Il 9 ottobre abbiamo colto l’occasione del cinquantenario della morte di “Che” Guevara per soffermarci sulla sua idea della relazione tra medico e rivoluzione[i]. Oggi, 12 novembre, vorremmo cogliere quella del centenario della conferenza tenuta, durante la drammatica disfatta di Caporetto[ii], a Genova da Enrico Morselli sul tema Il dovere dei medici italiani nell’ora presente per soffermarci sulle diverse posizioni che il medico può assumere di fronte alla guerra, quando la patria (il gruppo) versa in pericolo.
In un testo ben documentato e di piacevole lettura Angelo Guerraggio ha ricostruito l’atteggiamento di matematici, fisici e chimici italiani durante la Grande guerra, individuando due aspetti: quello del loro impegno in qualità di intellettuali a livello “politico-propagandistico”, del quale un esempio lampante era stata la pubblicazione, sul fronte opposto, del Manifesto Fulda sottoscritto dalla maggior parte dei colleghi tedeschi il 4 ottobre 1914; e quello dell’utilizzo “delle loro conoscenze al servizio della Patria”[iii].
Per parte nostra, vorremo oggi invece ricordare, in occasione del centenario, come lo stesso duplice impegno sia stato richiesto ai medici da Enrico Morselli (1852-1929), allora cattedratico di psichiatria presso l’Università di Genova e vicepresidente della Società Italiana di Psichiatria, nel corso di una conferenza che tenne a Genova il 12 novembre 1917[iv]. E quindi in un momento drammatico, nel quale ben si comprende la necessità di serrare i ranghi che Morselli avverte e della quale chiede di farsi carico ai colleghi, in un momento nel quale l’esercito italiano è appena riuscito ad attestandosi sulla linea del Piave e porre così argine alla disfatta che era costata in neppure venti giorni 11.000 morti, circa 30.000 feriti, 280.000 prigionieri, 350.000 sbandati. Oltre a un’ampia zona di territorio caduta in mano del nemico, la popolazione civile costretta alla fuga, i manicomi della zona costretti a evacuare frettolosamente verso quelli più al riparo migliaia di internati. Il rischio che il nemico dilagasse per la pianura.
Nel testo della conferenza che Morselli tiene in quella drammatica ora presente, è possibile distinguere i doveri che attribuisce al medico tra quelli più direttamente inerenti aspetti diversi dell’attività professionale, verso il fronte propriamente detto e anche verso il “fronte interno”; e gli altri che gli attribuisce in quanto intellettuale, perché «la nostra condizione e la coltura ci mettono nella classe dirigente del Paese».
Rispetto al fronte, Morselli esorta in primo luogo i colleghi a impegnarsi nel combattere “quello che si chiama l’imboscamento”, per contrastare il quale occorre il massimo rigore (cioè adottare criteri restrittivi) nella concessione di certificati che possano esentare dal servizio dovuto alla patria. Così come occorre contrarre al massimo i tempi di degenza negli ospedali e ottimizzare i risultati per restituire i soldati al loro dovere, il che consisteva per gli psichiatri nell’assunzione verso i traumatizzati di un atteggiamento severo, valendosi di trattamenti rapidamente efficaci[v] e di una “psicoterapia” che consisteva sostanzialmente nella mobilitazione a fini patriottici delle capacità suggestive del medico e della fiducia che riponeva in lui il paziente.
Quanto al fronte interno, il programma era più ambizioso (e preoccupante): il medico patriota, infatti, doveva sfruttare il proprio carisma per partecipare attivamente al governo della nazione, svolgendo la propria parte ma rivendicando anche il necessario ascolto, e doveva contribuire a diffondere una “vera anima di guerra” in tutti. Doveva inoltre promuovere un’alimentazione sobria e patriottica, adeguata, tanto per quantità che per qualità, alla fase di difficoltà che gli approvvigionamenti attraversavano; combattere l’alcoolismo, il fumo, le condotte sessuali riprovevoli e a rischio d’infezione, anche attraverso un controllo su teatri e cinematografi nei quali gli spettacoli licenziosi immorali o violenti fossero sostituiti da quelli volti alla propaganda patriottica; utilizzare, specie in campagna, l’ascendente sulle famiglie per incoraggiare e rassicurare chi aveva parenti impegnati al fronte, o morti, prigionieri, feriti o mutilati. All’orizzonte, Morselli intravedeva il grande impegno che sarebbe stato richiesto ai medici per la cura di feriti e mutilati nel dopoguerra, e in particolare ai neuropsichiatri nel trattamento dei postumi dei traumi bellici, il che avrebbe posto le basi per il coinvolgimento degli alienisti in un ambizioso programma eugenetico volto alla prevenzione di malattia e delitto.
