“Non sono razzista, ma”. Luigi Manconi a Genova
Anche la presentazione a Genova lo scorso 20 ottobre del libro di Luigi Manconi e dell’avvocato Federica Resta Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura, pubblicato il 15 settembre da Feltrinelli ha evocato in me qualche pensiero sparso il giorno dopo, mentre a Roma si stava radunando la manifestazione per lo ius soli indetta dall’ARCI. E mi dà così l’opportunità di riprendere un tema, quello della questione migratoria, sul quale si è già soffermata questa rubrica[i]. Suggestiva la location: il Teatro dell’arca all’interno del carcere di Marassi, dove il 50% dei detenuti – presenti all’incontro con una ben nutrita delegazione – è straniero (a fronte del 37% della media nazionale). Un teatro che, come ha evidenziato nel saluto inaugurale la direttrice dell'istituto, Maria Milano, sta costituendo sempre più una sorta di camera di decompressione, mezzo dentro e mezzo fuori com’è, per l’interfaccia tra carcere e città.
Ad aprire l’incontro lo storico contemporaneo Luca Borzani, che – partendo dalla sollevazione in questi giorni di un quartiere genovese – Multedo – contro la collocazione di 25 migranti, ha parlato con preoccupazione di alcuni fenomeni sociali che si sono accentuati: lo svuotamento del tabù del razzismo, il ribaltamento del politically correct, la politica dell’urlo. Così il “cattivismo” si è imposto, ammutolendo quello che veniva, con dileggio, definito il “buonismo” ed era semplicemente solidarietà. In questo contesto prende forma la paura degli italiani, un mutamento antropologico e culturale che li porta a individuare nell’ostilità verso lo straniero un elemento identitario. Da storico, Luca ha volto lo sguardo indietro per constatare che in nessun periodo della storia italiana il sentimento di odio dell’altro ha avuto tale diffusione; non certo al tempo delle leggi razziali, osteggiate dalla popolazione. Unica eccezione, semmai, l’odio per i rom, fatti oggetto costante di stigma almeno dal XVI secolo. Di qui è passato alla denuncia dell’assenza nell’Italia degli ultimi decenni di una vera politica dell’accoglienza, che si è ridotta a una allocazione di corpi da alloggiare condannati alla noia e senza un lavoro di reale integrazione coi territori. Il libro è allora, per Luca, una testimonianza ulteriore dell’impegno per coloro che sono ai margini cui Manconi ci ha abituato in questi anni, del suo senso della responsabilità come questione individuale che non deve evitare di misurarsi con le cose concrete.
Gli ha fatto seguito l’ex sindaco e storico economico Marco Doria che ha citato dei numeri: come oggi in Italia gli stranieri regolarmente presenti siano 5.500.000, l’8.2% della popolazione residente, come siano responsabili del 9.2% del PIL, mentre sono stimati tra 4 e 500.000 quelli irregolari, meno dell’1% rispetto alla popolazione complessiva. Di questi, quindi, si parla quando si dice “invasione”. Quanto a Genova, gli irregolari sono stimati in circa 2.000 su 600.000 abitanti circa, 55.000 dei quali stranieri regolarmente presenti. Di fronte ai seminatori di veleno, agli imprenditori politici della paura che fanno apparire questi numeri diversi da quello che sono, e a chi si limita a “collocare” soggetti senza preoccuparsi di come possano impiegare il tempo, che è la propria vita, occorre per Doria stabilire alcuni valori che non sono in nessun caso negoziabili, un’asticella sotto la quale non è comunque possibile accettare di andare. In primo luogo quello che tutti apparteniamo, prima di qualunque altra appartenenza, alla comunità degli esseri umani. E abbiamo quindi uguale dignità e uguali diritti.
