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Una società siCura: dall’omicidio alla lettera all’omicidio della lettera.

14 Ago 17

Di g.mittiga
Abstract
This paper proposes to provide a reading of news of black chronicle in the context of Freudian theory of drives. A visionary written through which one recognizes that rest of the world, consisting of violent acts, it is nothing than a meeting with emergency of drive: a meeting which is perturbing and attracts curious and astonished look of the spectator, from which he too cannot escape. The in-human becomes a consequence of the lack of symbolic harness, to which the human being is subject in order to live (dis)quiet-ly. A safe society, therefore, it cannot exclude from itself the care of inhumanity of each one, but must offer opportunities for meetings with the word, care interventions that bring back to life the letter.
Abstract
Il presente lavoro si propone di offrire una lettura dei fatti di cronaca nera nell’ottica della dottrina pulsionale freudiana. Un visionario scritto attraverso cui si riconosce come il resto del mondo, fatto di atti violenti, non è altro che l’incontro con l’emergenza pulsionale: un incontro che perturba e attira lo sguardo curioso e attonito dello spettatore, da cui anch’egli non può fuggire. Il dis-umano diviene conseguenza del mancato imbrigliamento simbolico, cui l’essere umano sottostà per (in)quieto vivere. Una società sicura, quindi, non può esimersi dal curarsi del disumano di ciascuno, offrendo possibilità di incontri con la parola, di interventi di cura che tornino a vivificare la lettera.

Un uomo si fa esplodere, un uomo compie una strage, una madre uccide il proprio bambino, i figli uccidono i propri genitori, un fratello uccide il fratello, una sorella uccide il fratellino, un vicino uccide il vicino, un giovane uccide un gruppo di giovani, un uomo uccide una donna, una donna uccide degli anziani, un giovane si suicida, un gruppo di giovani mortifica e malmena un coetaneo, un’insegnante abusa di uno studente, un gruppo di insegnanti mortifica e malmena i piccoli allievi, allievi che mortificano e malmenano un insegnate, un padre abusa delle sue figlie, una madre si dimentica del proprio figlio, un uomo uccide un uomo…
«Questo è pazzo», «Questa non sta bene», «Ormai è un mondo di pazzi!», «Il singolo gesto di un folle».
“Som-notizia-tori”, palombari delle news. A prescindere dalla loro veridicità, si ha l’impressione di presenziare a un mondo estraneo e inquietante. Scorre il video, l’immagine, l’intervista nel letto di ospedale, fuori la scuola, nella casa, nell’aula, nel “luogo del delitto”, ai familiari dell’ormai cadavere o assassino, e con essi la curiosità di ciascuno si incarna nello sguardo di questa parata. Si è così chiamati, attratti e allarmati, da queste immagini, tanto doverle allontanare rapidamente, pensando che quello è solo il resto del mondo.
Queste immagini oggi sembrano occupare il posto di quello che una volta era luogo di altro, ovvero il luogo del perturbante per eccellenza: narrazioni, storie, miti, fiabe, romanzi, racconti, oggi detti “storytelling”. Già Freud (1919) esamina dettagliatamente cosa possa perturbare l’essere umano: a partire dallo studio etimologico della parola in lingue diverse, con l’attraversamento di narrazioni mitiche, poetiche e di superstizioni, fino all’approdo nel cuore del desiderio dis-umano (pp.81-114):
[…] comprendiamo perché l’uso linguistico consente al Heimliche di trapassare nel suo contrario, il perturbante (Unheimliche): infatti questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, bensì un qualcosa di familiare alla vita psichica fin da tempi antichissimi, che le è diventato estraneo soltanto per via del processo di rimozione.
[…] spesso e volentieri ci troviamo esposti a un effetto perturbante quando il confine tra fantasia e realtà si fa sottile, quando appare realmente ai nostri occhi un qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico, quando un simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato, e via di questo passo. […] che nel regno della finzione non hanno effetto perturbante molte cose che dovrebbero averlo se accadessero nella vita.
[…] La nostra proposizione non è evidentemente reversibile. Non tutto ciò che ricorda moti di desiderio rimossi e modi di pensare sorpassati dei primordi individuali e della preistoria dei popoli è per ciò stesso anche perturbante. […] Si tratta qui dunque semplicemente di una questione di prova della realtà, di un problema concernente la realtà materiale.
[…] Intendo dire che nell'inconscio psichico è riconoscibile il predominio di una coazione a ripetere che procede dai moti pulsionali: questa coazione dipende probabilmente dalla natura più intima delle pulsioni stesse, è sufficientemente forse da imporsi al di sopra del principio di piacere, fornisce a determinati lati della vita psichica il carattere demoniaco, si esprime ancora assai chiaramente in ciò cui aspira il bambino in tenera età e domina parte del decorso della psicoanalisi del nevrotico. Tutte queste spiegazioni ci predispongono a una scoperta: si percepirà come elemento perturbante ciò che può ricordare questa coazione interna a ripetere. […]
Stralci questi, che non hanno la pretesa di colmare esaustivamente il significato del termine, ma attraverso cui è possibile cogliere e appuntare – in senso sartoriale – qualcosa che ne abbia a che fare. Ciò che se ne può dire riguarda una “estrazione”: per-turba – turba come attraversamento – un incontro con una fantasia propria del soggetto, che da tempo sacrificata in nome della realtà sociale, ritorna proprio da questa.

