Tra la pubblicazione della prima e quella della seconda parte di questa intervista, si è spento il 18 luglio Franco Giberti (1926-2017), prima giovanissimo partigiano sull’Appennino chiavarese e poi fondatore e per molti anni direttore della Clinica psichiatrica dell’Università di Genova, che Francesco Bollorino ha ricordato su questa rivista . Come Antonio Slavich, del quale si sta qui parlando con Horacio Czertok, è stato un protagonista della storia recente della psichiatria in Liguria, e ad entrambi io sono debitore di molto della mia formazione di psichiatra. Credo che ci sarà modo di riflettere, in futuro, sul suo insegnamento, sulla sua idea dello psichiatra e sulla sua idea della formazione alla psichiatria. Oggi credo che sia il momento di esprimere un sentimento di gratitudine per quanto ha dato a me come a tanti allievi della Clinica, e la vicinanza in questo momento triste ai suoi familiari.
8. Qualche pagina dopo, Slavich traccia di te questo ritratto: «Horacio Czertok giovane già assomigliava un po’ a Mangiafuoco, con la sua mole arruffata e con l’occhio ironico e obliquo; era dotato della necessaria durezza decisionale dell’impresario, ma per manifestare la sua dolcezza d’animo non aspettava certo di sentirsi chiamare commendatore». Ed aggiunge: «Multiforme l’ingegno», elencando con gratitudine le tue doti versatili di esperto di video, fotografo, manager, archivista rivelatesi preziose per quell’esperienza. Mi interessa particolarmente, ora che ho l’occasione di incontrarti, sapere invece che ritratto faresti oggi tu di questo maestro che ha avuto per me una grande importanza durante la formazione alla psichiatria.
Uomo di solida cultura classica. Discutevamo appassionatamente di Bloch il cui Prinzip Hoffnung, insieme al dettato gramsciano, doveva guidare il nostro lavoro. Antonio vibrava. Sembrava sempre qualche hertz più in la: noi si va a 50 hertz lui andava a 60. Era un puro, con tutti i problemi che i puri si tirano dietro. Odiava la codardia, la corruzione, il pressapochismo – con quanto entusiasmo dibattevamo su Heidegger e il suo disprezzo per l’à peu près del pensiero borghese. Odiava i voltagabbana, i tiepidi, gli accomodanti. Ho amato quell’uomo impossibile. Del resto potevo amarlo perfettamente, già che ero un teatrante, un mangiafuoco, non avevo problemi di carriera, di servitù di alcun tipo. Servivamo insieme Dei diversi, con la stessa intransigenza, lui la giustizia sociale, io il teatro.
9. Slavich ricorda anche, sempre nel libro, il tuo prezioso supporto organizzativo alla riuscita del convegno La scopa meravigliante, un mix azzeccato di creatività artistica e pratica antiistituzionale appena alla vigilia dell’approvazione della legge 180. Hai qualche ricordo che puoi regalarci di quelle giornate?
L’incredulità negli occhi di tutti i militanti: era legge. Avevamo vinto. ERA LEGGE. Ora non c’erano più alibi per nessuno. Cambiava il paradigma, e per sempre. Ci sarebbero stati, ci sono stati, tradimenti, ritardi, contestazioni, corruzione: questa è la terra, questi sono gli uomini. Ma ora era legge, che i manicomi sono iatrogenici, che il manicomio non guarisce ma fa ammalare. Con straordinaria puntualità e opportunitàe tempismo – ma conoscendo Antonio, lui doveva avere anche doti medianiche -avevamo allestito quella festa convegno che fu La Scopa Meravigliante. Certo, ora che la legge era Legge, bisognava vedere quanto entusiasmo ci mettevano nel provare a salire sulla plancia di comando quelli che fino a qualche mese prima avevano fatto quanto possibile per affondare la nostra navicella. E lì, Antonio era Achab: avrebbero dovuto guadagnarseli, i galloni.