A seguire ancora l’intervento di Alessandra Ballerini, nota a Genova come “l’avvocato dei negri”, ma anche per essersi occupata dei diritti di quei bianchi trattati come sono abitualmente trattati i neri, che sono stati i cittadini europei torturati nel 2001 per avere contestato il G8[ii]. Alessandra si è soffermata soprattutto sull’importanza delle parole, perché sono spesso le parole a fare le cose. E’ differente ad esempio dire “richiedente asilo”, cioè portatore di un diritto internazionalmente riconosciuto e di uno dei più sacri tra i diritti, o “clandestino”, cioè soggetto che deve nascondersi perché non dovrebbe essere dov’è. Il richiedente asilo, del resto, ha osservato ancora Alessandra, è reso clandestino e condannato a viaggi pericolosi da una normativa chiusa, che non prevede la possibilità del visto per richiesta d’asilo nella fortezza europea. O, ancora, in occasione del naufragio del 3 ottobre 2013 è significativo che nelle relazioni ufficiali i cadaveri ripescati fossero burocraticamente definiti come “elementi”. O è diverso, ancora, che si parli di “sbarchi” di migranti, come nel caso di un esercito nemico, o semplicemente di approdo, perché i civili normalmente approdano (quando, fortunatamente, vi riescono). Ma il problema è che il razzismo, una volta sdoganato, investe più ambiti: c’è un razzismo istituzionale, ma anche uno amministrativo, uno giuridico e uno lessicale che non è meno dannoso degli altri. Poi ha citato alcuni casi liguri: come quello del sindaco di Alassio costretto a ritirare un’ordinanza nella quale tutti gli stranieri provenienti dai continenti della povertà erano genericamente individuati come potenziali portatori delle più varie epidemie. O quello di Ventimiglia, dove la solidarietà ai migranti diventa reato ed espone chi vi si impegna al rischio del foglio di via. Per terminare, con la passione che sempre caratterizza Alessandra, con una constatazione: attenzione perché la negazione dei diritti di qualunque essere umano, è anche negazione dei miei diritti. E anche per questo deve starmi a cuore.
E ora l’autore del libro che era presente, Luigi Manconi, sociologo e Senatore della Repubblica, noto per il suo impegno per i diritti degli ultimi siano essi i detenuti o i migranti[iii]. Il quale è subito esordito con l’osservazione che l’immigrazione è uno dei fenomeni più importanti del mondo contemporaneo e il futuro della nostra società dipende in gran parte dal modo nel quale sapremo organizzare l’asilo e l’accoglienza: perciò bisogna occuparsene, costantemente. Anche perché quando si verificano episodi come quello di Multedo – e ce ne sono centinaia in Italia – la maggior parte di quella folla schiamazzante non è fatta di razzisti, ma di persone impaurite che vanno più propriamente definite con un termine di meno immediato impatto ma più preciso, xenofobe (paurose dello xenos, lo straniero). Portatrici di una paura che nasce dal timore di dovere in un modo o nell’altro dividere – attraverso i meccanismi della solidarietà o dell’appropriazione violenta o comunque illecita da parte altrui – le proprie cose avvertite come indispensabili, dividere le case, dividere i posti di lavoro. E dividendo, insomma, perderci qualcosa. E’ importante quindi non confondere lo xenofobo col razzista, e in questo credo che Manconi abbia proprio ragione, perché scambiare l’espressione di paure e insicurezze col razzismo significa fare sentire queste persone stigmatizzate in una condizione di pesante e ingiusta riprovazione morale, rischiando di aumentarne il rancore e consegnarle allora veramente al razzismo, che c’è chi è subito pronto a raccogliere e organizzare. E “non sono razzista, ma”, il titolo del libro, non sottintende solo come sottintendeva un tempo: “ma gli albanesi stuprano, gli zingari rubano, i negri però puzzano…” e via così. Significa oggi per Manconi invece soprattutto questo: “ma sono xenofobo”.
E a questi xenofobi bisognerebbe semmai riuscire a dimostrare che una politica matura ha a cuore tanto le loro paure e insicurezze, che quelle degli stranieri; che i diritti degli uni e degli altri sono i diritti basilari dell’essere umano e viaggiano insieme. A me pare che questo sarebbe proprio quello che dovrebbe fare una sinistra, aiutare le persone a comprendere che il nemico è sopra, non di fianco; ed è ciò che ha cessato da molto tempo di fare.
