Segue dalla parte I “Oltre il capitalismo” (clicca qui per andare all’inizio)
Sperimentare, discutere, partecipare
Il testo di Reich si fa particolarmente avvincente quando entra nel concreto della realizzazione di alcune esperienze. La Comune Sorokin, ad esempio, è stata formata da un giovane operaio dedito appassionatamente e disciplinatamente al lavoro per la causa comunista, che seppe riunire intorno a sé con l’esempio altri giovani, quasi tutti maschi, e trasmettere a tutti loro il proprio entusiasmo. L’esempio della Comune si diffuse, e intanto l’entusiasmo portò questi giovani a rinunciare a qualunque relazione privilegiata tra loro, comprese l’amicizia e l’amore, e a condividere tutto, persino gli indumenti, in una asfissiante regolazione collettiva su base razionale del tempo della vita. L’incubo di un egualitarismo ossessionante e tirannico descritto qualche decennio prima nelle pagine antiutopiche di Dostoëvskij, il paradossale trasformarsi del falansterio da strumento di emancipazione e liberazione dell’uomo in strumento di compressione della libertà, un formicaio, si era così concretamente realizzato per quei giovani generosi, e pur essendo nata sulla base di un’adesione spontanea ed entusiasta, la Comune finì per trasformarsi in uno strumento di ossessivo controllo dell’individuale da parte del collettivo; e per non reggere e disgregarsi. Era diventata troppo forte la contraddizione tra il modo di sentire e di pensare dell’individuo e la sua adesione a una dimensione collettiva, tra io e noi. E vengono in mente allora frammenti dettati dall’intelligente ironia capricciosamente individualista del teatro-canzone di Giorgio Gaber: «Gli dai una mano e si mangiano il braccio… Cannibali!…. Ve la do io la Comune! Credimi, da soli si sta bene… in due è già un esercito» (La solitudine, in Libertà obbligatoria, 1976)[i]. Oppure: «La coscienza è un salvagente, quella individuale; quella collettiva? Un canotto» (La coscienza, in Libertà obbligatoria, 1976)[ii]. O ancora «chissà nel socialismo, che scopate» (Chissà nel socialismo, in Polli di allevamento, 1978)[iii].
Ma, comunque, anche in quel caso si era sperimentato, ci si era provato; e in questo sta il grande valore, il fascino che non appassisce e rappresenta uno degli aspetti di quello straordinario e poliedrico momento della storia.
In un’altra Comune, la discussione portò presto a concludere che la struttura della Comune, basata sull’elemento collettivo, era incompatibile con la coppia e la famiglia. Ma poi, nel concreto della vita, Vladimiro – uno dei comunardi – si è innamorato di Katja, e i due manifestano il desiderio di sposarsi. Lui dentro la Comune, lei fuori. Che fare? Perdere Vladimiro perché sia libero di seguire il suo progetto d’amore; o ammettere Katia? Ma in questo caso come membro indipendente, o come moglie di Vladimiro? Si discute in comune, e questo è il bello di quelle esperienze, l’esercizio della libertà nella partecipazione, qualsiasi sia la conclusione. In quel caso, tutti vogliono bene a Vladimiro, e non vogliono costringerlo a lasciare la Comune. L’assemblea opta per recepire la richiesta di Katia di essere ammessa come membro a pieno titolo; tuttavia, l’organizzazione degli spazi nella Comune impone che i due sposi rimarranno fisicamente divisi tra loro, uno nella stanza dei ragazzi, l’altra in quella delle ragazze. Con evidente disappunto di Reich (non sappiamo se anche loro). La carenza di spazi per eventuali bambini, poi, impone in un primo tempo la condizione che la coppia non possa generare. Ma, un anno dopo, la disponibilità di nuovi spazi permette di superare questa disposizione: nella Comune ora è possibile anche avere figli, che per il mantenimento e l’educazione saranno considerati figli della Comune.
