CUORE DI TENEBRA
Viaggio al termine della psichiatria
di Gilberto Di Petta

LA MADRE DI CECILIA

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30 ottobre, 2017 - 06:48
di Gilberto Di Petta

Notte di guardia del 25 ottobre. 
Tutto sembra ordinario.
La signora che fa la scrittrice di osterie tipiche si è lagnata fino a poco fa, perché intendeva, certo, essere ricoverata, ma non proprio in un reparto simile, dove camminano uomini trasandati, con la tuta che gli scopre il culo peloso, che improvvisamente si affacciano alla stanza dicendo che vogliono compagnia. Il giovane nero guarda tutti con sufficienza perchè ritiene di dover uscire per conquistare il mondo con il suo rap. Andrea è ricrollato nella nebulosa della sua coscienza grazie alla cocaina e Antonio è ossessionato nella sua ipocondria. Dalle due di oggi pomeriggio c’è la notizia  di un’adolescente in dirittura di arrivo. Tanto è che abbiamo attivato l’unità infermieristica reperibile. Poi, per la verità, non abbiamo spostato i pazienti dall’ala del reparto che doveva essere dedicata agli adolescenti e ai loro genitori (sic!). Di fatto non è mai stata autorizzato un sito specifico per il ricovero degli adolescenti del nostro reparto, ma nel territorio la voce si è da tempo sparsa, che noi ricoveriamo gli adolescenti. Pertanto arrivano le chiamate quando ci sono casi critici. Tra me e me verso le 23, dopo circa dieci ore dall’allarme, penso che di quest’adolescente non c’e’ stata più traccia. Dunque immagino che dalle quattordici l’urgenza si sia smontata. Verso mezzanotte, mentre mi intrattengo in medicheria con la squadra, chiama il PS : ragazza di 14 anni, tentato suicidio. E’ lei… E’ arrivata come una cenerentola che va via dalla festa della vita, sommessa. A mezzanotte. Prevedo una notte difficile. Scelgo una coppia di infermieri della squadra, i più disponibili in quel momento al dialogo, un uomo e una donna, e mi preparo ad uscire. Intanto chiedo di effettuare gli esami di prassi. Dopo un po’ un’altra telefonata annuncia che la pazientina si rifiuta di fare gli esami, poiché è stata dimessa in mattinata da un altro ospedale confinante con la nostra ASL, dove è stata monitorata e dunque già bucata. Immagino con disappunto che non ha con sé i risultati delle analisi, pertanto, se dovrò ricoverarla, dovrò ricoverarla al buio dell’organicità, oppure dovrò forzarla a farsi bucare di nuovo. Usciamo. C’è vento, è una delle sere che preludono l’inverno. Il vento sale dal mare, uno strano libeccio, il cielo è nuvoloso e senza luna, e le cime dei pini sono piegate. Arriverà presto la pioggia. I gatti neri che stazionano nelle aiuole retrostanti alla palazzina del PS ci guardano allertati. Siamo tre figure bianche, verdi e blu che camminano con il passo felpato degli zoccoli di gomma. Accediamo al PS. Stavolta la nostra ospite è nel codice rosso. E’ Cecilia, una ragazzina millenial, nata nel 2003, che sta ritta in piedi accanto al lettino, al di là dei separè, vegliata dalla madre. Cecilia il giorno precedente ha assunto 12 compresse di lasix della nonna perché non voleva più vivere. E’ stata condotta in un altro ospedale e tenuta in osservazione, indi dimessa. Ovviamente non esibiscono alcun foglio di dimissione. L’unica cosa che dicono è che sono stati inviati qui, per un ricovero, perché la neuropsichiatra infantile di zona si è molto allarmata, ed anche lo psichiatra di riferimento territoriale ha preferito avallare questa richiesta di ricovero. Mi trovo di fronte ad una richiesta di ricovero avallata da due colleghi, mi trovo di fronte ad una madre, la madre di Cecilia, che da un paese dell’hinterland lontano trenta chilometri da qui ha dovuto aspettare che qualcuno le desse un passaggio in ospedale con la macchina. Questo risponde la madre alla mia domanda su come mai dalle 14 sono giunti a mezzanotte. Cioè che non hanno un mezzo di locomozione. Che ne è del padre? Il padre-marito è disoccupato e assente. Lei si industria in qualche modo. Un’altra figlia grande lavora al nord. E Cecilia sta così. Cecilia, una figura di piccola donna, come le piccole donne di Alcott, esile, fragile, con degli occhi grandi, color verde-azzurro acqua, con le iridi quasi trasparenti e cristalline. Cecilia non vuole più vivere, non capisco perché. E’ stanca, non riesce ad alzarsi la mattina e a fare le cose. Le dico : “Come è possibile che una ragazza così bella come te non trovi bellezza nel mondo?” Non mi