Una colossale festa mobile, che impegnò la città attonita, la televisione – allora solo 2 canali pubblici – e RAI2 stette con noi per ben due giorni, licenziando servizi come se fosse una guerra. E i giornalisti delle testate nazionali. Ferrara era diventata, con Gorizia-Trieste, la capitale della rivoluzione psichiatrica.
10. Qual è stato, secondo te, più in generale il ruolo degli artisti – e dei teatranti in particolare – nel movimento antiistituzionale che ha portato alla riforma della psichiatria in Italia?
Posso parlare solo della mia visione, necessariamente parziale. In generale l’artista tende ad avere un atteggiamento idolatrico, farisaico, dei vari aspetti di ciò che conveniamo nel chiamare malattia mentale, perché la mente non si sa cosa sia esattamente, e comunque non potrebbe esistere prescindendo dal corpo in cui insiste. Supposto che l’artista sia esso medesimo in salute, il che è da verificare, se è vero con Grinberg –già citato – che siamo tutti nevrotici, e secondo le statistiche europee un bel quarto della popolazione soffre di un qualche disturbo, basta guardarsi attorno; l’artista in genere ha scarsa cultura e conoscenza della cosa nel senso di chose. Parla per sentito dire, pensa con i luoghi comuni della sinistra libertaria o dell’anarchia. Tutto è sociale, la mattità non esiste.
Invece purtroppo esiste: se l’artista vuole collaborare con la psichiatria, occorre che si faccia una cultura. Che possa discutere, dibattere, confrontarsi con gli operatori di qualsiasi livello, a livello.
Le buone intenzioni non bastano e spesso come nel detto, lastricano la strada per l’inferno. Supposto che non ci si stia già lì: infatti il punto di contatto è l’ossessione. La gente comune sfugge dall’ossessione, il matto la soffre, l’artista la coccola. No ossessione, no arte. L’artista approccia il matto con autentica curiosità, come l’antropologo si confronta con un esponente di una minoranza etnica composta da un solo soggetto, che usa un linguaggio solo da esso conosciuto, che ha un immaginario paradossale (per gli altri). Stabilita la vicinanza, si mette in comune la paura oppure il vero e proprio terrore alle allucinazioni, alle voci, alle visioni; che artista e matto condividono. Questo è il punto: l’artista non vuole guarire, se mai curare nel senso di prendersi cura – di qualcuno che sente più fragile: l’artista vuole condividere. Condividere le ossessioni. Occorre certo competenza, per guidare e soprattutto per farsi guidare senza far danni.
Ecco, stanti queste osservazioni, gli artisti sono stati validi alleati per la riforma, soprattutto dando visuali, proponendo scenari possibili e desiderabili, sublimando terrori ancestrali in spettacolazioni meravigliose.
11. Nel corso del nostro incontro hai sottolineato l’importanza di una dimensione mitica per il lavoro psichiatrico, o forse potremmo dire più generalmente nelle professioni di aiuto, quelle soprattutto che hanno a che fare con la dialettica persona/istituzione, controllo/libertà. Ritieni che oggi questa dimensione sia ancora importante, o dopo l’esaurirsi della generosa spinta al cambiamento degli anni ’60-’70 sia venuta ormai meno?
L’orizzonte mitico è spesso sottovalutato nella psichiatria. Ieri c’erano 220mila persone paganti a Modena, a celebrare con Vasco un rito le cui derivate nel mito sono di tutta evidenza. Già Aristotele analizza la catarsi che si produce quando gli spettatori entrano in risonanza con il mito fatto storia attraverso la messa in (evidenza) scena, e i positivi effetti di questa catarsi – da non esagerare. Siamo poco attrezzati. Se ti arriva Gesù Cristo in ambulatorio, caro dottore, cosa ci fai? Uno convinto di essere il figlio di Dio? Come si fa a sapere qual è quello buono, quello giusto? Infatti gli ebrei del sinedrio se la presero a male – è vero che ancora non era uscito Freud laggiù – e lo delegarono a Pilato, il quale non era uno psichiatra, dispiace per Gesù. Non avendo antipsicotici, la croce.