Tutto bene dunque, finalmente? No, perché poi le cose si complicano ancora, c’è un imprevisto: Vladimiro a un certo punto si accorge di non amare più Katja, di volerle essere solo amico, e vuole il divorzio. Povera Katia!! La cosa crea una discussione tra i comunardi, questa volta più appassionata; alcuni (soprattutto ragazze) accusano Vladimiro di leggerezza nel momento nel quale ha proposto a Katia di sposarsi, è un porco egoista; altri (soprattutto ragazzi) allargano le braccia rassegnati al fatto che neppure la Comune può per voto assembleare obbligare ad amare colui che non prova più amore (così come non possono farlo in base a un impegno sottoscritto la Chiesa o lo Stato, del resto mi pare). L’amore, insomma, si conferma in tutti i casi sentimento ingiusto e incostante per natura; e anche nel comunismo pare non fare eccezione.
All’interno di un’altra coppia che vive in una Comune, poi, Tania pone il problema di una nicchia dove potersi ogni tanto appartare col partner per vivere nel privato la loro esperienza di coppia; non le sembra di essere una piccolo borghese per questa semplice esigenza, e si chiede perché nella Comune la realizzazione di questo piccolo desiderio le venga negato.
Sembra di rileggere la storia di tanti tentativi di organizzazione in comune della vita molto più prossimi a noi; e non sembrano davvero storie vecchie di cent’anni.
Era difficile, insomma, comporre libertà individuale e fedeltà nella coppia, perché alla disponibilità a tollerare davvero la libertà dell’altro si oppone il fatto che la sessualità è di per sé egoista, gelosa, privata. Ed era difficile tenere insieme le esigenze di esclusività della coppia con quelle dell’appartenenza dei due soggetti che la compongono a una dimensione collettiva più grande. L’amore per un essere umano con l’amore per l’essere umano.
E sono difficoltà, queste, che da allora un numero infinito di giovani avrebbe incontrato, in infinite situazioni.
Ma sono comunque pagine dolcissime, quelle che riguardano questi ragazzi, perché dimostrano come, almeno nella lettura di Reich, la rivoluzione sembrasse avere aperto sì, forse, questioni irresolubili, ma anche la possibilità di discuterne liberamente, di tentare esperimenti e di partecipare alle soluzioni. E mi chiedo se non stia, infondo, proprio in questo discutere in comune alla ricerca di una composizione – sempre provvisoria, e sempre valida per quella sola situazione – delle contraddizioni, il comunismo, molto più che non nel fatto che venga adottata l’una piuttosto che l’altra soluzione. In questo sforzo che l’idea giusta di ciascuno confrontandosi con quella degli altri porti tutti a un’idea che può forse apparire un po’ meno giusta al singolo, ma può essere comune. Se cioè il comunismo non sia piuttosto un metodo, uno stile dell’essere insieme.
Ed è questo gusto del comune che viene voglia di provare di nuovo.
Alcuni degli esperimenti dei quali Reich rende conto, poi, sono particolarmente interessanti per noi “psi” perché riguardano pedagogia e criminologia. Uno ad esempio è la Comune di lavoro Bolshevo per giovani delinquenti – voluta nel 1924 dalla Ghepeù, la polizia rivoluzionaria che dal 1922 aveva sostituito la Ceka – ispirata al principio di base che i criminali avrebbero meglio risposto a un trattamento basato sulla libertà e la fiducia. Pare che i giovani, liberati dai penitenziari, fossero spinti ad autoorganizzare il lavoro all’interno di quella Comune; l’esperimento ebbe notevole successo, crebbe in dimensioni e crebbe nella produzione di oggetti (si producevano inizialmente scarpe, poi si differenziò); fu interrotto tuttavia nel 1935 in relazione alla generale involuzione autoritaria della vita sovietica (pp. 179-182).
