Lunedì 30 è mancato a Torino Agostino Pirella, che era stato con Antonio Slavich tra i primi collaboratori di Franco Basaglia a Gorizia, passando poi a dirigere l'esperienza di Arezzo. Con lui la psichiatria italiana senza manicomio perde uno dei suoi padri, e uno dei suoi protagonisti.
Premessa
Il 7 novembre di 100 anni fa, secondo il calendario gregoriano (il nostro), si verificava in Russia un evento che avrebbe condizionato per oltre settant’anni la storia del mondo, la rivoluzione bolscevica. Quest’anno non si sono risparmiate le commemorazioni, che si sono intensificate ovviamente con l’avvicinarsi dell’anniversario. Dal 18 al 22 gennaio coloro che continuano a riconoscersi nell’identità comunista si sono ritrovati a Roma, e pareva che, nonostante un secolo trascorso della prima rivoluzione proletaria ad avere avuto successo, quell’evento di allora avesse ancora molto da dire sulla vita degli uomini e le donne e sulla sua organizzazione sociale. Colpiva respirare un clima che sembrava identico ad allora, da Comune. Poi nel corso dell’anno ciascun periodico si è sentito in dovere di proporre un supplemento, sono seguiti documentari televisivi, riproposte di famosi film sull’argomento, a partire da Reds (USA, 1981), il film che ripropone il reportage sulla Rivoluzione del giornalista comunista statunitense John Reed.
Si è trattato a volte di riletture degli eventi caratterizzate da una ricerca di obiettività storica, in altri hanno prevalso l’antica regola in base alla quale “guai ai vinti” e il malcelato maligno piacere di poter dire finalmente: «visto che per quella strada, fuori dal capitalismo non si va in nessun luogo?». In qualche caso si è voluta separatre la purezza di quel momento seminale, poi tradito, e in altri si è voluto cogliere in esso l'errore iniziale d'impostazione che ha generato ogni errore che ne è seguito in una tragica ineludibile catena. Quasi sempre, comunque, si è ritenuto che quel lontano giorno d'ottobre fosse consegnato alla storia, che non potesse riguardare più il nostro futuro.
Mario Tronti ha commemorato, continuando a professarsi comunista e rimanendo fedele alla propria storia, l’evento lo scorso 24 ottobre (è il giorno dell’anniversario secondo il calendario giuliano, allora vigente in Russia), di fronte a un Senato della Repubblica che è parso in qualche caso perplesso o anche contrariato per l’iniziativa, ma nel complesso insolitamente rispettoso in tutte le sue componenti. Il senatore Tronti invitava a focalizzare – almeno in occasione di questo centenario – l’attenzione sulla Rivoluzione in se stessa e sul periodo immediatamente successivo, senza permettere che esso sia occultato da quello che poi è stato – per il condizionamento di fattori in parte estrinseci e in parte certo anche intrinseci – il bene e il male della storia dell’Unione Sovietica. E per parte mia, cercherò di seguire il suo consiglio.
La storia della Rivoluzione d’Ottobre è storia chiaroscurale per eccellenza, come del resto forse tutta la storia dell’Unione Sovietica. La Rivoluzione è stata un momento pieno di generosità, ma non privo in alcuni momenti di ferocia, forse non sempre necessaria. E’ stata un momento carico di speranza, ma indubbiamente anche di paura e si sa che la paura non è buona consigliera.
Si stava riprendendo in mano il disegno che due secoli prima era costato la vita a Francois Babeuf, l’antico sogno egualitario di Spartaco, e non era affatto certo che questa volta davvero si vincesse. Si era di fronte alla scelta se cambiare subito tutto, compiere il brusco balzo nell’ignoto verso il comunismo, o procedere per gradi; ma in questo caso cosa cambiare e cosa conservare della vecchia organizzazione? Tutto sembrava novità, cambiamento. Si facevano le cose ma non esisteva nessuna esperienza di dove avrebbero portato. Questa era la prima rivoluzione nella quale veniva abolito il comando del capitale sul lavoro, quello dell’eredità sulla terra. E ora, chi avrebbe comandato il lavoro? Perché che il lavoro dovesse ripartire subito, immediatamente, non vi era dubbio: il popolo aveva fame e non avrebbe potuto aspettare. E per di più, in una situazione in cui il capitalismo non diede mai tregua all’eccezione comunista; la aggredì da subito e per 72 anni non ha mollato la presa, per avventarsi poi nel momento del cedimento, dell’incertezza, con miope voracità sulle sue spoglie. Ma questa è un’altra storia, più vicina.