Con un po’ di sconsolata ironia, poi, Manconi ha proseguito col ricordare come un intero capitolo del libro sia dedicato all’Homo Calderolis, cioè a quello che ha con perfetta espressione definito il “razzismo della bonomia” – tanto più pericoloso perché molto più facile ad attecchire di quello dell’ideologia – del vicepresidente del Senato, al quale oltre un’intolleranza fatta di ammiccamenti e battute goliardiche, vanno pure accreditati fatti gravi come l’essersi permesso di definire un Ministro della Repubblica “scimmia” a causa del suo essere una persona di colore (qualcosa di più che un atto di triviale maleducazione, mi pare; e sull'episodio si veda lo stesso capitolo del libro cliccando qui e Benevelli cliccando qui). E purtroppo, aggiungerei io, anche l’avere irresponsabilmente provocato per aver vestito in un momento di forte tensione internazionale una maglietta ingiuriosa dell’Islam una manifestazione di bigotti inferociti contro l’ambasciata italiana di Tripoli, per contenere la quale la polizia di Gheddafi ha fatto fuoco uccidendone alcuni. Un altro scherzo di cattivo gusto, insomma direi.
Altro capitolo del libro sul quale Manconi si è soffermato è poi quello dedicato agli zingari, certo protagonisti nella musica leggera degli anni ’70 quando si trattava di esaltarne romanticamente nomadismo, anarchia e libertà o felici in una nota canzone di Claudio Lolli, ma meno affascinanti e simpatici, spesso, quando ci sono vicini sull’autobus e portiamo istintivamente la mano sulla tasca.
E anche per Manconi, in conclusione, il concetto di reciprocità dei diritti: in base al quale, difendendo il diritto degli ultimi, difendo anche quelli che, domani, potrebbero essere i miei.
Ha avuto quindi inizio il confronto col variopinto pubblico, composto per la metà dei detenuti della casa circondariale, che ha visto Manconi ricordare, commosso, una nota personale: di come in carcere fosse contento in quel momento di ritrovarsi perché il carcere era stato il luogo di lavoro di suo padre, medico della colonia penale dell’Asinara e dunque in carcere lui stesso è stato, probabilmente, concepito. Impertinente la prima domanda di un detenuto albanese: se i diritti d’autore del libro fossero destinati alle cause che sostiene. E un po’ imbarazzata la risposta di Manconi (il quale deve aver pensato in cuor suo: “cazzo, perché non mi è venuto in mente di fare il beau geste, che adesso avrei fatto un figurone?!”); ma poi ha detto che no, il contenuto del libro è destinato a sostenere le buone cause ma i diritti d’autore se li tiene lui. E pazienza, credo che se li meriti proprio. A un’altra domanda, sul perché anche i ricchi che hanno meno da temere siano spesso razzisti, Manconi ha risposto che nessuno è immune da razzismo e xenofobia e ciascuno deve padroneggiare in primo luogo questi sentimenti quando li avverte in se stesso. Altre domande ancora hanno poi dato occasione all’autore di esprimere la sua posizione sul permesso di soggiorno, che non dovrebbe essere vincolato in modo tanto stretto al lavoro; sul nesso tra espiazione della pena e successiva espulsione, che va spezzato perché priva di futuro il detenuto; sullo ius soli[iv], che deve senz’altro essere urgentemente approvato. Alla domanda di un detenuto italiano, infine, emigrato da sud al nord, Manconi – il quale anche viene da una terra di forte emigrazione come la Sardegna – ha risposto ricordando come siano stati 35.000.000 tra il 1860 e il 2000 gli italiani emigrati, e sono stati accolti spesso all’estero con la stessa paura, lo stesso disprezzo e diffidenza con i quali noi italiani oggi accogliamo. E il fatto di dimenticarci di tutti loro e non essere capaci di riconoscere nel viso sofferente del migrante di oggi quello dei nostri nonni, sarebbe una grande disgrazia.