Grande attenzione la Rivoluzione aveva dedicato in particolare all’infanzia, e Reich ebbe occasione di visitare direttamente qualche asilo e ne riferisce con palpitante emozione: «I giardini d'infanzia russi da me visitati nel 1929 avevano un’eccellente organizzazione collettiva. Un giardino d'infanzia per trenta bambini contava sei insegnanti che trascorrevano cinque ore con i piccoli e un'ora a preparare il loro lavoro. Direttore e amministratore erano due operai della fabbrica; gli insegnanti avevano un segretario. Quindici dei bambini erano figli di operai della fabbrica, gli altri erano figli di studenti. Il consiglio era formato dal direttore, da un insegnante, da due rappresentanti delle famiglie, da un rappresentante del distretto e da un medico. Ai bambini non veniva impartita educazione religiosa; il lavoro continuava durante le vacanze. La scelta delle materie era straordinaria; c’erano materie come "il significato della foresta per gli uomini," o "per la loro salute". I bambini lavoravano molto col legno» (p. 190).
Per quanto riguardava la sessualità, Reich ovviamente commenta, le cose andavano meno bene.
I bambini erano in generale incoraggiati all’autogoverno, e nei parchi esistevano “giardini d’infanzia volanti” dove i genitori potevano lasciarli a educatori che li intrattenevano insegnando loro a stare insieme tra sconosciuti attraverso il gioco e il movimento, anche al ritmo di brani musicali che venivano suonati, finché i genitori non finivano le loro passeggiate. Così, la musica e l’arte appartenevano veramente al popolo. Nei primi anni dopo la Rivoluzione, poi, Reich racconta che il governo sovietico insisteva perché i bambini fossero liberi di criticare i genitori e perché potessero chiamarli confidenzialmente per nome, perché si riteneva che queste cose aiutassero lo sviluppo di una personalità antiautoritaria. E, insomma, nell’insieme in quella prima fase ci si preoccupava più di abituare il bambino, il futuro uomo sovietico, a un atteggiamento genericamente antiautoritario, che non di indottrinarlo[iv].
E’ da collocare in quest’ambito di esperienze anche l’esperimento di asilo ispirato alla psicoanalisi che ebbe luogo a partire dal 1921 a Mosca ad opera di Vera Schmidt (1889-1937). Ad esso collaborò al suo rientro in Unione Sovietica anche un’altra famosa analista, Sabina Spilrein (1885-1942)[v] e l’asilo fu frequentato anche da uno dei figli di Stalin, Vasilij, quando aveva circa un anno.
Alla base della filosofia dell’asilo c’era la convinzione che i bambini non debbano essere lodati o biasimati per quello che fanno, ma i giudizi debbano essere riferiti solo alle loro azioni e alle relative conseguenze. Al bambino era concessa la massima libertà, e gli educatori erano spinti a lavorare in primo luogo su se stessi. Rispetto alla tendenza dell’Europa di quegli anni a portare il bambino a evacuare nel vaso entro il primo anno, nell’asilo questo non gli era richiesto prima del secondo, ed eventualmente oltre. L’enuresi notturna non era né stigmatizzata né punita, il movimento del bambino era incoraggiato e la masturbazione infantile e la curiosità sessuale reciproca non erano inibite. Si tratta di atteggiamenti poi diffusi dalla moderna pedagogia, ma allora in assoluta controtendenza rispetto all’educazione autoritaria che veniva comunemente praticata. E’ emblematico dell’evoluzione dell’Unione Sovietica in quegli anni il destino dell’asilo, che dal colore dei locali prese il nome di “asilo bianco”. Messo in discussione e oggetto di malignità e calunnie in particolare per i metodi adottati riguardo alla sessualità infantile, l’asilo perse la copertura ideologica ed economica del potente Commissariato per l’educazione. Ma dall’aprile 1922 poté sopravvivere ancora, grazie ai finanziamenti volontariamente erogati dai Sindacati dei minatori tedesco e russo, che fornirono rispettivamente cibo e carbone. Non ebbe comunque vita lunga, ma fu anch’esso un esperimento insieme a tanti altri e oggi mantiene un suo posto nella storia della psicoanalisi della prima infanzia. Un segno anch’esso di vitalità e di passione, la sensazione di poter andare davvero verso una nuova organizzazione della vita, più libera, più felice, più giusta per tutti[vi].
Epilogo: arrivederci bandiera rossa?