risponde. Gli occhi le si riempiono di lacrime. Ha perso due zii da poco. Mi colpisce il colore bianco della sua pelle, che contrasta con l’incarnato scuro della madre. La nitidezza e la delicatezza dei tratti del suo volto, che contrastano con la durezza dei tratti del volto materno. I capelli castani lunghi, divisi da una riga centrale, e spioventi  a trucioli sulle piccole spalle. La sua affettività è traboccante di sofferenza di fronte ad una certa fatalistica rassegnazione della madre. E’ in trattamento psicoterapeutico da circa tre mesi con uno psicologo che ha certificato un disturbo da disregolazione emotiva. Sento una rabbia che mi sale, e che ho difficoltà a controllare. Mi sembra surreale questo colloquio tra di noi. Siamo due esseri umani, di due secoli diversi, cresciuti nella stessa periferia del mondo. Alla sua età mi succhiavo il midollo della vita dentro le pagine della letteratura greca, viaggiavo appeso ai tram e a piedi per raggiungere il Liceo a Napoli, e mi rimbombavano nella testa le parole di mio padre : “E’ solo la padronanza del linguaggio che rende gli uomini uguali”. Vorrei abbracciare Cecilia, vorrei scuoterla. In questo colloquio surreale tra elettrocardiografi e bocce di flebo, raccordi e monitor, ricavandoci un angolo tra i corpi orizzontali e quelli verticali, in questa notte ventosa  tra il 25 e il 26 di ottobre di un secolo che non sento più essere il mio, nel quale mi sento sempre più un ospite. E vorrei dire a Cecilia che nella vita c’è ancora molta bellezza, come quella del suo volto, che i suoi occhi non riescono a vedere. La madre l’abbraccia, ad un tratto, rompendo la sua apparente anaffettività. Mi guardo da fuori, con in miei infermieri. Provo vergogna. Siamo arrivati come i monatti, come quando arriviamo chiamati a prenderci il matto di turno, e mai come questa volta il PS non ci ha disturbati, non ci ha fatto fretta. Cecilia ha creato nel macello del PS una zona franca, di surreale silenzio, un immaginario cartellino do not disturb è appeso ad una porta trasparente. Tutti aspettano l’esito del colloquio. E tutti sono tristi al pensiero che quel germoglio di vita debba finire nel tritacarne dell’SPDC. Lascio Cecilia ai miei infermieri e mi chiamo la madre in disparte. Mi guarda, la guardo. Mi dice : “Dottore, questa è mia figlia. Noi non la capiamo. Ve la lascio. Sappiamo che il vostro reparto è il migliore. Ma, vi scongiuro, non me la ammazzate di farmaci. Non me la fate diventare come quegli zombi che si vedono in giro. È una ragazza intelligente e vivace.” Troppo intelligente, penso tra me e me, forse troppo matura, troppo responsabile, forse ha capito, prima di viverlo tutto, il doloroso e irresolubile paradosso del mondo. Guardo la donna che ho di fronte. Con lei siamo figli dello stesso secolo. Mi viene in mente la pagina del Manzoni, mandata a memoria alla scuola media con la terribile professoressa di lettere che veniva dal nord: la madre di Cecilia : una giovinezza avanzata, ma non trascorsa, una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, la sua andatura affaticata, ma non cascante, gli occhi non davano lacrime, ma davano segno di averne sparse tante….stasera, quando passate a prendere anche me….oppure, vi raccomando, seppellitela così, non le togliete nulla.  Chi sono io dunque, il turpe monatto? Abbiamo sempre ricoverato adolescenti. Autorizzazioni o meno. Il problema non è in sé quello di ricoverare un adolescente. Abbiamo ricoverato adolescenti dirompenti e autolesionisti. Ma mai una fanciulla così delicata. La madre da una parte mi scongiura di non maltrattare la figlia, da una parte me la affida con delega totale. Mi ritornano in mente la parole di Corrado Pontalti, di qualche giorno fa a Figline Valdarno : “Noi non possiamo sostituire la società, la cultura, la scuola, la famiglia…” Noi non possiamo. Mi stupisce che non sia stato fatto alcun tentativo di terapia farmacologica associata alla psicoterapia, per questa ragazza. Nessun approccio di terapia familiare. Che sia stata designata così, come una pecora nera. Che al primo gesto significativo di radicale richiesta di aiuto la risposta debba essere : ricovero in SPDC. Sono stupito che al passaggio di questa ragazza, quasi diafana, si aprono le acque del mar rosso di territori, consultori e quant’altro ed ella, senza trovare resistenza, finisca come una palla da golf: nella buca. Come se avesse scritto sul volto : noli me tangere… Se