Il solco tracciato dalla scienza psicoanalitica che ri-vela l’esistenza di una logica e di una dottrina pulsionale, che risponde agli interrogativi medici a cui lo scientismo non ha saputo dar soluzione – è lo psicoanalista che giunge lì dove il medico non trova margini di intervento – da tempo ha riconosciuto nell’uomo una costituzionale nostalgia dell’amor perduto, forza dei desideri incestuosi e parricidi, che soppressi e sepolti sotto coltri di fantasie, giungono a muovere il corpo nel mondo. Nelle nostre membra si muove Un digiunatore (Kafka F.,1922, pp.577):
«Ho voluto sempre che ammiraste il mio digiuno» continuò il digiunatore. «E noi, infatti, ne siamo ammirati» disse condiscendente il custode. «E invece non dovete ammirarlo» replicò il digiunatore. «E allora non lo ammireremo» rispose il custode, «ma poi perché non dobbiamo farlo?». «Perché sono costretto a digiunare» continuò il digiunatore. «Ma senti un po’» disse il custode «perché non ne puoi fare a meno?». «Perché io» disse il digiunatore, sollevando un poco la sua piccola testa e parlando con le labbra appuntite come per un bacio proprio all’orecchio del custode, «perché non riuscivo a trovar il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e gli altri». Furono le sue ultime parole, ma nei suoi occhi spenti si leggeva ancora la ferma, anche se non più superba convinzione di continuare a digiunare.
Niente è pienamente soddisfacente, se non l’insoddisfazione stessa: mancata offerta di qualcosa che ci piace, benché nulla piaccia mai abbastanza. Il digiunatore che abita le carni morirebbe per l’incontro con l’oggetto agognato, gustoso cibo che renderebbe la sua fame altrettanto insaziabile. Eppur qui non si muore. Nell’assennata ricerca di questo appagamento, per cui morire, si urta, ci si imbatte in altro: schegge brillanti, lucenti briciole di quell’amor perduto andato in frantumi. Inginocchiati e striscianti, li si raccoglie uno ad uno. È lo scambio, il baratto, con cui l’uomo permane in società, nel sociale, nel luogo condiviso con tanti altri. Ciò vuol dire che cinismo, humor nero, satira o le più ancor resistenti formazioni reattive dell’opera pia, per non parlar della produzione artistica e di tutte le operazioni di messa in parola, non son altro che camuffamenti di quell’antico desiderio del soggetto, non altro che assennata ricerca, spinta per il ricongiungimento all’amor perduto. E fintanto che esso resta astrazione, mito, racconto, fiaba, poesia, scherzo, esso è tollerabile, angoscioso sì, orribile pure, ma anche comico, stucchevole, estatico. Ma quand’esso non appartiene più al mondo della finzione, a quello della fantasia, della narrazione, ma diviene realtà, lì è l’incontro con il desiderio di parricidio e di incesto, ovvero, con il desiderio del possesso totalizzante ed esclusivo dell’altro, pallido riflesso del mitico ricongiungimento dell’amor perduto: omicidio alla lettera. È allora che la curiosità alimenta il digiunatore: è possibile morire, uccidere, uccidersi in nome di quella ricerca. È allora che ci si riconosce attratti dai dettagli macabri e piccanti di un omicidio, da cui si è altrettanto disgustati, increduli.