Le difficoltà che la rivoluzione ha incontrato sono state anche al suo interno, dunque, grandi, e andavano ad aggiungersi a quelle esterne; la reazione di fronte a queste difficoltà è stata, secondo Reich, da un lato la rinuncia alla sessualità, che inizialmente era stata resa necessaria dal fatto che la guerra civile tendeva a determinare, per uomini e donne, una militarizzazione della vita; ma poi è stata perpetuata perché era più facile così, rassegnarsi al tran tran e alle ipocrisie del resto del mondo. E Reich riporta criticamente un passaggio da La donna nell’unione sovietica di Femina Halle, il quale fa pensare con l’esaltazione dell’ascetismo militante più a vergini guerriere, o a “suore rosse”, che alle giovani che abbiamo visto impegnate a misurarsi con le gioie e le contraddizioni della dialettica coppia/gruppo nelle prime Comuni (p. 153).
Ma riporta anche il ripiegamento poi, fallita la proposta dell’ascetismo – che non ha trovato mai nella storia grandi masse di proseliti – sul matrimonio, sulla famiglia, su un modo di vivere le relazioni, e tra esse la più importante, l’amore, uguale a quello del mondo capitalistico se non almeno per una minore influenza sulle scelte di quei fattori economici che certo cosificano e imbarbariscono sempre le relazioni.
Intanto si assisteva allo spegnersi, e anzi alla repressione, di quella voglia di partecipare, discutere, sperimentare che ha rappresentato – assieme al lavoro e alla difesa in armi – l’essenza della Rivoluzione. Così, una Rivoluzione che si era nei primi tempi impegnata a promuovere la libertà e vedere in essa la propria principale risorsa, ha cominciato a vedere nella libertà un problema.
E così, nel 1929, Reich scopre deluso un’Unione Sovietica che ha rinunciato a sperimentare nel campo delle relazioni come in altri, nemica della masturbazione giovanile, del libero amore e della contraccezione. Nel periodo nel quale scrive, anche tra i socialisti trova qualche timido adepto l’eugenetica e si fanno strada mostruosità come il concetto per il quale: «in un ordinamento socialista, la donna dovrà compiere la sua funzione di maternità secondo le esigenze del collettivo al quale appartiene» (p. 166). Concetti che hanno ben poco di diverso, infondo, rispetto alla coeva intrusività nella sfera intima del pronatalismo fascista. Quanto all’omosessualità tra adulti, che la Rivoluzione si era preoccupata tra i suoi primi provvedimenti di liberare, cominciava adesso a essere definita un «crimine sociale» (p. 171) e fu poi appunto, nel 1934, nuovamente vietata.
Nel 1935 poi, chiusa la Comune Bolshevo e con essa il desiderio di sperimentare anche in questo campo, di fronte a quello che veniva percepito come il dilagare della delinquenza giovanile – e ciò nonostante la piena occupazione e la buona qualità dei centri per l’infanzia, nota Reich – il governo reagisce costringendo i genitori a una maggiore vigilanza sui figli, pena pesanti sanzioni, e promuovendo ove questa fallisca l’istituzionalizzazione e la repressione; rimedi non così originali rispetto a quelli allora posti in essere da parte dei Paesi capitalistici o fascisti, direi.
Ma questa è un’altra storia, più triste. Tornando al momento della Rivoluzione, invece, per come Reich lo ha avvertito e lo riporta, mi pare che il senso dell’intenso laboratorio sociale e culturale dei primi anni, di questa ricerca di sperimentazione nel campo della libertà e della vita, della complessa triangolazione individuo/coppia/gruppo che è il tema centrale, quello che infondo sta più a cuore, della vita di ciascuno, dimostri qualcosa: che la libertà d’intraprendere individualmente al fine di soggiogare il lavoro altrui o di consumarne i frutti non è necessariamente la più importante per l’uomo, quella cui maggiormente aspira.
Gli individui, anzi, potrebbero rinunciarvi, ma per avere più spazio per sperimentare, liberi dal bisogno, soluzioni innovative in altri campi che li riguardano in modo più intimo e diretto. Di sperimentare altre libertà, cioè, assumendo il controllo della propria vita individuale e anche di quella collettiva attraverso la partecipazione. Di sentire che, forse, nel comunismo potrebbero vivere meglio – sul piano dell’essere, più che su quello dell’avere – e vivere in modo più libero e più giusto per tutti.