Presenti il Procuratore generale e il presidente dell’Ordine degli avvocati, il quale in apertura ha dato una bella notizia: l’invito ad Alessandra a fare parte della commissione sui diritti umani istituita dall’Ordine: e se non lei, del resto, chi? Assenti invece le autorità regionali e comunali, a testimonianza di una politica che ha perso negli ultimi trent’anni la possibilità, che avevano invece quasi tutti i partiti della Prima Repubblica nati dal tronco comune della Resistenza, di condividere almeno alcuni principi di base, e fa perciò molta fatica a parlarsi; e non è certo un buon segnale. Assente anche il ministro Minniti; ed è un peccato, perché avrebbe avuto credo di che riflettere.
Dopo tanti anni nei quali dilaga, tra molti “opinion makers” dei quali abbiamo tutti ben presenti i volti e i nomi, la gara a un conformismo nell’anticonformismo compiaciuto dell’egoismo schietto e della cause cattive – tanto da fare rimpiangere la vecchia ipocrisia democristiana (che, almeno, predicava bene, e abbiamo capito dopo che è già qualcosa…) – a rischio di sembrare un ingenuo io credo che libri e occasioni come questi siano proprio una boccata d’ossigeno. E chissà che queste parole semplici e chiare, paradossalmente risuonate all’interno di un carcere, delle quali ho cercato di dare qui una sintesi non possano diventare la piattaforma politica di una nuova forza, capace di vincere sul piano della cultura… e magari, forse, prima o poi anche dei numeri.
Anche la presentazione a Genova lo scorso 20 ottobre del libro di Luigi Manconi e dell’avvocato Federica Resta Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura, pubblicato il 15 settembre da Feltrinelli ha evocato in me qualche pensiero sparso il giorno dopo, mentre a Roma si stava radunando la manifestazione per lo ius soli indetta dall’ARCI. E mi dà così l’opportunità di riprendere un tema, quello della questione migratoria, sul quale si è già soffermata questa rubrica[i]. Suggestiva la location: il Teatro dell’arca all’interno del carcere di Marassi, dove il 50% dei detenuti – presenti all’incontro con una ben nutrita delegazione – è straniero (a fronte del 37% della media nazionale). Un teatro che, come ha evidenziato nel saluto inaugurale la direttrice dell'istituto, Maria Milano, sta costituendo sempre più una sorta di camera di decompressione, mezzo dentro e mezzo fuori com’è, per l’interfaccia tra carcere e città.
Ad aprire l’incontro lo storico contemporaneo Luca Borzani, che – partendo dalla sollevazione in questi giorni di un quartiere genovese – Multedo – contro la collocazione di 25 migranti, ha parlato con preoccupazione di alcuni fenomeni sociali che si sono accentuati: lo svuotamento del tabù del razzismo, il ribaltamento del politically correct, la politica dell’urlo. Così il “cattivismo” si è imposto, ammutolendo quello che veniva, con dileggio, definito il “buonismo” ed era semplicemente solidarietà. In questo contesto prende forma la paura degli italiani, un mutamento antropologico e culturale che li porta a individuare nell’ostilità verso lo straniero un elemento identitario. Da storico, Luca ha volto lo sguardo indietro per constatare che in nessun periodo della storia italiana il sentimento di odio dell’altro ha avuto tale diffusione; non certo al tempo delle leggi razziali, osteggiate dalla popolazione. Unica eccezione, semmai, l’odio per i rom, fatti oggetto costante di stigma almeno dal XVI secolo. Di qui è passato alla denuncia dell’assenza nell’Italia degli ultimi decenni di una vera politica dell’accoglienza, che si è ridotta a una allocazione di corpi da alloggiare condannati alla noia e senza un lavoro di reale integrazione coi territori. Il libro è allora, per Luca, una testimonianza ulteriore dell’impegno per coloro che sono ai margini cui Manconi ci ha abituato in questi anni, del suo senso della responsabilità come questione individuale che non deve evitare di misurarsi con le cose concrete.