Perturbante è l’incontro con qualcosa di familiare, come questo desiderio o altri che questo dissimulano, che si ritrova fuori di sé, in un evento di realtà, sotto altra forma. Perturbante è l’incontro con il reale, ovvero, con la realtà pulsionale, con l’esistenza di una tensione alla morte, propria e altrui, in forza di un desiderio primordiale, da cui non si può fuggire. Lo sguardo è così attirato e l’orecchio è proteso per l’ascolto della miseria disumana, che lo riguarda proprio in quanto tale. Quante le volte in cui è necessario sottolineare il carattere di umanità – operazioni umanitarie – Perché? Che si sia perso il senso dell’umano? Che si sia inquietati dall’atto disumano? Come poterlo arginare?
Non uccidendo la lettera, non ammazzando la parola. Tutti gli omicidi e gli atti di violenza, dai più efferati a quelli “casalinghi”, portano in seno l’atto di un digiunatore vivo, che non è stato in parte sacrificato, affinché esso possa star nel mondo, e che, come invece accade per ciascuno, non si è inginocchiato e prostrato per la raccolta di quei brandelli della felicità perduta. Se allora il commento più diffuso ricade proprio sulla “salute mentale” di questi esseri dis-umani, disumani nella misura in cui sono erti di fronte al comune desiderio del beante, come può accadere che la loro lettera, la loro parola sia stata sino a quel momento inascoltata? Quanto quella stessa lettera tocca e chiama una a una tutte le fantasie più macabre di ciascuno, tanto da lasciare questi disumani isolati, muti, preda del proprio digiunatore e di chi se ne fa gioco e strumento, facendone mine?
Una società sicura è allora una società che si-cura (cit. Bergonzoni[1]), ossia che si curi del disumano, che ascolti per tempo la sua parola, che dia occasioni di parola, che dia lettere, che dia risorse a chi si occupa proprio di ciò, ovverosia, a chi ha votato il proprio digiunatore alla cura e alla cura del digiunatore. Lo sfilacciamento del tessuto simbolico della società odierna, povera di parole e ricca di immagini, pertanto, straccia le vesti del digiunatore, abiti che indossa per poter convivere con il resto del mondo. Quello di cui si riferisce in favore della sicurtà è, dunque, l’invito a un intervento, ad opera delle cosiddette “agenzie sociali”, che favorisca l’imbastitura di una piega – piegarsi, chinarsi – nella trama – in senso sartoriale e narrativo – del disumano digiunatore presente in ciascuno: un fine lavoro di punteggiatura di un testo altrimenti muto, ma vivo.

La sola forza con cui ancor oggi si nega la possibilità d’esser alla dottrina pulsionale, mostra il suo carattere pienamente vivo e attuale. D’altronde Freud, e chi è altrettanto restato nel suo solco, non aveva un particolare favore per ortodossia né per l’ortodo-zzina, e il suo tratto rivoluzionario si coglie tutt’ora.
L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Italo Calvino, Le città invisibili*

Nominativo di riferimento:
Giuliana Mittiga – g.mittiga@hotmail.it
 
Bibliografia
Calvino I., 1972, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 1993, pp. 164*.
Freud S., 1919, Das Unheimliche, in Imago, vol. 5 (5-6), pp. 297-324; tr. it. Il Perturbante, in Opere vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, pp.81-114.
Kafka F., 1922, Ein Hungerkünstler, in Die neue Rundschau, Jg. 33, Oktober Heft 10, pp.983-992; tr. it. Un Digiunatore, in Racconti, Mondadori, Milano, 1970, pp. 565-577.
 



[1] Intervento al XV Convegno Nazionale SLP, “Usi della diagnosi nella cura psicoanalitica. Posizione del soggetto e clinica dei Nomi del Padre”, 27-28 Maggio 2017, Torino.

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