Che io ritenga o meno la dimensione mitica importante ha poca importanza. C’è dappertutto e cresce. Guardate cosa ne ha fatto Zuckerberg del bisogno di “dimensione mitica” che ognuno ha: quanti miliardi di feisbukari ci sono in giro? E cosa celebrano, se non il proprio bisogno di mito? E come entrare in relazione con questo, se non conosciamo la etnoantropologia, se non conosciamo il teatro? E cosa ne fa la pubblicità, della dimensione mitica, per venderci il mondo?
12. Dopo l’esperienza nell’Ospedale psichiatrico, oggi lavori da dodici anni in carcere. Quali analogie e quali differenze hai riscontrato nel lavoro in queste due situazioni?
Altra istituzione totale, come il manicomio il carcere è un totale fallimento, dal punto di vista della sua ontologia. Ricadute attorno al 70%. Costa miliardi e produce solamente sofferenza, niente cambiamento etico antropologico. Soffrono i detenuti, soffrono le guardie, soffrono le famiglie, soffrono i figli dei detenuti e delle guardie. A che pro? La differenza col manicomio, probabilmente e fino a un certo punto, sta nel fatto che normalmente si delinque in coscienza. Se fai una rapina, sai che commetti un crimine. A parte i casi psichiatrici – che non son pochi, e comunque è spesso difficile stabilire una differenza – la maggior parte sa perché sta lì.
Come per il manicomio, io opero per il superamento del carcere, con la passione che ho. In carcere, mi comporto come se il superamento fosse già stato raggiunto: così lavoro con i “miei” detenuti. Il teatro agisce sui detenuti, sui loro familiari, sul personale del carcere, sulla società di riferimento. Non sono illusioni: le statistiche dicono che tra i detenuti che praticano il teatro in modo serio e continuativo, la ricaduta è inferiore al 20%.
13. Posso chiederti ancora qualcosa di più sul tuo lavoro in carcere, e sullo spettacolo Il mio vicino che hai messo in scena insieme a un detenuto tunisino, Moncef Aissa?
Spesso mi chiedono perché faccio teatro in carcere. Perché ci ostiniamo nel tenere vivo lì il laboratorio teatrale. Perché accettare questa durezza che ogni giorno il carcere impone a noi come a tutti quelli che sono lì a fare la loro parte.
Mi sono trovato a rispondere: queste persone qui, i detenuti, prima o poi usciranno e verranno a vivere vicino a casa mia: come voglio che sia il mio vicino di casa?
La legge ci autorizza a partecipare nel “percorso trattamentale” da normali cittadini, che è poi quello che siamo in carcere, con l'autorevolezza che la nostra pratica ha guadagnato sul campo. Abbiamo pensato che se possiamo, allora dobbiamo farlo.
Così, durante circa tre anni ho lavorato in carcere con Moncef Aissa, un cittadino tunisino detenuto.
Insieme, e partendo da "luoghi culturali" estremamente diversi, abbiamo fatto un buon percorso.
Un bel giorno esco da casa e chi ti trovo lì per strada in bicicletta? Moncef.
Gli dico "Cosa ci fai qui? Sei scappato di prigione?". "No" – risponde – "sono libero ora". "Ma cosa ci fai qui?". "Ah io qui ci vivo!".
Sulla mia strada. A trenta metri da casa mia.
Così è nato questo spettacolo: sul filo del racconto delle tante cose che ci siamo trovati a vivere con il teatro nel carcere e che ci hanno fatto crescere, su questa rotta che porta da Buenos Aires a Ferrara e che passa dalla Tunisia, un tragitto fatto di storie, poesie arabe, canzoni argentine, Totò, Oscar Wilde e tutta l'infinita travolgente diversità delle nostre rispettive visioni.