Gli ha fatto seguito l’ex sindaco e storico economico Marco Doria che ha citato dei numeri: come oggi in Italia gli stranieri regolarmente presenti siano 5.500.000, l’8.2% della popolazione residente, come siano responsabili del 9.2% del PIL, mentre sono stimati tra 4 e 500.000 quelli irregolari, meno dell’1% rispetto alla popolazione complessiva. Di questi, quindi, si parla quando si dice “invasione”. Quanto a Genova, gli irregolari sono stimati in circa 2.000 su 600.000 abitanti circa, 55.000 dei quali stranieri regolarmente presenti. Di fronte ai seminatori di veleno, agli imprenditori politici della paura che fanno apparire questi numeri diversi da quello che sono, e a chi si limita a “collocare” soggetti senza preoccuparsi di come possano impiegare il tempo, che è la propria vita, occorre per Doria stabilire alcuni valori che non sono in nessun caso negoziabili, un’asticella sotto la quale non è comunque possibile accettare di andare. In primo luogo quello che tutti apparteniamo, prima di qualunque altra appartenenza, alla comunità degli esseri umani. E abbiamo quindi uguale dignità e uguali diritti.
A seguire ancora l’intervento di Alessandra Ballerini, nota a Genova come “l’avvocato dei negri”, ma anche per essersi occupata dei diritti di quei bianchi trattati come sono abitualmente trattati i neri, che sono stati i cittadini europei torturati nel 2001 per avere contestato il G8[ii]. Alessandra si è soffermata soprattutto sull’importanza delle parole, perché sono spesso le parole a fare le cose. E’ differente ad esempio dire “richiedente asilo”, cioè portatore di un diritto internazionalmente riconosciuto e di uno dei più sacri tra i diritti, o “clandestino”, cioè soggetto che deve nascondersi perché non dovrebbe essere dov’è. Il richiedente asilo, del resto, ha osservato ancora Alessandra, è reso clandestino e condannato a viaggi pericolosi da una normativa chiusa, che non prevede la possibilità del visto per richiesta d’asilo nella fortezza europea. O, ancora, in occasione del naufragio del 3 ottobre 2013 è significativo che nelle relazioni ufficiali i cadaveri ripescati fossero burocraticamente definiti come “elementi”. O è diverso, ancora, che si parli di “sbarchi” di migranti, come nel caso di un esercito nemico, o semplicemente di approdo, perché i civili normalmente approdano (quando, fortunatamente, vi riescono). Ma il problema è che il razzismo, una volta sdoganato, investe più ambiti: c’è un razzismo istituzionale, ma anche uno amministrativo, uno giuridico e uno lessicale che non è meno dannoso degli altri. Poi ha citato alcuni casi liguri: come quello del sindaco di Alassio costretto a ritirare un’ordinanza nella quale tutti gli stranieri provenienti dai continenti della povertà erano genericamente individuati come potenziali portatori delle più varie epidemie. O quello di Ventimiglia, dove la solidarietà ai migranti diventa reato ed espone chi vi si impegna al rischio del foglio di via. Per terminare, con la passione che sempre caratterizza Alessandra, con una constatazione: attenzione perché la negazione dei diritti di qualunque essere umano, è anche negazione dei miei diritti. E anche per questo deve starmi a cuore.
