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50 ANNI FA LA MORTE DI GUEVARA

9 Ott 17

A cura di Paolo F. Peloso

Riprendiamo questa rubrica, che ha compiuto ieri 2 anni, dedicando questo 54.o intervento a un  fatto del quale da qualche giorno si sta parlando. Sono passati 50 anni, ma sembrano molti di più, da quel 9 ottobre 1967 nel quale, a La Higuera in Bolivia, veniva assassinato dal “soldadito boliviano” reso famoso da una triste canzone del poeta cubano Nicolas Gullién il “Guerilliero Heroico”, Ernesto “Che” Guevara.
All’indomani dell’annuncio della sua morte, mentre già ne circolavano sui maggiori quotidiani internazionali e italiani le immagini, in quei giorni di metà ottobre Franco e Franca Basaglia dedicarono al suo cadavere, esibito “come un trofeo di caccia” sulla stampa di tutto il mondo, un breve scritto[i]. “Che” Guevara morto, avvertivano i Basaglia, non fa più paura al suo nemico. Può così avere inizio quella che appare loro come una seconda uccisione, il processo di consegna del suo corpo al romanticismo e al mito, destinato a farne un prodotto di consumo tra gli altri sui poster e sulle T-Shirt e a separare così la sua figura da quelle plebi sfruttate dell’America latina e dell’Africa per le quali aveva combattuto con le armi l’imperialismo americano e i suoi mercenari, e per le quali era stato da essi ucciso. A quest’idea di un “Che” Guevara non solo ucciso dagli imperialisti ma da essi violentato dopo morto, appropriato e trasformato in un ingranaggio della loro macchina i Basaglia si ribellano, immaginando per il suo corpo morto un diverso destino: «noi vogliamo che il corpo di Che Guevara sia mortificato, violentato e offeso come lo era in vita. Vogliamo che si continui a ritenerlo il corpo della violenza, il corpo "sfacciato" della rivoluzione che continua ad esistere».