Nel giudicare quel 24 di ottobre (7 novembre) è indispensabile tener conto del fatto che tutto in quel momento fu sperimentazione. Una sperimentazione in vivo, che metteva in gioco il destino di milioni di uomini e di donne. E, certo, fu necessario sperimentare anche nell’economia, procedere a tastoni pronti a correggere in caso di errore. Perché finora si era ragionato soltanto su modelli teorici. Il Comunismo di guerra prima, la NEP poi furono sperimentazioni condotte su scala colossale, nel tentativo di governare in modo nuovo la produzione e la distribuzione in una popolazione numerosa dispersa su uno sterminato territorio, mentre le armate bianche cingevano d’assedio. Fu una situazione difficile e grandi senz’altro furono anche gli errori di quel primo momento, che comportarono anche tragedie, ma mai si era respirata- con l’eccezione forse del 1789 francese – nella storia una così grande sensazione di libertà.
Ci si era lasciati alle spalle il vecchio mondo, ancora in bilico in Russia tra sistema di produzione feudale e capitalistico. Il futuro stava aperto davanti. Si poteva sperimentare, e lo si fece nella politica e nell’economia, ma anche nelle arti: la poesia con Aleksandr Blok (1880-1921) e Vladimir Majakovskij (1893-1930); la pittura, con Vassilij Kandinskij (1866-1944); il cinema con Dziga Vertov (1896-1954) e Sergej Eisenstein (1898-1948)[i]. Tanto per limitarci agli esempi più celebri.
Lo si fece anche nel campo dell’organizzazione sociale, della relazione tra le persone, ed è su questo che, da studiosi della mente e delle relazioni quali siamo, mi pare che possiamo concentrarci. Fu, quello aperto dalla Rivoluzione bolscevica, un momento di straordinario fermento e vitalità ed è quel clima che mi piacerebbe oggi, con questo scritto, provare a rievocare.
Per farlo – e provare a celebrare quell’evento da un punto di vista che possa essere un po’ originale e proprio di una rivista che tratta principalmente di psichiatria e psicoanalisi – mi avvarrò dello studio che alla Rivoluzione bolscevica fu dedicato dallo psicoanalista comunista Wilhelm Reich (1897-1957) nella seconda parte del volume La rivoluzione sessuale (1936)[ii]. Scrivendo nei primi anni ’30 – e quindi quando non erano ancora passati vent’anni dai fatti – Reich ricostruisce l’andamento del primo periodo della rivoluzione sotto il profilo particolare dell’evoluzione del costume, della legislazione e delle sperimentazioni di soluzioni nuove, nel campo delle relazioni sociali, e in particolare della sessualità.
Certo, la conclusione raggiunta da Reich – che per la sua insistenza su questi punti si era allontanato in quegli anni tanto dalla Società Psicoanalitica che dal Partito Comunista – è che la ragione del fallimento della Rivoluzione, che in quel momento gli era già evidente, stava nel non essere stata anche, fino in fondo, oltre che una rivoluzione economica una rivoluzione sessuale. Non avere saputo, cioè, liberare fino in fondo la sessualità – un termine però nel cui utilizzo da parte sua i confini non mi paiono così chiari – dai condizionamenti e dalla morale sociale. «La vita è semplice. La complica solo la struttura umana quando è caratterizzata dalla paura di vivere» (p. 215), queste sono le ultime parole del saggio; di fronte alle quali viene spontaneo obiettare che forse no, così semplice proprio anche in se stessa la vita non è. E da ripensare alla riflessione, più pessimistica ma anche più matura, di Freud per il quale la civiltà, cioè la modalità di stare insieme degli esseri umani, comporta inevitabilmente per l’individuo anche disagio e rinunce.
Comunque, nell’utilizzo di questo testo come scandaglio per esplorare la dimensione personale, individuale, anche sessuale certo, della Rivoluzione, il suo impatto concreto sulla vita di uomini, donne e bambini, noi non siamo ovviamente obbligati a sposare tutte le tesi di Reich. Ci interessano soprattutto, in questo caso, i fatti dei quali è testimone più o meno diretto.