questa situazione è un evento sentinella, è paradossale che il mondo nel quale io mi sono formato, tra gli anni 70 e gli anni 90 del secolo scorso, tutto contro la psichiatrizzazione, sia finito per una iperbole storica nel suo contrario : la psichiatrizzazione rassicurante, sempre, comunque e dovunque. La dittatura del consenso: nessuno vuole la responsabilità di un altro essere umano. E’ chiaro, è ovvio, è consensuale che un’adolescente con tentato suicidio vada protetta in ambiente ospedaliero. Che faccio? Che mi costa, in fondo, portarmi questa ragazza stanotte in reparto e scaricare domani al primario e ai miei colleghi il problema? Abbiamo la famosa zona adolescenti, ci sta la madre vicino tutta la notte. Non è violenta. Che mi costa? Posso prendermi la responsabilità di dimetterla, dopo che due colleghi si sono espressi ed hanno convinto la madre a trovare ogni mezzo, anche di fortuna, attraversare la giungla dell’ hinterland e approdare in SPDC? I due colleghi si sono tutelati, hanno stimato una gravità potenziale, non hanno messo una mano sul caso e lo hanno inviato ala specialità protetta di un reparto ospedaliero. E io posso contravvenire adesso, cambiare il decorso di un iter già scritto? E se succede qualcosa? Il giudice cosa direbbe? Tentato suicidio ieri, oggi arriva in PS, dichiara che non ha voglia di vivere, e tu, chi sei tu? Chi sono io per non ricoverarla, per mandarla a casa? Mi pare di sentire il perito. Da un’altra parte vedo il sorriso di Corrado Pontalti, sento la sua mano sulla spalla..Non ho fatto certo lo psichiatra per ricoverare le bambine. Che peso avrà nella vita di questa piccola donna, a partire da stanotte, il ricovero in SPDC? Cosa penserà di sé stessa domani, quando impatterà con gli abitanti del nostro reparto. Si sentirà una matta spacciata, qualcuna destinata a fare quella fine? Che può fare un ricovero che un trattamento ambulatoriale non può fare? Sicuramente trasformare un TS dimostrativo e di richiesta di attenzione in un atto inconsulto dovuto a chissà quale imperscrutabile male oscuro, per gli altri. E su di lei può innescare il trigger dell’autodistruzione finale : tanto vale farla veramente finita. Tutti pensano all’aspetto protettivo-salvavita del ricovero. Chi pensa all’aspetto traumatico del ricovero?  Intanto Cecilia si calma, e accetta di assumere qualche goccina di diazepam. Guardo Marianna e Aldo, i miei infermieri. loro occhi parlano. Prescrivo una terapia con un blando antidepressivo ed un ansiolitico a basso dosaggio. Dico alla madre che non è il caso. Che insistesse con i colleghi del territorio. Che stesse accanto a Cecilia e le somministrasse la terapia. Che cercasse di capire cosa non va. Cecilia deve ritornare alla vita. Tutti debbono sapere che Cecilia non era così grave da essere ricoverata. Non siamo di fronte ad una malattia. Non ancora per lo meno. Non siamo di fronte ad una malata.  Di questa notte in cui la madre di Cecilia e Cecilia hanno attraversato avanti e dietro lo spazio desertico della Terra dei fuochi si portano a casa l’assunzione di responsabilità di uno psichiatra e due infermieri di un servizio ospedaliero pubblico che, con un semplice rifiuto a procedere, hanno smantellato l’idea di una malattia senza altra soluzione che il ricovero. Forse anche per Cecilia stare con noi avrebbe rappresentato una pausa, stanotte. Tutto sommato siamo accoglienti. Ma avremmo assecondato il suo tentativo di fuga.  Da dovunque ella stia fuggendo. Da oggi in poi sarebbe bastato un taglietto ad attivare la macchina della confettura psichiatrica. E le avrei attribuito uno stigma. Ricordo gli occhi senza sguardo dei ragazzi ricoverati alla Nervenklinik Spandau, era l’estate del 1995, un altro secolo, attraversavo i reparti di Jugendpsychiatrie (psichiatria dei giovani) e addirittura della Kinderpsychiatrie (psichiatria infantile). Ce ne andiamo, dopo aver preso congedo da Cecilia, portandoci dentro la tenerezza di un addio. Forse avremmo voluto tenercela, proteggerla, capire cosa stava accadendo nella sua vita. Ma il passaggio nella buca era troppo grave. Il libeccio ci riscuote. Siamo contenti. Stanotte abbiamo liberato Cecilia dalla peste. E rimandato al mondo la contaminazione di quella malattia mortale non sempre bonificabile che l’angoscia di esistere. Per la quale altre culture hanno elaborato altri rimedi che non siano solo il ricovero in un reparto di psichiatria di emergenza.            