Ernesto Guevara era nato a Rosario 39 anni prima, il 14 giugno (o, secondo altri, 14 maggio) 1928, e si è laureato in medicina a Buenos Aires il 12 luglio 1953. Già allora, confesserà in seguito ai colleghi cubani, avrebbe voluto raggiungere la fama spendendosi per gli altri, coll’impegno nella ricerca del rimedio contro qualche importante malattia del quale l’umanità potesse giovarsi. Il viaggio in compagnia dell’amico Alberto Granado a bordo della motocicletta La poderosa II gli svelò le condizioni delle masse espropriate dell’America latina di allora come di quella di oggi: «cominciai così a entrare in stretto contatto con la miseria, con la fame, con le malattie, con l’impossibilità di curare un figlio per mancanza di mezzi, con l’abbrutimento che provocano la fame e l’oppressione continua, fino a fare sì che per un padre perdere un figlio sia un incidente senza importanza». Allora si rese conto che aiutare queste persone combattendo le condizioni della loro espropriazione poteva essere altrettanto importante che spendersi per loro eccellendo nella ricerca o nell’attività medica. Lo impressionarono particolarmente l’incontro con i lebbrosi al lebbrosario di Guambo e a quello di San Pablo, in Perù;  e quello con il medico socialista peruviano Hugo Pesce Pesceto (1900-1969), che si era laureato a Genova negli anni ’20 ed è oggi considerato uno dei maggiori leprologi latinoamericani[ii].
In realtà nella sua breve vita il “Che” non esercitò la professione medica se non per un breve periodo, in Guatemala e in Messico. E’ anzi noto l’aneddoto secondo il quale dovendo alleggerirsi durante una marcia della borsa degli strumenti sanitari o delle armi, scelse di mollare la prima[iii]. Nel brano che di seguito analizzeremo, appare chiaro come questa decisione debba essere riferita solo al momento e alla specifica situazione nella quale era stata presa, e non significhi che in generale il medico debba rinunciare a essere tale per farsi soldato. Nel suo discorso ai medici cubani del 1960, anzi, li esorterà a fare proprio il contrario: continuare ad essere operatori sanitari e servire la rivoluzione come tali, perché dopo che essa ha vinto il popolo ha altrettanto bisogno di operatori sanitari che lo curino che di combattenti che lo difendano. Del resto, pare che durante gli anni della guerriglia si prestasse a curare i compagni feriti, e quando ce n’era la necessità anche i nemici.
Di lui sono famose molte frasi, spesso estrapolate dal loro contesto. Una la amo particolarmente: «Bisogna essere duri, senza mai perdere la tenerezza». Certo è riferita a tutt’altra situazione, ma credo che a noi psichiatri possa essere utile ricordarcela in quei momenti difficili nei quali la relazione col paziente si inasprisce e ci troviamo, se così posso dire, obbligati a obbligare.
Oggi però mi piacerebbe ricordare il “Che” proponendo, dalla raccolta delle Opere, una sintesi del discorso che tenne il 19 agosto 1960 in apertura di un corso dedicato agli operatori della sanità pubblica cubana, El medico revolucionario[iv], del quale abbiamo già approfittato per la citazione a proposito dei suoi viaggi giovanili.
Il nucleo di quel discorso mi pare rappresentato da due punti.
Il primo riguarda la rivoluzione ed è che essa è tale solo se trasforma concretamente le condizioni degli sfruttati e degli esclusi, eliminando la fame e creando condizioni più idonee alla prevenzione delle malattie. La rivoluzione persegue perciò, nel momento in cui combatte la fame e la miseria con un’equa distribuzione delle cose che servono per vivere, obiettivi che sono concomitanti con alcuni di quelli della medicina, in particolare preventiva, e della salute pubblica. Solo, lo fa con maggiore consapevolezza della loro relazione con la questione del potere.
La rivoluzione, certo, non può concentrarsi solo su questo obiettivo ed è costretta a investire energie e risorse anche nelle armi per la propria affermazione e per la propria difesa. Ma non c’è nessun compiacimento per questo, nessun amore romantico per la lotta, la guerra o la guerriglia nelle parole pronunciate in quell’occasione da parte del “Che”; si tratta appunto di una necessità alla quale l’attacco del nemico costringe, e della quale sarà bello potere, un giorno, fare a meno. 
Il secondo punto riguarda più direttamente ciò che il medico deve cambiare di se stesso per trasformarsi in un medico rivoluzionario. Per essere medico rivoluzionario – il” Che” esortava quel giorno i colleghi – è necessario diventare un uomo nuovo per essere un medico nuovo, e in questa esortazione sta forse il nucleo principale del suo pensiero sull'uomo, la sua natura e il suo destino. Un uomo che in primo luogo sia, e si percepisca, come parte di un popolo che fa la rivoluzione, e questa possibilità è presente a Cuba in quel momento.
Nella rivoluzione, il medico deve anche essere consapevole della particolare responsabilità che ha proprio in quanto medico, perché: «Sempre, accada quel che accada nel mondo, il medico, per il fatto di essere tanto vicino al paziente, per il fatto di conoscere tanto di ciò che è più profondo della sua psiche, per il fatto di essere la rappresentazione di qualcuno che si avvicina al dolore e lo mitiga, ha un lavoro molto importante e di molta responsabilità sociale». Ma il medico rivoluzionario deve comunque avvicinarsi al popolo con umiltà; non per fare carità dall’alto in basso, ma per manifestare solidarietà in modo paritetico; quella solidarietà che nasce dal fatto che il medico e il popolo sono consapevoli di partecipare entrambi a un’esperienza comune, quella  di costruire in quel momento una Cuba diversa, e di lottare insieme per difenderla.
Essere rivoluzionario significa per il medico essere cosciente che «vale milioni di volte di più la vita di un solo essere umano, che tutte le proprietà dell’uomo più ricco della terra». E che per chi ha la fortuna di svolgere quella funzione altruistica che è lavorare in sanità: «molto più importante di una buona retribuzione, è l’orgoglio di servire il prossimo». E ancora: «molto più definitivo, molto più perenne di tutto l’oro che si possa accumulare, è la gratitudine di un popolo. E ciascun medico, nel raggio della sua azione, può e deve accumulare questo prezioso tesoro, che è quello della gratitudine del popolo».
Con queste e altre parole, insomma, il “Che” esortava i medici cubani – in qualche caso, parrebbe, un po’ riluttanti a questa trasformazione, forse per la posizione di privilegio della quale la categoria gode in genere nel sistema capitalistico – a una rivoluzione in primo luogo di valori dentro se stessi, che metta in condizione di farsi autenticamente carico dei bisogni del popolo.
Quando, nel 1985, fui in Polonia per uno stage, mi colpì il fatto che anche lì si mormorasse tra il personale che per evitare il ricovero in ospedale psichiatrico ed essere accolti nel molto più vivibile reparto universitario, fosse necessaria preventivamente una visita privata nello studio del primario. Fu uno dei segni che mi fecero intuire che quell'esperimento socialista non sarebbe durato a lungo. 
E credo, allora, che un modo di onorare la perdita di quest’uomo di straordinaria generosità ma anche capace – non va dimenticato – di grande determinazione e durezza nello scontro, sia quello di ricordare le parole con le quali egli richiamava con forza ai medici cubani, e ricorda ancora oggi ad ogni medico e operatore sanitario, l’altezza morale della funzione sociale che svolgiamo. Che vale molto più degli interessi di carriera che spingono tante volte all’opportunismo e al servilismo che sono così diffusi nella nostra professione, di fronte alle piccole o alle grandi ingiustizie. Che vale molto più dei meschini interessi privatistici che tendiamo a porre, anche come dipendenti pubblici a volte, spesso davanti ai bisogni delle persone malate. Anche quando ciò può costare sacrifici e rinunce.
Sono parole semplici, infondo, che mi pare che nella sostanza non facciano che riproporre certo con grande forza i nodi etici fondamentali che sappiamo essere alla base della professione; e in questo semplicità sta l’imbarazzo che si prova persino a rievocarle. Ma le cose semplici sono spesso – e particolarmente di questi tempi – quelle sulle quali può essere più difficile fermarsi a riflettere.
La sua esortazione a noi colleghi è quella, insomma, di liberarsi dalla servitù dell’interesse per aspirare ad avvicinarci all’uomo nuovo che egli immaginava, un uomo che sapesse guardare oltre l’interesse individuale e vivere il bisogno di ciascuno come il proprio. Un uomo diverso dall’uomo del capitalismo – al quale siamo ormai assuefatti all’idea che non possa esistere alternativa – perché libero dall’alienazione e geloso in primo luogo della propria umanità, che si arricchisce nel rispecchiarsi in quella degli altri.
La rivoluzione, insomma, non può mai dimenticarsi degli obiettivi di giustizia sociale che la fondano, perché se cessa di perseguirli essa tradisce la sua stessa ragion d’essere ed è destinata inevitabilmente alla sconfitta. E all’interno di essa, nel suo farsi rivoluzionario, il medico è chiamato a impegnarsi in modo radicale in quell’altruismo nel quale deve stare la vocazione autentica a svolgere una professione d’aiuto.
Non è questa, certo, l’unica relazione possibile tra medicina e politica; e perciò ci ripromettiamo di ritornare su questo tema prossimamente, per esplorarne anche altre possibili (clicca qui pr il link a: Guevara, Morselli: il medico e la guerra).
Però, il “Che” ha creduto in essa fino a dare la vita per questo, perché convinto che la vita di un uomo valga più di qualsiasi proprietà privata e quindi non sia possibile vederla sacrificare all’interesse o alla prepotenza senza provare la necessità di insorgere. E nel ricordare oggi le sue parole, credo che ciascuno di noi debba lasciare che questi concetti così semplici ma così autentici lo interroghino in profondità dentro se stesso. Ripensando a quel triste 9 ottobre di 50 anni fa quando, a La Higuera, la parabola dell’uomo “Che” Guevara ha visto il suo epilogo, ed egli è caduto nelle mani di coloro che comandavano, e che ancora comandano, il mondo; ed è stato da essi assassinato.     
 