La Rivoluzione come pratica di libertà
Lo spunto per il saggio è offerto a Reich dal fatto che nel 1934 l’Unione Sovietica avesse ripristinato la legge che puniva l’omosessualità, una legge la cui abolizione era stata tra i primi provvedimenti del governo bolscevico. Insieme a quella legge, nei primi anni della Rivoluzione erano stati emanati altri provvedimenti volti a rendere, anche negli aspetti più intimi, l vita dell’uomo sovietico diversa da quella dell’uomo governato dal sistema capitalistico.
Pur tra qualche contraddizione, la nuova normativa puntava alla dissoluzione del matrimonio, al matrimonio civile e all’equiparazione uomo/donna, alla facilitazione del divorzio, alla promozione del lavoro femminile, l’educazione pubblica dei bambini e dei ragazzi e la legalizzazione dell’aborto entro il terzo mese. E ciò per affermare fino in fondo il principio della libertà nell’uso del suo corpo da parte della donna, combattere il fenomeno dell’aborto clandestino nell’attesa che la campagna di promozione della contraccezione desse i risultati sperati.
Si trattava per Reich nel suo insieme di un quadro volto a completare la rivoluzione economica e politica che era in atto, con una rivoluzione nella cultura e nei costumi, che in effetti assumeva anche la dimensione di una “rivoluzione sessuale”.
La Rivoluzione dei primi anni, infatti, vedeva nella famiglia un’istituzione da combattere non meno della monarchia e del comando capitalista o latifondista sulla produzione. Anzi vedeva in essa, nell’autorità del padre sulla moglie e sui figli, il fondamento nucleare della disuguaglianza e del principio d’autorità sui quali si fondava il sistema politico-sociale precedente. Se la legislazione zarista prevedeva che il marito dovesse amare la moglie e la moglie invece, oltre ad amare il marito, gli dovesse «illimitata obbedienza»; se essa prevedeva che i figli dovessero obbedienza ai genitori e questi avessero il diritto – in caso di ostinata disobbedienza, vita immorale o evidenti depravazione – di farli imprigionare, con un evidente reciproco rimando tra livello famigliare e politico dell’autorità, la legislazione rivoluzionaria non poteva che individuare nella famiglia fondata sul matrimonio coattivo e sulla consanguineità il germe del patriarcato, dell’autoritarismo e il nucleo primo, quindi, di resistenza a un’organizzazione della vita su base collettiva.. Dove il potere del padre sugli altri membri riproduceva su scala minore quello assoluto del “piccolo padre”, lo zar, sulla Russia. Solo l’abolizione della famiglia avrebbe permesso di sperimentare, perciò, forme nuove, rivoluzionarie, di organizzazione sociale nelle quali la libertà dell’individuo trovasse maggiori possibilità di realizzazione.
L’abolizione per legge, anche se non del tutto priva di equivoci, del vincolo matrimoniale e il divorzio divenuto di conseguenza molto più facile, il lavoro femminile al quale il comunismo chiamava la donna insieme a una maggiore partecipazione alla vita sociale, la conseguente fine della sua dipendenza economica dal marito, la diffusione della contraccezione furono tra i vari fenomeni che contribuirono a determinare la disgregazione della famiglia, che fu effettivamente riscontrata in quei primi anni. Tra momenti di vita sociale e famigliare cominciò via via a prendere piede una lacerazione; l’individuo si sentiva chiamato verso la dimensione collettiva e trattenuto verso la sua sfera privata dalla nostalgia e dall’attaccamento per i vincoli famigliari e si trovava a provare contemporaneamente «l’avversione e la nostalgia per la famiglia» (p. 183). Il bilancio così è stato, in un primo tempo, sconsolante e Reich commenta: «Il crollo del vecchio ordinamento si risolse, in un primo momento, in un vero e proprio caos» (pp. 141-142).
E mi pare poi d’interesse, oggi, il fatto che già allora la liberazione della donna propugnata dai rivoluzionari incontrasse particolare resistenza in alcuni luoghi dello sterminato territorio sovietico. Come l’Azerbaigian ad esempio, cioè un’area di cultura e tradizione musulmana; che l'esigenza, insomma, di profondo rinnovamento nel campo delle relazioni e i costumi sessuali e delle relazioni di potere tra uomo e donna incontrasse già allora in quell’ambito culturale linee di resistenza più ostinate (pp. 173-175).