Un discorso programmatico, insomma, nel quale non è possibile non riscontrare, certo ancora giustificate dall’emergenza del tragico momento ma già, come si vede, proiettate sul futuro, quella tendenza alla nazionalizzazione della salute individuale e all’invasione della sfera privata a scopo igienico che sarebbero poi state caratteristiche, quando la guerra diverrà l’atteggiamento mentale imposto agli italiani anche in tempo di pace[vi] della precettistica biopolitica – talvolta un po’ caricaturale – del regime fascista in ambiti quali l’alimentazione, la ginnastica, la procreazione, nonché nella “medicina politica” che avrebbe trovato solerti cultori[vii].
Quanto all’impegno come intellettuali, invece, con la mobilitazione – superate le iniziali titubanze dettate anche dalla consapevolezza del debito scientifico che in quel momento la psichiatria italiana aveva verso quella tedesca – degli psichiatri più prestigiosi tra i colleghi e più noti al pubblico sul fronte interventista prendeva avvio anche la loro collaborazione alla propaganda di guerra, destinata a farsi talvolta tanto esasperata da raggiungere toni puerili. Come quando, proprio nel corso di questa conferenza, a proposito della sobrietà alimentare della cui salubrità il medico doveva convincere i propri pazienti, Morselli non poteva esimersi dal definire con evidente disprezzo i nemici tedeschi “il popolo più ghiottone della terra” (tanto, ghiottoni o no, avevano sfondato!).
Ma gli psichiatri – e si distinsero particolarmente in questo certo Ernesto Lugaro ma anche i genovesi Quaderni di psichiatria, diretti proprio da Morselli e di sua personale proprietà – andarono ben oltre su questa linea, dando voce a quella particolare forma di dileggio dell’avversario costituita dall’uso della diagnosi di una malattia mentale nei riguardi dei governanti nemici. Per i Quaderni di Morselli, così, le case regnanti degli Asburgo e degli Hoenzollern sarebbero state da generazioni colpite da degenerazione fisica e morale; la condizione dell’animo dei due imperatori belligeranti appariva “anormale agli occhi di chiunque” e in Guglielmo II (non era forse parente di quel Ludwig di Baviera che aveva dato tracce tanto evidenti della sua follia, che avrebbero un giorno affascinato Luchino Visconti?) era possibile diagnosticare un «disequilibrio intellettuale di tipo paranoideo», insieme a «follia e morbosa impulsività», mentre in Francesco Giuseppe «disaffettività a tipo di imbecille morale».
E ciò, con il duplice scopo di ottenere non solo lo screditamento e la denigrazione del nemico, ma anche di legittimare dal punto di vista della psichiatria la guerra come una sorta di violento “Trattamento Sanitario Obbligatorio” di ampie dimensioni, reso indispensabile dalla necessità di evitare che sovrani degenerati e affetti da forme di follia potessero fare dei danni[viii].
Lo storico ed amico Andrea Scartabellati, del resto, ha raccolto in merito un ricco ed eloquente florilegio dando, significativamente, alla sua interessantissima ricerca lo stesso titolo della conferenza di Morselli della quale stiamo ragionando; e a questo studio corposo e sorprendente nel contenuto rimando chi volesse ulteriori notizie[ix].