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Commenti

Nell'incontro con le situazioni limiti (tentato suicidio, adolescenza, crepuscolo della stanchezza e dell'abisso della notte che vede sorgere l'alba, passaggi generazionali, epocali, fantasmi istituzionali) possiamo incontrare il mondo e il fondo della vita.
Responsabilità è rispondere. Forse la risposta all'angoscia (generale, di tutti) è ex-perire autenticamente (autòs-entòs, "avere autorità su se stessi") la propria angustia, il dolore che stringe il cuore, e trasformarla in speranza. In amore.
Grazie. A Gilberto, a Cecilia, a tutti.

Gilberto caro, come posso non piangere ancora di fronte al tuo ennesimo incontro disperato? Disperato quanto pieno di speranza, di quella speranza a cui ci hai abituato, di cui ti siamo grati tutti, lettori, colleghi, amici e viandanti che incappano sulla tua traiettoria. La grandezza della tua poesia è quella di essere tracimante di carne viva e di rimanere sempre incollata al modo-della-vita senza fronzoli autoreferenziali, peccato capitale in cui ormai molti tendono a cadere. Ma al di là della mia condizione e della mia ormai nota posizione di sim-patia nei tuoi confronti e dei nostri compagni di viaggio, vorrei porre alcune questioni e riflessioni rispetto alla tua "Scelta". Il tema della responsabilità in medicina e in psichiatria in particolare è divenuto un refrain stucchevole. Occorre pararsi il culo, dalle denunce, dai rischi di essere mandati in pasto ai cani, anzi direi addirittura in pasto ai social che sono divenuti in questa epoca dei tribunali a cielo aperto, delle gogne senza ritegno, delle orge diffamatorie. Tutto ciò per evidenziare il fatto che la tua non è stata, e ne sono certissimo, una mera scelta controcorrente, né una presa di posizione come controffensiva alla psichiatria custodialistica, né tanto meno una scelta azzardata, nel senso di azzardo sulla pelle di una ragazza e dei suoi genitori. Dietro alla tua "Scelta" c'è una profonda capacità e sensibilità psicopatologica e fenomenologica di cogliere il fenomeno nella sua declinazione esistenziale. Questo per dire che il tuo bagaglio di uomo e scienziato, o se preferisci di scienziato dell'uomo, ti ha permesso di prendere una decisione e di fare una scelta, la tua scelta.. Certo, perché è pur vero che se esistono protocolli, linee guida, ecc, ecc, ecc, primum non nuocere. E questo tu hai fatto. Con il coraggio delle proprie decisioni: sapere, fare e saper-fare in psichiatria , ammoniva Lanteri-Laura. E credo che questo basti a riassumere ciò che voglio esprimere in questo mio commento social. Tutto per dire che in questo caso, come in altri, non si tratta di essere pro o contro, in una sorta di televoto, occorre agire, dopo aver incontrato, sentito, ascoltato e compreso. Si può far questo in pronto soccorso, in un istante caotico e spesso scomodo? Credo che questa sia la sfida maggiore oggi. Il saper resistere a tutto ciò che tende alla delega, al pressappochismo, e aggiungo, all'ignoranza. Cecilia e i suoi coetanei, questo ci chiedono oggi, di avere un posto, dove essere ascoltati, dove essere accolti, dove sentirsi e farsi sentire. E' compito della psichiatria? In parte sì, o meglio è compito della psichiatria fare la psichiatria, ovvero intervenire prima, e non prevenire; riconoscere, avere cura e saper stare nel dolore. Ho colto il tuo smarrimento, la tua vertigine, di fronte soprattutto allo scacco dell'incontro con una millenial che ti ha fatto sentire uno per uno gli anni che ha, gli anni che hai e quelli che ti separano da lei. Ma questo, come mi hai insegnato, conta relativamente. Vi siete tenuti per gli occhi, corpo-a-corpo. .