“Il mio vicino” vuole narrare la costruzione di una terra possibile, fatta di parole, gesti e poesia a partire dall'incontro di due “destierradi”, come si direbbe in spagnolo, due esseri ai quali la terra è stata tolta per volere di qualcun altro: Moncef, detenuto originario della Tunisia, e Horacio, costretto all’esilio dalla sua Argentina dopo il colpo di stato di Videla.
Un incontro avvenuto in una “terra di nessuno”: il carcere, una “no man's land” piena di sofferenza.
La diversità culturale, naturalmente presente nel percorso che facciamo in carcere, e con la quale dobbiamo fare i conti anche quando siamo a due passi da casa nostra, è l'elemento fondante non solo di questo spettacolo, ma di grossa parte della nostra pratica teatrale da ormai 40 anni.
È il “quid” attraverso cui ancora facciamo scoperte, ci sorprendiamo, cresciamo e nutriamo il nostro immaginario… diventiamo insomma uomini migliori; questa nostra diversità, coltivata con cura tra le dure mura del carcere e custodita nella nostra collaborazione artistica, è ciò che, attraverso lo spettacolo Il mio Vicino vogliamo condividere, per capirla meglio, per entrarci ancora più dentro, perché solo nella condivisione e nell'attraversamento delle barriere tra “Te e Me” si capisce di cosa siamo fatti per davvero.
14. Sandro, cosa ti sta dando l’esperienza teatrale con Horacio nel tuo lavoro di psicologo del servizio pubblico, in particolare per ciò che riguarda la conduzione del Centro diurno di via Castelli?
Frequentando il Teatro Nucleo di Horacio Czertok e Cora Herrendorf ho avuto modo di cogliere le infinite potenzialità del teatro come strumento conoscitivo e relazionale, caratteristiche che rivelano la sua natura in quanto dispositivo utile e potente ovunque ci sia una comunità che ha la necessità di raccontarsi.
La dimensione fondamentale del teatro è la relazione attraverso un’esperienza fondamentalmente ludica: relazione con se stessi, relazione con gli altri attori, relazione con il pubblico. Infatti i luoghi elettivi per l’immissione della teatralità sono tutti quelli in cui la relazione ha bisogno di essere rigenerata. Di solito sono luoghi in cui le persone hanno sofferto un fallimento comunicativo oppure dove le condizioni esistenziali e soggettive schiacciano le possibilità espressive dell’individuo. Questi rischi occorrono sovente la dove, per esempio in un’istituzione che si fa garante della condizione d’emarginazione del patto sociale (carcere, periferie, ospedali, comunità varie), vengono sacrificate le dimensioni espressive e le potenzialità narrative rigeneranti dei soggetti. L’esperienza teatrale lavora tentando di smontare e rinarrare le convenzioni. L’individuo viene “invitato” a esplorare il suo mondo interiore, ricerca veicolata magari da un’ingenua espressività corporea ma che è segno di un desiderio di autoaffermazione e di autorappresentazione. La dimensione teatrale offre alla parola mortificata a e al bisogno urgente di riconoscimento la possibilità di nuova linfa. Il percorso di teatro al Centro Diurno che stiamo cercando di realizzare fa proprie , o tenta di far proprie, queste potenzialità rispettando prima di tutto le individualità che hanno la voglia e il coraggio di mettersi in gioco, perché anche se di gioco si tratta la posta poi è sempre soggettiva.
N.B.: L’esperienza del Teatro Nucleo all’OP di Ferrara insieme ad alcuni momenti del convegno “La scopa meravigliante” e a due interviste ad Antonio Slavich e Franco Basaglia è documentata nel video “Teatro Nucleo. L’attore in manicomio (1977/78)”, disponibile su youtube, e qui riportato, del quale consiglio vivamente la visione.
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