Quanto a noi, prenderemo proseguendo il nostro ragionamento un’altra direzione, e a partire dalla posizione qui espressa da Morselli e da quella che abbiamo visto di Guevara ragioneremo su cinque possibili posizioni del medico, o dell’operatore sanitario in generale, rispetto alla guerra o alla rivoluzione, per evidenziarne gli aspetti di coerenza e le criticità. Ma questo, come si suol dire, alla prossima puntata del ragionamento che chiude la triade aperta con la commemorazione di Guevara, per tirare come sarà possibile le somme. “MORSELLI, GUEVARA: IL MEDICO E LA GUERRA” sarà on line dal 26 novembre.
In un testo ben documentato e di piacevole lettura Angelo Guerraggio ha ricostruito l’atteggiamento di matematici, fisici e chimici italiani durante la Grande guerra, individuando due aspetti: quello del loro impegno in qualità di intellettuali a livello “politico-propagandistico”, del quale un esempio lampante era stata la pubblicazione, sul fronte opposto, del Manifesto Fulda sottoscritto dalla maggior parte dei colleghi tedeschi il 4 ottobre 1914; e quello dell’utilizzo “delle loro conoscenze al servizio della Patria”[iii].
Per parte nostra, vorremo oggi invece ricordare, in occasione del centenario, come lo stesso duplice impegno sia stato richiesto ai medici da Enrico Morselli (1852-1929), allora cattedratico di psichiatria presso l’Università di Genova e vicepresidente della Società Italiana di Psichiatria, nel corso di una conferenza che tenne a Genova il 12 novembre 1917[iv]. E quindi in un momento drammatico, nel quale ben si comprende la necessità di serrare i ranghi che Morselli avverte e della quale chiede di farsi carico ai colleghi, in un momento nel quale l’esercito italiano è appena riuscito ad attestandosi sulla linea del Piave e porre così argine alla disfatta che era costata in neppure venti giorni 11.000 morti, circa 30.000 feriti, 280.000 prigionieri, 350.000 sbandati. Oltre a un’ampia zona di territorio caduta in mano del nemico, la popolazione civile costretta alla fuga, i manicomi della zona costretti a evacuare frettolosamente verso quelli più al riparo migliaia di internati. Il rischio che il nemico dilagasse per la pianura.
Nel testo della conferenza che Morselli tiene in quella drammatica ora presente, è possibile distinguere i doveri che attribuisce al medico tra quelli più direttamente inerenti aspetti diversi dell’attività professionale, verso il fronte propriamente detto e anche verso il “fronte interno”; e gli altri che gli attribuisce in quanto intellettuale, perché «la nostra condizione e la coltura ci mettono nella classe dirigente del Paese».
Rispetto al fronte, Morselli esorta in primo luogo i colleghi a impegnarsi nel combattere “quello che si chiama l’imboscamento”, per contrastare il quale occorre il massimo rigore (cioè adottare criteri restrittivi) nella concessione di certificati che possano esentare dal servizio dovuto alla patria. Così come occorre contrarre al massimo i tempi di degenza negli ospedali e ottimizzare i risultati per restituire i soldati al loro dovere, il che consisteva per gli psichiatri nell’assunzione verso i traumatizzati di un atteggiamento severo, valendosi di trattamenti rapidamente efficaci[v] e di una “psicoterapia” che consisteva sostanzialmente nella mobilitazione a fini patriottici delle capacità suggestive del medico e della fiducia che riponeva in lui il paziente.
Quanto al fronte interno, il programma era più ambizioso (e preoccupante): il medico patriota, infatti, doveva sfruttare il proprio carisma per partecipare attivamente al governo della nazione, svolgendo la propria parte ma rivendicando anche il necessario ascolto, e doveva contribuire a diffondere una “vera anima di guerra” in tutti. Doveva inoltre promuovere un’alimentazione sobria e patriottica, adeguata, tanto per quantità che per qualità, alla fase di difficoltà che gli approvvigionamenti attraversavano; combattere l’alcoolismo, il fumo, le condotte sessuali riprovevoli e a rischio d’infezione, anche attraverso un controllo su teatri e cinematografi nei quali gli spettacoli licenziosi immorali o violenti fossero sostituiti da quelli volti alla propaganda patriottica; utilizzare, specie in campagna, l’ascendente sulle famiglie per incoraggiare e rassicurare chi aveva parenti impegnati al fronte, o morti, prigionieri, feriti o mutilati. All’orizzonte, Morselli intravedeva il grande impegno che sarebbe stato richiesto ai medici per la cura di feriti e mutilati nel dopoguerra, e in particolare ai neuropsichiatri nel trattamento dei postumi dei traumi bellici, il che avrebbe posto le basi per il coinvolgimento degli alienisti in un ambizioso programma eugenetico volto alla prevenzione di malattia e delitto.