Caro Danilo, ti ringrazio di avermi restituito ciò che resta, quando il sipario è calato, quando si torna a casa, quando finalmente puoi sprofondare in un cuscino senza l'ossessione del cicalino che trilla: l'umanità. L'umanità tua e dell'altro che hanno condiviso un istante della vita, un istante significativo, di quelli senza mai un vero e proprio congedo. Sento sempre di più che dobbiamo recuperare questo tipo di umanità, che non è umanitarismo, come fondo del nostro agire. Senza questo che tu cogli nessuna pratica, neppure quella che avviene nel pieno del consensus e al riparo di ogni possibile responsabilità, è terapeutica. Tu cogli che certe cose sono possibili pur nel breve tempo e nel breve spazio di un incontro singolo. Questo continuare a pensarsi, anche dopo alcuni gironi, depone per un incontro non casuale, per una intersezione che si è avuta tra un gruppo di vite e una vita. Il gioco non solo Io verso Tu. C'è una direzione Io verso Tu. Poi c'è una direzione Tu verso Io. Poi c'è una direzione Noi verso Tu. E Tu verso Noi. E Io verso Noi. Solo dopo che abbiamo tentato queste varie direzioni abbiamo incontrato qualcuno, abbiamo toccato qualcuno e da qualcuno siamo stati toccati. Credo che questo sia accaduto e continui ad accadere, con le vicissitudini di ogni incontro che vuole essere autentico, tra me e te. Ti abbraccio. A sabato.......

Questo racconto di vita, di lavoro vissuto sul campo, è l’ennesima conferma di quanto, oggi, il mondo degli adulti, talvolta colleghi compresi, sia lontano anni luce dal mondo dei bambini e degli adolescenti. Non c’è spazio per il dialogo, l’ascolto, la capacità di accogliere il dolore e l’angoscia di questi ragazzi, e direi fondamentale, la capacità di tollerare il conflitto. Invece, ogni spazio e ogni tempo, è riempito in maniera traboccante dal voler delegare, anche al primo accenno di difficoltà, qualcun altro per la risoluzione dei problemi: si è creato un sistema di scarica barile. Questo non avviene solo nella psichiatrica, dove il gesto di un tentato suicidio può non essere altro che un “primo gesto significativo di radicale richiesta di aiuto”, ma anche nell’ambito della scuola dove grazie a leggi apposite e a questo nuovo sistema di deleghe, il problema scolastico di un bambino (vedi tutta la variante di disturbi: dell’apprendimento, dell’attenzione e dell’iperattività, dislessia, discalculia ecc.) viene stigmatizzato come un disturbo, come un deficit, escludendo a priori che possa avere le sue radici in altri rapporti umani o semplicemente che si tratti di un bambino con i suoi tempi di apprendimento. Ma oggi sembra che quello che manchi sia proprio il tempo; tempo per ascoltare, capire, comprendere. Inoltre, anche in questo caso si pensa poco all’aspetto traumatico che un tale stigma può avere per il bambino con l’innescarsi, talvolta, di un circolo vizioso che si porterà dietro nel corso della crescita.

Cara Giorgia, tu evidenzi come certe diagnosi siano diventate il pregiudizio deformante e difensivo con cui la nostra società e noi maneggiamo ciò che altrimenti ci mette in crisi, e come il tempo sia l'ingrediante fondamentale della cura. Detto questo a ciascuno di noi la scelta di posizionarsi rispetto a questi due elementi, le diagnosi convenzionali e il tempo. A noi stessi, prima che agli altri, risponderemo dell'uso che abbiamo fatto del nostro ruolo. E dell'esercizio della nostra critica. Ti ringrazio di cuore.