Ma, certo, se sono privati dell’una cosa e dell’altra, non ci si deve stupire che siano infelici.
Perché se la differenza tra capitalismo e comunismo sta solo nell’abolizione della grande proprietà privata e delle principali ingiustizie di natura economica e non entra nel vivo dell’organizzazione dei rapporti personali tra gli individui, dei problemi che stanno loro più direttamente a cuore… Beh certo questo è importante – è importante soprattutto per chi subisce più duramente l’ingiustizia, le masse affamate dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina che non hanno visibilità né parola alla ribalta della storia – ma forse non basta a tenere a lungo desto l’entusiasmo. Occorre che chi sta nei Paesi dove la storia viene decisa, noi che abbiamo tra l’altro l’esclusiva di poter scrivere e leggere sul web, avverta l’assurdità di un mondo «caratterizzato da una ricchezza senza precedenti [nel quale] cresce il numero delle persone economicamente escluse» come dice Naomi Klein in un’intervista di questi giorni (secondo dati FAO, sono 815 milioni coloro che nel 2016 hanno sofferto la fame, 155 milioni i bambini). Ma occorre anche recepire un desiderio di partecipazione, discussione, sperimentazione nelle cose che ci sono più proprie e vicine.
E così, quando Reich rimprovera alle autorità sovietiche tra l’altro di «aver parlato di rivoluzione della vita senza affrontarla nella realtà» (p. 156), certo anche in parte per la concreta «complessità che caratterizza in sé la questione sessuale» (p. 157), non ha probabilmente torto. Non certo perché non abbiano individuato una soluzione stabile e definitiva a queste questioni; ma per non avere avuto il coraggio di tenerle aperte. Così, è accaduto che l’Unione Sovietica che per prima si era spinta a sperimentare libertà che il sistema capitalistico ha conosciuto in molti casi soltanto con il ’68, dopo quell’iniziale trambusto – forse impaurita da esso, chissà – ha pensato che la storia potesse essere come surgelata, mummificata in un’immutabile ripetizione di se stessa. E alla fine è collassata senza colpo ferire, come un vecchio impaurito dallo scorrere del tempo e della vita, principalmente – mi pare – perché non aveva saputo più farsi voler bene[vii]; e così le sue bandiere rosse, come ha scritto il poeta Evtusenko, sono finite in vendita per pochi dollari al mercato di Ismajlovo.
Intervenendo nel finale della già ricordata Conferenza di Roma C 17 dello scorso gennaio, Sandro Mezzadra parlava della lotta di classe come di un momento che non può oggi andare disgiunto dalla lotta di razza e dalla lotta di genere[viii], un concetto che ho trovato riaffermato in interviste recenti di Angela Davis e di Naomi Klein. Perché nella prospettiva comunista l’aspirazione all’eguaglianza non può essere antitetica, ma è complementare a quella alla libertà; e all’obiettivo della liberazione dal bisogno per tutti si intreccia quello di partecipare tutti, e questo è l’essenziale, su base di parità alla discussione su come costruire le condizioni per la realizzazione possibile del desiderio di ciascuno. Di ciascuno, non solo di chi è più abile o più fortunato; ed è in questo, soprattutto, che la prospettiva dei comunisti è inconciliabile con quella del capitalismo.
Se questi temi, allora, sono all’ordine del giorno nella celebrazione del centenario di quest’evento – a partire dal quale certo molti hanno conosciuto umiliazioni, oppressione, ingiustizie, carcerazione e morte, ma è accaduto anche che le parole pace, uguaglianza e libertà abbiano riscaldato a molti il cuore – e se personale e politico sono destinati a un intreccio tanto stretto, mi pare che anche le esperienze e le questioni evocate da Reich a proposito della vita intima delle persone nei primi anni della Rivoluzione bolscevica meritassero una rivisitazione. Non tanto per ricostruire quello che la Rivoluzione è stata, ma soprattutto per comprendere quello che essa ha significato e, forse, può significare ancora.