E ora l’autore del libro che era presente, Luigi Manconi, sociologo e Senatore della Repubblica, noto per il suo impegno per i diritti degli ultimi siano essi i detenuti o i migranti[iii]. Il quale è subito esordito con l’osservazione che l’immigrazione è uno dei fenomeni più importanti del mondo contemporaneo e il futuro della nostra società dipende in gran parte dal modo nel quale sapremo organizzare l’asilo e l’accoglienza: perciò bisogna occuparsene, costantemente. Anche perché quando si verificano episodi come quello di Multedo – e ce ne sono centinaia in Italia – la maggior parte di quella folla schiamazzante non è fatta di razzisti, ma di persone impaurite che vanno più propriamente definite con un termine di meno immediato impatto ma più preciso, xenofobe (paurose dello xenos, lo straniero). Portatrici di una paura che nasce dal timore di dovere in un modo o nell’altro dividere – attraverso i meccanismi della solidarietà o dell’appropriazione violenta o comunque illecita da parte altrui – le proprie cose avvertite come indispensabili, dividere le case, dividere i posti di lavoro. E dividendo, insomma, perderci qualcosa. E’ importante quindi non confondere lo xenofobo col razzista, e in questo credo che Manconi abbia proprio ragione, perché scambiare l’espressione di paure e insicurezze col razzismo significa fare sentire queste persone stigmatizzate in una condizione di pesante e ingiusta riprovazione morale, rischiando di aumentarne il rancore e consegnarle allora veramente al razzismo, che c’è chi è subito pronto a raccogliere e organizzare. E “non sono razzista, ma”, il titolo del libro, non sottintende solo come sottintendeva un tempo: “ma gli albanesi stuprano, gli zingari rubano, i negri però puzzano…” e via così. Significa oggi per Manconi invece soprattutto questo: “ma sono xenofobo”.
E a questi xenofobi bisognerebbe semmai riuscire a dimostrare che una politica matura ha a cuore tanto le loro paure e insicurezze, che quelle degli stranieri; che i diritti degli uni e degli altri sono i diritti basilari dell’essere umano e viaggiano insieme. A me pare che questo sarebbe proprio quello che dovrebbe fare una sinistra, aiutare le persone a comprendere che il nemico è sopra, non di fianco; ed è ciò che ha cessato da molto tempo di fare.
Con un po’ di sconsolata ironia, poi, Manconi ha proseguito col ricordare come un intero capitolo del libro sia dedicato all’Homo Calderolis, cioè a quello che ha con perfetta espressione definito il “razzismo della bonomia” – tanto più pericoloso perché molto più facile ad attecchire di quello dell’ideologia – del vicepresidente del Senato, al quale oltre un’intolleranza fatta di ammiccamenti e battute goliardiche, vanno pure accreditati fatti gravi come l’essersi permesso di definire un Ministro della Repubblica “scimmia” a causa del suo essere una persona di colore (qualcosa di più che un atto di triviale maleducazione, mi pare; e sull'episodio si veda lo stesso capitolo del libro cliccando qui e Benevelli cliccando qui). E purtroppo, aggiungerei io, anche l’avere irresponsabilmente provocato per aver vestito in un momento di forte tensione internazionale una maglietta ingiuriosa dell’Islam una manifestazione di bigotti inferociti contro l’ambasciata italiana di Tripoli, per contenere la quale la polizia di Gheddafi ha fatto fuoco uccidendone alcuni. Un altro scherzo di cattivo gusto, insomma direi.
Altro capitolo del libro sul quale Manconi si è soffermato è poi quello dedicato agli zingari, certo protagonisti nella musica leggera degli anni ’70 quando si trattava di esaltarne romanticamente nomadismo, anarchia e libertà o felici in una nota canzone di Claudio Lolli, ma meno affascinanti e simpatici, spesso, quando ci sono vicini sull’autobus e portiamo istintivamente la mano sulla tasca.
E anche per Manconi, in conclusione, il concetto di reciprocità dei diritti: in base al quale, difendendo il diritto degli ultimi, difendo anche quelli che, domani, potrebbero essere i miei.