Questa ultima testimonianza di Gilberto può essere letta da molteplici punti di vista. Gilberto ha la bontà di ricordare il nostro comune incontro di Figline e lo ringrazio per aver tematizzato una riflessione sulle deleghe che proponiamo e accettiamo rispetto alle aporie del sociale nella nostra epoca storica. Tuttavia la sua narrazione tocca sfide che tendiamo a non approfondire. Medita Gilberto, smarrito: "Se questa situazione è un evento sentinella, è paradossale che il mondo nel quale io mi sono formato, tra gli anni 70 e gli anni 90 del secolo scorso, tutto contro la psichiatrizzazione, sia finito per una iperbole storica nel suo contrario : la psichiatrizzazione rassicurante, sempre, comunque e dovunque. La dittatura del consenso: nessuno vuole la responsabilità di un altro essere umano". Assumere la responsabilità, nel nostro lavoro, significa assumere la comprensione di una storia e di un ambiente. Questa sarebbe, ridotta alla radicalità dell'enunciato, la definizione di psicoterapia.
Oggi, quasi ovunque, la psicoterapia, quella ben condotta ed efficiente, è espulsa dai Servizi e massimamente dai Servizi di Neuropsichiatria Infantile. Molte diagnosi, ben documentate con Scale e Test, di DSA, in vista di logopedia, psicomotricità e certificazioni per le varie forme di sostegno a scuola, altrettanto stigmatizzanti del ricovero evitato da Gilberto e due infermieri. Se espelli il mentale e lo dedichi al privato non resta che il ricovero. Tullio De Mauro scrisse una lettera aperte agli insegnanti denunciando che avevano perso la capacità di utilizzare competenze pedagogiche per le faticosità dei bambini, faticosità subito delegate alla psichiatria-psicologia. Consiglio la lettura del libro di un importante pedagogista appena uscito in libreria: "Non è colpa dei bambini" di Daniele Novara, ed. BUR. E' un'analisi spietata del costrutto di Gilberto di psichiatrizzazione, psicopatologizzazione rassicurante. Nella storia di Cecilia è in scena anche uno psicologo. Qualcuno degli invianti al PS. ha preso contatto con lui? Qualcuno tesserà una rete che sostenga Cecilia e la sua famiglia? So già la risposta "non abbiamo tempo". Cosa è una psichiatria che non "ha tempo"?. E non abbiamo tempo perchè non sappiamo più guarire, accettiamo, anzi, pretendiamo tutte le deleghe e poi non ci resta che il custodialismo mascherato! Siamo partiti, negli anni che Gilberto ricorda, con il costrutto magico di falsa coscienza. E siamo nel pieno, razionalizzato, della nostra falsa coscienza. Questa è la disperazione di Gilberto, in forma poetica? forse, ma io credo di no.

Corrado, ci stai guidando verso una concezione rivoluzionaria della psicoterapia, che, ricomprendendo la storia e l'ambiente, la relazione e il gruppo, mettendo tra parentesi i pregiudizi che la letteratura psi ci ha consegnato e ci ha stratificato dentro, ci fa diventare nuovi pionieri in una terra incognita. La nascita della psichiatria e della psicologia hanno coinciso con una società che ha delegato la relazione con gli scarti dalla norma a dei tecnici. Adesso un altro salto si sta compiendo : la delega a noi tecnici della relaziono tout court. Questo ci impone di ridisegnare i confini della nostra tecnica, del nostro metodo e della nostra teoria. Su questo tu sei avanti a noi da anni. Ti seguiamo grati.

Dietro la coltre di fumo, alzata costantemente non solo dai roghi tossici della nostra amata terra ma dal non assumere posizioni, si annebbiano le menti di chi deve prendere decisioni. Una madre che non sa se, tra il suo essere madre ed il suo fare la madre, semmai in una condizione esistenziale disagiata ed alla ricerca costante di tirare avanti, c’è più spazio per un gesto umano talvolta tanto semplice come quello di un abbraccio.
Gilberto riesci a far accorgerci in queste righe che raccolgono attimi e momenti di uno stralcio di vita vissuta, quanto quella rabbia che ha atmosferizzato quell’incontro ti abbia fatto scacciare via quella nebbia, che spesso ci fa soccombere in una specie di “medicina difensiva”. Abile come un giocatore di scacchi, invece che arroccarti in una posizione difensiva, hai fatto la mossa che rende il gioco libero dal potenziale stallo.
Hai evitato ad una giovane donna dalla carnagione bianca, come quella di un foglio non ancora scritto, di essere iscritta con l’inchiostro indelebile tra i “matti”; restituendo ad una madre che era lì pronta a lasciartela in consegna, annebbiata dall’impossibilità quotidiana di fermarsi ad ascoltare quanto quella figlia avesse da dire, la possibilità di ritornare ad essere madre.
Le parole di Pontalti risuonano forte: noi non possiamo fare i sostituiti di altro.
Direi: dobbiamo almeno provare ad assumerci le responsabilità del nostro ruolo e del nostro essere.
Le tue parole ci restituiscono la speranza che ancora qualcosa di umano ed umanizzante possa esistere.
Grazie!