Un discorso programmatico, insomma, nel quale non è possibile non riscontrare, certo ancora giustificate dall’emergenza del tragico momento ma già, come si vede, proiettate sul futuro, quella tendenza alla nazionalizzazione della salute individuale e all’invasione della sfera privata a scopo igienico che sarebbero poi state caratteristiche, quando la guerra diverrà l’atteggiamento mentale imposto agli italiani anche in tempo di pace[vi] della precettistica biopolitica – talvolta un po’ caricaturale – del regime fascista in ambiti quali l’alimentazione, la ginnastica, la procreazione, nonché nella “medicina politica” che avrebbe trovato solerti cultori[vii].
Quanto all’impegno come intellettuali, invece, con la mobilitazione – superate le iniziali titubanze dettate anche dalla consapevolezza del debito scientifico che in quel momento la psichiatria italiana aveva verso quella tedesca – degli psichiatri più prestigiosi tra i colleghi e più noti al pubblico sul fronte interventista prendeva avvio anche la loro collaborazione alla propaganda di guerra, destinata a farsi talvolta tanto esasperata da raggiungere toni puerili. Come quando, proprio nel corso di questa conferenza, a proposito della sobrietà alimentare della cui salubrità il medico doveva convincere i propri pazienti, Morselli non poteva esimersi dal definire con evidente disprezzo i nemici tedeschi “il popolo più ghiottone della terra” (tanto, ghiottoni o no, avevano sfondato!).
Ma gli psichiatri – e si distinsero particolarmente in questo certo Ernesto Lugaro ma anche i genovesi Quaderni di psichiatria, diretti proprio da Morselli e di sua personale proprietà – andarono ben oltre su questa linea, dando voce a quella particolare forma di dileggio dell’avversario costituita dall’uso della diagnosi di una malattia mentale nei riguardi dei governanti nemici. Per i Quaderni di Morselli, così, le case regnanti degli Asburgo e degli Hoenzollern sarebbero state da generazioni colpite da degenerazione fisica e morale; la condizione dell’animo dei due imperatori belligeranti appariva “anormale agli occhi di chiunque” e in Guglielmo II (non era forse parente di quel Ludwig di Baviera che aveva dato tracce tanto evidenti della sua follia, che avrebbero un giorno affascinato Luchino Visconti?) era possibile diagnosticare un «disequilibrio intellettuale di tipo paranoideo», insieme a «follia e morbosa impulsività», mentre in Francesco Giuseppe «disaffettività a tipo di imbecille morale».
E ciò, con il duplice scopo di ottenere non solo lo screditamento e la denigrazione del nemico, ma anche di legittimare dal punto di vista della psichiatria la guerra come una sorta di violento “Trattamento Sanitario Obbligatorio” di ampie dimensioni, reso indispensabile dalla necessità di evitare che sovrani degenerati e affetti da forme di follia potessero fare dei danni[viii].
Lo storico ed amico Andrea Scartabellati, del resto, ha raccolto in merito un ricco ed eloquente florilegio dando, significativamente, alla sua interessantissima ricerca lo stesso titolo della conferenza di Morselli della quale stiamo ragionando; e a questo studio corposo e sorprendente nel contenuto rimando chi volesse ulteriori notizie[ix].