In allegato il video della canzone Rosso un fiore tratta dall’album Ho male all’orologio (1997) del cantautore Ivan della Mea (1940-2009).
Grazie Paolo, per l’ottimo
Grazie Paolo, per l’ottimo contributo. Originale, rispettoso, documentato, non nostalgico e non chiuso al futuro.
Se permetti, a sommesso commento, ti lascio il testo che ho postato su facebook, che so da te non seguito. Sommario per forze di cose ma, credo, congruente.
La Rivoluzione d’Ottobre.
Oggi, si celebra in tutto il mondo il centenario della presa del Palazzo d’Inverno, ad opera del partito Bolscevico, guidato da Lenin. (7 novembre secondo il calendario Gregoriano).
La Rivoluzione d’Ottobre per i russi e per il mondo.
L’evento storico che ha cambiato il volto del mondo, nel rapporto fra sfruttati e sfruttatori, nell’aprire le porte del potere a milioni di persone, lavoratori e contadini, nella dialettica della pace e della guerra, nella semina di speranze e ideali per “le creature oppresse”, negli equilibri politici mondiali.
Tutti contenuti, che insieme ad errori, fallimenti e crimini rimangono ancora vivi e attivi.
Perché la “Vecchia Talpa continua a scavare”
In questa circostanza voglio riproporre un mio aforisma di tempo fa non pubblicato.
“Nel loro generoso percorso di edificazione del presunto comunismo i rivoluzionari Russi volevano far nascere “l’uomo nuovo”. Ma poterono preoccuparsi poco che fosse migliore”.
Poi venne Stalin e chiuse discorso e ideali!
A presto, Angelo.
Caro Angelo, grazie intanto
Caro Angelo, grazie intanto per il tuo apprezzamento e complimenti per il tuo ricordo, sintetico ma mi pare perfettamente capace di cogliere l’essenziale. Su molte cose, quelle che tu ricordi innanzitutto, credo che questo centenario possa fare riflettere. Mi ha colpito molto, nei giorni scorsi, la recensione critica che Giso Amendola (Il manifesto, 11 novembre, p. 10) ha dedicato alla pubblicazione di un’antologia di testi leniniani da parte di Slavoj Zizek (“Lenin oggi. Ricordare, ripetere, rielaborare”) per l’edtore Ponte alle Grazie. Da una parte infatti mi pare che il recensore condivida con il curatore l’impostazione di fondo del testo, cioè che riflettere sulla rivoluzione significhi anche (soprattutto?) riflettere sulle ragioni che ne hanno determinato il fallimento (un’impostazione che, del resto, farebbe propria lo stesso Lenin, per il quale la rivoluzione è processo autocritico e mai dogmatico). Ma ,dall’altra parte, la sua critica principale all’impostazione di Zizek mi pare che focalizzi due questioni che la Rivoluzione si è trovata ad affrontare, e che mi pare ritornino costantemente a proporsi. La prima, sul versante dell’organizzazione della produzione, è quella della dialettica gerarchia/democrazia nell’azienda. Sappiamo bene quanto questa dialettica sia all’ordine del giorno nella quotidianità dei nostri servizi di salute mentale, dove per di più – trattandosi di servizi pubblici alla persona – la questione della democrazia dei processi decisionali implica la necessità di aprirli al coinvolgimento non solo dei lavoratori (l’équipe), ma anche dell’utenza, che è sempre a rischio di rappresentare in essi il terzo esclusoi. La seconda questione, sul versante della politica, è quella della dialettica partito/movimenti, ed è di nuovo una questione vediamo bene quanto attuale negli sforzi in atto di riorganizzare in Italia una forza di sinistra, in grado di coagulare il consenso che le idee e il punto di vista della sinistra meriterebbero. Questioni, entrambe queste – come molte altre che ci siamo sforzati, tu ed io, di richiamare – rispetto alle quali l’esperienza e la vertigine dello “sporgersi sul vuoto” oltre il capitale di quell’ottobre 1917 desta ancora tanta curiosità, tanto interesse e, perché no, anche un certo fascino.