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BARCELLONA: PRIGIONIERI DEL PRESENTE REMOTO

20 Ago 17

A cura di Sarantis Thanopulos

Gli attentati in Spagna ripetono lo spettacolo del terrore. La sua ripetizione periodica secondo meccanismi sfuggenti alla nostra capacità di prevederli e di gestirli emotivamente, ottunde la capacità di comprensione e ci spinge a registrarli interiormente come fatalità inevitabile.
Cercare risposte nel fanatismo religioso è fuorviante. L’integralismo islamico è usato come strumento affettivamente anestetizzante, più o meno come sostanza dopante.
Gli autori delle stragi non hanno un passato credibile di fedeli, spesso la loro adesione a stereotipi religiosi di discriminazione dell’altro è il prodotto di un cambiamento di visuale rapido. Non sono neppure dei veri e propri diseredati sociali, anche quando sono inseriti, in modo piuttosto marginale, in ambienti illegali. Le loro famiglie di origine appaiono, il più delle volte, piuttosto integrate, almeno sotto il profilo economico.
Questi automi che uccidono colpendo nel mucchio, sono in realtà disadatti totali (pure se vengono descritti come “normali”), degli psichicamente diseredati. Privi di qualsivoglia speranza di dare senso e profondità alla loro esistenza, sono costretti e ad agire al posto di sentire. Agli psicoanalisti è ben noto il fenomeno dell’acting: la riduzione in pura azione dell’immaginazione e dei sogni, nonché dei propri sentimenti e della possibilità di pensarli e significarli. Consente la scarica della tensione legata ai conflitti psichici e evita la fatica, a volte insostenibile, della loro elaborazione.
L’agire persegue necessariamente la demolizione delle propri emozioni e desideri e può condurre a seri danni esistenziali e materiali di sé e degli altri. Ha un carattere preterintenzionale (anche quando si ammanta di proclami) perché si dispiega come costrizione interna che priva di significato l’intenzionalità.
Tuttavia, anche nelle sue forme più estreme, che portano a una disumanizzazione delle relazioni, conserva un valore simbolico, il quale, non potendo essere colto dall’agente, è rivolto allo sguardo di un potenziale spettatore esterno, come ultimo inconsapevole appello alla possibilità di una significazione.
Il gettarsi con dei camion o auto sulla folla o l’uccidere per accoltellamento non sono una pura “convenienza” logistica. Hanno una loro valenza simbolica: la vita come violenza dell’ “incidente”, del caso, che annulla la causalità psichica (la possibilità di significarla) o la supremazia della forza inumana del “metallo” sulla “carne viva” dell’esperienza affettiva. La visuale esistenziale cieca dei diseredati psichici che uccidono per non vivere -identificandosi con il potere metallico della morte, della casualità, preterintenzionalità dell’esistere- si riflette nella cecità etica della nostra civiltà attuale che la genera. Viviamo in una terribile dissociazione tra qualità e quantità, tra desideri e bisogni, promossa da un sistema economico che ha espropriato la politica del suo ruolo, concentrando nelle sue mani un potere d’azione enorme. Senza per questo essere in grado di risolvere alcuno degli enormi problemi reali che ci attanagliano.
Secondo un’elegante espressione di Ginevra Bompiani, la nostra è l’epoca del presente remoto, dell’incapacità di essere vicini a ciò che accade, per poterne anche essere criticamente distanti. Moussa Oukabir, il diciassettenne protagonista dell’attentato alle Ramblas, ci parla di un’adolescenza senza futuro che ci sradica dal passato e rende il presente insensato: un puro accadere di fatti da cui possiamo solo tenersi lontani o finirne risucchiati, pensando di esserne artefici.

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