi che la psicoanalisi sostiene e difende. L’effetto agalmatico dell’analista non può, pertanto, fondarsi su alcun fattore che non sia generato direttamente dalla ‘persona’ dell’analista, dal suo atto, dal suo modo di porsi, di accogliere, di essere presente, di intervenire, di salutare: dall’immediatezza, insomma, dei primi contatti con il paziente. È dal saggio di quanto accaduto nelle prime sedute, dagli effetti che si sono prodotti nei primi colloqui (e non dalla supposizione di trovarsi al cospetto di un ispirato discepolo di Freud) che deriverà l’eventuale disponibilità del potenziale paziente al dispositivo di cura. Deve sin da subito, in altre parole, accadere qualcosa che susciti un interrogativo, qualcosa di sorprendente che stimoli l’attenzione e l’interesse di un soggetto fino a quel momento incapsulato in un regime di godimento antidialettico e reso indifferente alle vicende relazionali. L’analista che si presta ad accogliere domande disarticolate (delle non-domande, in senso classico) ha il difficile compito di promuovere, nel più breve tempo possibile, un trasporto affettivo nei confronti delle possibilità della parola, un coinvolgimento della libido – presa interamente dal circuito autoreferenziale del sintomo – nell’evento che si consuma in seduta. La seduta a tempo variabile consente all’analista di ottenere, a questo riguardo, un duplice effetto: per un verso, gli permette di intervenire sulla reiterazione del lamento (intorno al quale ruota il discorso dell’analizzante), lamento attraverso il quale il soggetto non solo si mantiene a distanza dall’implicarsi nel disagio di cui soffre, ma, soprattutto, camuffa la soddisfazione inconscio che il sintomo gli assicura. Un taglio improvviso della seduta scompagina tale difesa del godimento implicito nell’esercizio della parola vuota, generando sconcerto, perplessità, sbigottimento: provocando, in altre parole, un reale disturbo nell’economia libidica. Contemporaneamente, l’atto dell’analista pone l’analista stesso in una posizione inattesa, di inaspettata vitalità. Egli, nell’imporre il suo atto, si manifesta vivo, presente, attento: non l’inerte spettatore di una scena organizzata dalla prepotenza del sintomo, ma un ‘interlocutore’ vivace, capace di prendersi la responsabilità di frustrare la soddisfazione che il dichiararsi insoddisfatti e infelici assicura, che corre il rischio di suscitare repliche irritate e di ‘risvegliare’ nel proprio analizzante una reattività all’Altro che il sintomo aveva insabbiato. La seduta a tempo variabile isterizza la relazione analitica, sensibilizza l’analizzante alla presenza dell’Altro, lo porta ad interrogarsi, a tentare di capire il perché dell’atto dell’analista, a volerne sapere. Il suo utilizzo, calibrato, ovviamente, sulla situazione specifica e – lo ripeto – calcolato nelle sue eventuali conseguenze, mi sembra che rappresenti una delle possibilità di maggiore efficacia nella cura psicoanalitica: la sua diffusione in ambiti extra-lacaniani dipende da quanto gli stessi analisti lacaniani sapranno farne un uso eticamente all’altezza dei principi che ne sono alla base e da quanto sapranno dimostrarne, all’intera comunità analitica, il valore clinico.
> Lascia un commento

Commenti

Un giorno lamentai il fatto che, a mio parere, la seduta era troppo breve. Durò un minuto. Poi venni messo fuori. Nemmeno il tempo di sedermi, di accomodare la fila sei significanti. 70 euro per un minuto, nel quale non feci nemmeno in tempo a pronunciare una vocale.
‘E’ la seduta variabile, come l’ha definita Lacan!’ era la rabbiosa reazioen dle terapeuta. reazione. Nulla di significante, nulla di realmente pregnante. Il taglio non apriva ad alcun  discorso, nemmeno faceva risaltare elementi di sorpresa.  Per me , era solo questione di tempo,  non di parola piena tagliata mente scorre su qualcosa di importante. 11.20. Questa era l’ora magica nella quale egli chiudeva la porta dello studio, per prendere un treno. Ogni lunedì, le sedute finivano alla 11.20.
Un giorno eravamo in tre. Un altro in sette. Un ‘altro ancora in dodici. Il tempo di chiusura di ciascuno era pensato in maniera tale che , immancabilmente, la giornata di sedute terminava alle 11.20. Mesi e mesi con questo andazzo.
‘ Io non credo che lei usi  la tecnica lacaniana della quale parla, credo che ciascuno non ottenga un taglio significante’. Credo invece che tutto sia centrato all’orario del treno’
‘pazzo, psicotico!” Una parte di lei non risponde, lo vede? E’ un nucleo non addomesticabile’

Credo che il contributo di Franco, valido come quello di Annalisa e di quello di Alex, rigoroso in termini teorici, ci ponga dinanzi a un taglio affascinante.
Si conclude con il riferimento alla dimostrazione dell'efficacia di una prassi, quella appunto delle sedute variabili e/o brevi da parte di colleghi lacaniani. Questo implica evidentemente il rendersi disponibili a un confronto con i colleghi anzichè il bloccare un dibattito. Ben vengano, dunque, altri contributi di stampo lacaniano.
Tale taglio lascia anche spazio alla diffusione delle sedute di tempo variabile in ambiti extra-lacaniani. Secondo me, sarebbe ottimo se la redazione di POL.it rilanciasse la discussione proponendo a clinici non lacaniani, che svolgono comunque sedute di tempo variabile, di motivare e argomentare e problematizzare la propria prassi.

Due considerazioni marginali rispetto alla compatta ricostruzione teorica delle sedute variabili, offerta da Franco Lolli. La prima riguarda l'incompatibilità tra sapere e godimento. Il sapere acquisito in analisi non altera il godimento dell'analizzante solo se è l'applicazione del sapere dottrinario della scuola dove l'analisi avviene. Il sapere autentico, estratto dalla rimozione originaria grazie all'analisi, quello sì produce reali cambiamenti nella sofferenza del soggetto.
La seconda considerazione è più astratta e riguarda la posizione dell'analista, che non è quella del Grande Altro, ma quella del piccolo oggetto del desiderio, l'oggetto freddo, come lo chiamò Freud in una riunione del mercoledì sera 9 marzo dell'anno 1910, dove propose la nozione di controtransfert. "Si pensa con il proprio oggetto", è Lacan stesso a ricordarlo nel Seminario XI. Se l'analista non assume la posizione di oggetto, non ci può essere né analisi del transfert, da parte dell'analizzante, né analisi del controtransfert, da parte dell'analista. In parole povere, si fa analisi con il proprio oggetto. E questo vale sia per l'analista sia per l'analizzante. La variabilità delle sedute è secondaria e strumentale all'analisi dell'oggetto e con l'oggetto.


Totale visualizzazioni: 5962