Ha avuto quindi inizio il confronto col variopinto pubblico, composto per la metà dei detenuti della casa circondariale, che ha visto Manconi ricordare, commosso, una nota personale: di come in carcere fosse contento in quel momento di ritrovarsi perché il carcere era stato il luogo di lavoro di suo padre, medico della colonia penale dell’Asinara e dunque in carcere lui stesso è stato, probabilmente, concepito. Impertinente la prima domanda di un detenuto albanese: se i diritti d’autore del libro fossero destinati alle cause che sostiene. E un po’ imbarazzata la risposta di Manconi (il quale deve aver pensato in cuor suo: “cazzo, perché non mi è venuto in mente di fare il beau geste, che adesso avrei fatto un figurone?!”); ma poi ha detto che no, il contenuto del libro è destinato a sostenere le buone cause ma i diritti d’autore se li tiene lui. E pazienza, credo che se li meriti proprio. A un’altra domanda, sul perché anche i ricchi che hanno meno da temere siano spesso razzisti, Manconi ha risposto che nessuno è immune da razzismo e xenofobia e ciascuno deve padroneggiare in primo luogo questi sentimenti quando li avverte in se stesso. Altre domande ancora hanno poi dato occasione all’autore di esprimere la sua posizione sul permesso di soggiorno, che non dovrebbe essere vincolato in modo tanto stretto al lavoro; sul nesso tra espiazione della pena e successiva espulsione, che va spezzato perché priva di futuro il detenuto; sullo ius soli[iv], che deve senz’altro essere urgentemente approvato. Alla domanda di un detenuto italiano, infine, emigrato da sud al nord, Manconi – il quale anche viene da una terra di forte emigrazione come la Sardegna – ha risposto ricordando come siano stati 35.000.000 tra il 1860 e il 2000 gli italiani emigrati, e sono stati accolti spesso all’estero con la stessa paura, lo stesso disprezzo e diffidenza con i quali noi italiani oggi accogliamo. E il fatto di dimenticarci di tutti loro e non essere capaci di riconoscere nel viso sofferente del migrante di oggi quello dei nostri nonni, sarebbe una grande disgrazia.
Presenti il Procuratore generale e il presidente dell’Ordine degli avvocati, il quale in apertura ha dato una bella notizia: l’invito ad Alessandra a fare parte della commissione sui diritti umani istituita dall’Ordine: e se non lei, del resto, chi? Assenti invece le autorità regionali e comunali, a testimonianza di una politica che ha perso negli ultimi trent’anni la possibilità, che avevano invece quasi tutti i partiti della Prima Repubblica nati dal tronco comune della Resistenza, di condividere almeno alcuni principi di base, e fa perciò molta fatica a parlarsi; e non è certo un buon segnale. Assente anche il ministro Minniti; ed è un peccato, perché avrebbe avuto credo di che riflettere.
Dopo tanti anni nei quali dilaga, tra molti “opinion makers” dei quali abbiamo tutti ben presenti i volti e i nomi, la gara a un conformismo nell’anticonformismo compiaciuto dell’egoismo schietto e della cause cattive – tanto da fare rimpiangere la vecchia ipocrisia democristiana (che, almeno, predicava bene, e abbiamo capito dopo che è già qualcosa…) – a rischio di sembrare un ingenuo io credo che libri e occasioni come questi siano proprio una boccata d’ossigeno. E chissà che queste parole semplici e chiare, paradossalmente risuonate all’interno di un carcere, delle quali ho cercato di dare qui una sintesi non possano diventare la piattaforma politica di una nuova forza, capace di vincere sul piano della cultura… e magari, forse, prima o poi anche dei numeri.
[i] Mi riferisco ai contributi del gennaio 2016: Corpi eccedenti, corpi violati. Le donne di Colonia e i (vecchi e nuovi) fantasmi d’Europa. Monologo sull’Europa (clicca qui per il link); del febbraio 2017: Il detenuto straniero (clicca qui per il link); e dell’agosto 2017: Politiche migratorie. Preoccupazioni dalla svolta estiva (clicca qui per il link).
[ii] Sull’episodio, rimando in questa rubrica a: Corpo e città. Corporeità e spazialità dei dispositivi disciplinari in occasione del G8 genovese: 15 years later. Parte I, II, III (clicca qui per il link).
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