Concludiamo questo ricordo con un video della canzone “Hasta siempre, comandante”, scritta dal poeta cubano Carlos Puebla nel 1965 – quindi nel momento in cui il “Che” lasciava Cuba per accendere altrove altri fuochi rivoluzionari  – che qui proponiamo, dopo che nella versione di Daniele Sepe, in associazione alle immagini della sua morte nell’interpretazione audace e discussa, ma d’indubbia potenza evocativa, della cantante francese Nathalie Cardone.
 

 

[i] F. Basaglia, Il corpo di Che Guevara, in: Scritti. Vol. I. 1953-1968, Torino, Einaudi, 1981, pp. 465-467.
[ii] Z. Burstein, Heroes de la salud publica en el Perù. Hugo Pesce Pesceto, Revista Peruana de Medicina Esperimental y Salud Publica, XX, 3, 2003, pp. 172-173.
[iii] Il giornalista Giacomo Scotti ha ricordato che, alla domanda se in seguito intendesse ritornare a fare il medico che gli rivolse nell’agosto 1959 in Jugoslavia, il “Che” rispose: «la salute del popolo si può curare anche in questo modo, cioè trasformando il Paese».
[iv] E. Guevara, El medico revolucionario, in: Obras 1957-1967, La Habana, Casa de las Americas, 1970, tomo II, pp. 70-80 (traduzione personale, P.F.P.)

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