Caro Giuseppe,
una piccola notazione al tuo commento. Abbiamo talmente tanto da riflettere su di noi che forse potremmo evitare di connotare negativamente, o dubbiosamente, una donna, la madre, della quale non sappiamo niente. Se non ci alleiamo con i familiari, senza connotarli, dubito che riusciremo a rimettere nell'andare della vita i bambini, gli adolescenti e, oggi, anche i giovani adulti. Tu apri quindi una ulteriore e nuova problematica: il nostro pensiero sulle etiologie e sui contesti. Grazie

Caro prof. Pontalti,
la ringrazio per la puntuale osservazione, raccolgo le sue parole che sono un vigoroso invito ad essere sempre e comunque pronti ad accogliere.

Sono mesi che Gilberto Di Petta ci sta facendo 'vedere' il mondo in cui si trova a lavorare, mesi che ci lascia intravedere i singoli e le famiglie, le stanze del reparto come quelle del PS, i Carabinieri e i colleghi, che ci permette di conoscere gli infermieri e i tirocinanti, i gatti e la nebbia, il vento del mare, i diversi pazienti dipinti in tenui ma precise pennellate.
Di questo, ne sono convinto, credo dovremmo innanzitutto ringraziarlo.
La forma poi, che spesso rasenta il letterario e poetico, non è un orpello, ci tengo a sottolinearlo, ma rappresenta invece il manifesto evidente della simmetria possibile tra vissuto e parole, tra scene ed emozioni di cui Gilberto è vivo testimone narrante. Non si può - e d'altronde non sarebbe (fenomenologicamente) utile - fare altrimenti.
Si tratta a mio modo di vedere di un mirabile esempio di quello che Lorenzo Calvi definiva 'Esercizio Fenomenologico', declinato alla Di Petta, ovvero del tentativo dello psichiatra di far partecipare i propri vissuti ai lettori, tentativo che Gilberto compie con tutta la passione per il suo lavoro e l'esistenza, in particolare quella 'obliqua', di cui è capace.
Ecco, questa la mia definizione delle splendide testimonianze che Gilberto ci dona attraverso il suo Blog. Un 'esercizio atmosferico' che non prescinde mai dalla clinica e dalla riflessione sul sociale e l'istituzionale, a dimostrazione della complessità che lo psichiatra e il clinico in generale è oggi chiamato ad affrontare, spesso in solitudine.

Questa mattina, complice forse il cambio dell'ora avvenuto solo pochi giorni addietro, mi sono svegliato alle 5 e non ho più ripreso sonno. Sono incappato quindi alle prime luci dell'alba, quando ancora non ero del tutto sveglio, in questo manipolo di uomini (pronti a tutto, fosse anche - quando serve - alla necessaria dolcezza) che si accompagnava nella notte insieme ai gatti, alle prese con una urgenza attesa da molte ore che tale più forse non era. Li ho visti davvero, scendere gli scalini, colorati di camici e giacche ma cupi per la tarda ora e il vento, come marinai costretti a prendere il mare durante una tempesta.
Bisogna poterli vedere i protagonisti del racconto e non c'è fenomenologia se non quella che permette di vedere (e sentire) le 'cose stesse' del clinico, del fenomenologia prestato alla clinica: "La fenomenologia (fenomenologica NdR) o è storia di incontri o non è", ci disse Gilberto una sera a Figline Valdarno, e i suoi resoconti ce ne danno conferma.
L'incontro è questo poter 'vedere' (con 'l'organo trascendentale della visione', direbbe sempre Calvi), questo far spazio all'altro nel proprio sentire, nel proprio percepire e intuire.
In questo ultimo pezzo Gilberto poi va, se possibile, oltre.
Ero anche io a Figline il week end nel quale il prof. Pontati ci ha richiamato costantemente, per due intere giornate, alla profondità e all'ampiezza possibile nell'analisi del caso clinico.
Non c'è caso clinico che non si possa tramutare in domanda sulla cultura, sulla geografia, sulla provenienza e sul momento vissuto dal paziente; se è vero, come ci ha poi ricordato che "... per fare uno schizofrenico ci vogliono tre generazioni", allora non si può non avvicinarsi all'altro che con il massimo rispetto possibile, con i giusti tempi, sempre consapevoli di incontrare nel singolo il frutto di innumerevoli passaggi di testimone, di migrazioni e trasferimenti, di luoghi sperduti (le montagne dell'Abruzzo da lui citate) o di periferie, di dolore e spaesamento, di ricchezza e perdita.
Pontalti, nel suo continuo richiamo, ha rimesso al centro la famiglia, la domanda sull'origine della stessa e sulla formazione del singolo uomo, ragazzo o bambino, all'interno di essa.
Cecilia mi pare così richiamarci attraverso Gilberto queste domande, rimetterci a giorno del tempo che ci vuole per essere compresi e non interpretati sulla base del sentito dire e dell'opinione altrui, tempo che Gilberto e la sua ciurma le concedono certo volentieri, ma allo stesso tempo profondamente consapevoli della responsabilità del loro gesto. Come la bellezza delle parole, come della libertà, non potesse non portare sempre con sé il deciso richiamo ad una attenzione massima, che è forse quell'attenzione paterna che a Cecilia e alla madre sono mancate e mancheranno chissà per quanto ancora.
Grazie mille Gilberto, grazie ancora della condivisione.