Quanto a noi, prenderemo proseguendo il nostro ragionamento un’altra direzione, e a partire dalla posizione qui espressa da Morselli e da quella che abbiamo visto di Guevara ragioneremo su cinque possibili posizioni del medico, o dell’operatore sanitario in generale, rispetto alla guerra o alla rivoluzione, per evidenziarne gli aspetti di coerenza e le criticità. Ma questo, come si suol dire, alla prossima puntata del ragionamento che chiude la triade aperta con la commemorazione di Guevara, per tirare come sarà possibile le somme. “MORSELLI, GUEVARA: IL MEDICO E LA GUERRA” sarà on line dal 26 novembre.
In allegato il video della canzone “Da Caporetto al Piave” del cantautore Massimo Bubola, curato da Roberto Tanzi
[ii] Sulla disfatta di Caporetto esiste ormai una copiosa letteratura. Tra i contributi più recenti e completi: N. Labanca, Caporetto. Storia e memoria di una disfatta, Bologna, Il mulino, 2017; A. Barbero, Caporetto, Bari, Laterza, 2017 (per il video di un'ora circa di Alessandro Barbero, “Prospettive. Caporetto per chi perde, Caporetto per chi vince”, clicca qui per il link); L. Gorgolini, F. Montella, A. Preti (a cura di), Superare Caporetto. L'esercito e gli italiani nella svolta del 1917, Milano, UNICOPLI, 2017 (in particolare per noi il capitolo: F. Paolella, Una Caporetto per la psichiatria? Il logoramento delle truppe italiane nel dibattito scientifico, pp. 73-82). Delle questioni relative alla psichiatria di guerra nel corso della Grande guerra ci si è già occupati in questa rubrica: 1915-18. I vincitori e i vinti (clicca qui per il link) e La guerra e suoi traumi tra centenario e attualità. Cronaca di un seminario sulle Alpi bavaresi (clicca qui per il link).
[iii] A. Guerraggio, La scienza in trincea. Gli scienziati italiani nella prima guerra mondiale, Milano, Cortina, 2015.
[iv] E. Morselli, Il dovere dei medici italiani nell’ora presente, in “Conferenze e Prolusioni”, a. XI (1918), pp. 1-11.
[v] E’ esplicito il riferimento di Morselli alla terapia elettrica: «Si calmino le pietose signore» – rassicura paterno Morselli – «perché si tratta di una sofferenza brevissima e innocentissima». Si tratta in realtà di una “terapia” basata sull’applicazione dolorosa a scopo intimidatorio di elettrodi su varie parti del corpo, una pratica che fu assai discussa all’epoca. Per abusi nella sua applicazione alcuni medici austriaci furono denunciati dalla stampa socialdemocratica e processati, e a Freud fu richiesto un parere in proposito. Va altresì ricordato che questa terapia era peraltro usata anche nel trattamento dell’isteria in tempo di pace, e Freud stesso vi ricorse nei casi di Emma e di Elisabeth von R., pubblicati nel 1895 (per ulteriori notizie nel merito rimando al contributo personale: P.F. Peloso, La strana malattia. Guerra e psichiatria tra primo e secondo conflitto, in: Guerra e disabilità. Mutilati e invalidi italiani e primo conflitto mondiale (a cura di N. Labanca), Roma, UNICOPLI, 2016, pp. 169-210 (pp. 207-208).
[vi] Cfr. P.F. Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resiistenza (1922-1945), Verona, Ombre corte, 2008.
[vii] E. Maura, P.F. Peloso, Allevatori di uomini. Il caso dell’Istituto biotipologico di Genova, Rivista Sperimentale di Freniatria, CXXXIII, 1, 2009, pp. 19-35.
[viii] Meccanismi non molto diversi, del resto, sono stati recentemente utilizzati dall’Occidente nei confronti di due leader caduti in disgrazia, Saddam Hussein e Mohammar Gheddafi, nella fase di avvio del meccanismo destinato a portare in entrambi i casi alla deposizione violenta, consegna alle popolazioni insorte e uccisione da parte loro.
[ix] A. Scartabellati, “Il dovere dei medici italiani nell’ora presente”. Biopolitica, seduzione bellica e battaglie culturali nelle scienze umane durante il primo conflitto mondiale, in “Medicina & Storia” n. XIV (2008), pp. 65- 94.
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