Nell’unione tra l’uomo e la donna si intendevano esplorare nuove strade che non avrebbero dovuto corrispondere a nessuna delle tre che la storia aveva percorso fino a quel momento: l’ascetismo, il matrimonio, la separazione del sesso dall’amore in fenomeni come la prostituzione e la pornografia. Con buona pace dello scandalo che il protagonista di una nota canzone di Paolo Pietrangeli manifestava all’amica Contessa perché durante l’occupazione di una fabbrica «quella gentaglia rinchiusa lì dentro / di libero amore facea professione», si intendeva – dopo avere liberato il primo dai vincoli di natura economica – cercare effettivamente una sintesi tra amore e libertà.
E le parole di Lenin durante una conversazione con Klara Zetkin (1857-1933) – una dirigente comunista tedesca che sarebbe poi fuggita in Unione Sovietica dopo l’avvento di Hitler in Germania – che Reich riporta mi sono parse davvero emblematiche delle difficoltà e dei dubbi che l’uomo che aveva avuto ragione del centenario potere zarista, avvertiva a questo molto più intimo riguardo:
«Non sono un asceta, eppure mi sembra che questa cosiddetta "nuova vita sessuale" dei giovani, e spesso anche degli adulti, spesso sia solo una manifestazione degna del vecchio bordello borghese. Tutto ciò non ha niente a che fare con la libertà amorosa come la intendiamo noi comunisti. Certamente tu conosci la famosa teoria secondo la quale soddisfare gli istinti erotici è, nella società comunista, altrettanto semplice e trascurabile quanto bere un bicchier d’acqua. Codesta "teoria del bicchier d'acqua" ha fatto perdere completamente il senno ad una parte della nostra gioventù. E’ stata disastrosa per molti, ragazzi e ragazze. I suoi sostenitori affermano che si tratta di una teoria marxista. Grazie, no, a un marxismo del genere che farebbe derivare tutti i fenomeni e tutte le trasformazioni nella sovrastruttura ideologica della società direttamente ed immediatamente dalle sue basi economiche. Le cose non sono così semplici (…). Cercare di ridurre le trasformazioni ideologiche, separate dal contesto dell'intera ideologia, alle basi economiche della società è fare del razionalismo e non del marxismo. Certo, bisogna soddisfare la sete. Ma un individuo normale, in circostanze normali, berrebbe ad una grondaia o attingerebbe ad una pozzanghera? O anche soltanto userebbe un bicchiere sporco? Ciò che più importa è l'aspetto sociale della cosa. Bere l'acqua è atto individuale. L'amore ha bisogno di due persone e può portare ad una terza vita» (cit. a p. 154).
Lo sforzo di Lenin sembra in quel momento, insomma, immaginare per l’uomo e la donna del comunismo un amore che sia per entrambi scelta libera, senza che per questo esso perda la magia e la poesia; anzi, più magico e più poetico perché finalmente libero da quei vincoli di natura giuridica come anche economica che lo costringono talvolta a sopravvivere a se stesso imponendo prezzi altissimi di sofferenza e/o ipocrisia. Ma si scontra con il fatto che l’amore, per come lo conosciamo, è un sentimento dolcissimo ma anche feroce, egoista, geloso, possessivo, privato, e che lo sia per sua natura o su base culturale, come parrebbe sostenere Reich, davvero non saprei.
La dimensione collettiva, incarnata nella nascita delle prime comuni giovanili, si scontra così con il fatto che, in quegli anni, «la gente non se la sentiva più di vivere in famiglia, ma neanche di vivere senza di essa. Non se la sentiva di vivere per sempre con lo stesso partner, ma neanche di vivere sola» (p. 188). La gioventù sovietica di quel magico momento ha cercato di esplorare nuove forme di aggregazione, alternative alla famiglia, costituite da persone non legate da vincoli di sangue in seno a un collettivo. Era venuto meno il sostegno politico e giuridico che lo Stato e il sistema economico davano all’istituzione matrimoniale, impendendo o rendendo difficile il divorzio col costringere, ad esempio, la moglie a essere dipendente dal marito.
Ma questo nuovo modo di stare in coppia fondato sull’amore libero, cioè sull’adesione alla coppia su base in ogni momento davvero volontaria da parte di entrambi, contemplava certo la possibilità della separazione come una normale evoluzione senza che però, per questo, essa cessasse di dare dolore.
In allegato il video della poesia Arrivederci, bandiera rossa, scritta nel 1992 del poeta Evgenij Evtusenko (1933-2017), che dà il titolo all’omonima silloge ed è qui proposta nella lettura di Moni Ovadia.
N.B. La II e ulima parte di questo scritto (Esperimenti, Epilogo) è on line dal 7 novembre (clicca qui per il link).
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