Caro Paolo,
ti ringrazio della tua vigile vicinanza. Cerchiamo di ripulire la lente attraverso la quale traguardiamo il mondo, e non ci riusciamo mai. Qualche volta si. Sono contento che stamane la vicenda di Cecilia ti abbia raggiunto. C'è molto di nostro dentro la lente. Ma qualcosa del mondo-della-vita si coglie. E' solo la risonanza di un cuore lontano, come il tuo, dalla scena del fenomeno, che mi tranquillizza di aver colto qualcosa propriamente dell'altro. Senza questo esercizio, che i nostri Maestri ci hanno tramandato, l'esperienza non esiste. L'esperienza che non viene costituita in fenomeno e trasmessa, non esiste. Ciò che noi abbiamo vissuto quella notte, sarebbe già stato assorbito dal fiume del tempo, se questo nostro comunicare non lo avesse costituito in esperienza una volta per tutte. Ti abbraccio.

Racconto veramente coinvolgente e commovente. Di accecante lucidità e di cristallina chiarezza espositiva. Hai abbracciato Cecilia, ragazza che non aveva trovato in questo mondo nessuno che si prendesse cura di lei. Ti sei presa cura di lei, insieme con i tuoi infermieri che non è poco. Ti sei assunto la responsabilità, che come dice il mio amico Conforto, la chiusura dei manicomi, con tutto il loro corredo culturale, ha consegnato a chi si candida a prendersi cura dei più sfortunati fra i gettati in questo mondo. Responsabilità che si sta sciogliendo come i ghiacciai dell'Artico, nella società del conformismo securitario e del non rischio che ci soffoca.
E hai abbracciato anche tutti noi, persone che vivono o hanno vissuto, come me la psichiatria che vuole curare, aiutare a vivere, che sempre più si sentono un po' orfani, ma mai pentiti. Io posso solo augurarti buon lavoro e buona scrittura, necessaria almeno per lasciare traccia. E chissà che qualcuno non raccolga gli stracci delle nostre buone intenzioni, che molto hanno realizzato.

Caro Angelo,
hai messo il dito nella piaga: il conformismo securitario e burocratizzato, che sta trasformando operatori a vocazione clinica, umana, terapeutica in grigi funzionari della salute mentale, abitatori di castelli kafkiani, terrorizzati da processi kafkiani. E' lodevole che un Presidente dichiari (v. Denaro Sanità) che la Società Italiana di Psichiatria si sia venduta al fascismo e alle leggi razziali. Sarebbe auspicabile, mutatis mutandis, dichiarare che La Società Italiana di Psihiatria è semplicemente coassiale alle opzioni politico-sociali vigenti, qualunque esse siano. Certo i contenuti sono diversi. Ma la forma è identica. E la forma è sostanza. La verità è che abbiamo paura di assumerci la responsabilità di qualcun altro. E senza quest'atto la cura diventa utopica. Come dire a qualcuno di curare qualcun altro senza assumersene la responsabilità. La speranza è che la scintilla critica trovi sempre la miccia lungo la quale correre.

Lettera dal fronte di un poeta che ha vinto un'altra battaglia. Persone così ci salveranno, con l'assunzione di pesanti responsabilità e con la capacità di raccontarci l'angoscia, sublimandola in poesia.

Caro Stefano, ti ringrazio di aver sottolineato il valore salvifico della capacità di trasformare in poesia la prosa del mondo.


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