Tra l’22 e il 24 Novembre si è svolto alla Corte di Cassazione a Roma un corso della Scuola Superiore della Magistratura dedicato alla violenza contro le donne. Il corso, organizzato in modo molto accurato dalla consigliera Elisabetta Rosi, ha usufruito della partecipazione di esperti di vari campi. Di grande interesse è stato l’intervento di Francesco Palazzo, autorevole penalista, ordinario dell’Università di Firenze, che ha affrontato una questione costantemente in ombra: l’affidamento eccessivo allo strumento legislativo può indebolire l’efficacia della difesa della donna.
Come Palazzo ha lucidamente argomentato, la legislazione a protezione della donna nel campo dei danni a “beni neutri” -cioè non specificamente legati alla sessualità-, che dispone una maggiore punibilità del danno compiuto nei suoi confronti rispetto a quello nei confronti dell’uomo, può avere due motivazioni. La prima è la difesa della donna come soggetto più “debole” (come lo può essere un bambino, un disabile, o un anziano). La seconda è la manifestazione della volontà del legislatore di colpire una cultura di discriminazione nei confronti della donna.
Se si tiene conto di queste considerazioni, sorgono delle questioni. Quando il legislatore segue la strada della prima motivazione, la protezione delle donne scivola in una logica di compassione che sancisce una loro debolezza costitutiva. Non sarebbe più equo e funzionale che la legislazione operasse nella direzione del superamento delle condizioni che le indeboliscono come soggetti sociali e le rendono più vulnerabili alla violenza?
Anche quando la via imboccata è quella della lotta alla discriminazione “culturale” il dubbio sembra d’obbligo. Si può contrastare legalmente una “politica” di discriminazione, ma si può fare altrettanto con una “cultura” di discriminazione senza, indirettamente, legittimarla? Qui si inseriscono le forme di violenza socio/psico culturali, sfuggenti sul piano probatorio, le forme di “ricatto” che fanno parte del “costume”. Piuttosto che essere direttamente inserite nel contesto dell’azione legale, dovrebbero essere affrontate sul piano delle condizioni politiche che le favoriscono, l’unico spazio in cui il legislatore può, quando può, intervenire. Bisogna distinguere tra razzismo politico che si può combattere con la legge e razzismo culturale che può essere combattuto solo con il senso di responsabilità, quindi con la diffusione del senso di giustizia che la legge può favorire, ma non può imporre.
Il procedere contro la violenza nei confronti della donna rendendola neutrale, generica, nega la sua genesi: l’attacco sociale alla sessualità femminile. Rende opaca la sua vera cultura e rischia di limitare l’azione contro di essa in un’operazione cosmetica che insegue regole di correttezza espressiva, linguistica.
L’uomo sessualmente sano non rappresenta un pericolo per la donna. Se la violenza maschile nei confronti di essa fosse interpretata in termini sessualmente neutrali, di “genere”, e non come malattia del suo desiderio erotico, non si capisce cosa potrebbe farle da argine. Il rispetto per i deboli? Se la donna non fosse un oggetto desiderato l’uomo non avrebbe motivo di trattarla diversamente da un altro uomo (la violenza tra uomini è di gran lunga superiore alla “violenza di genere”).
Esiste una pressione anonima sulla donna che la invita a rinunciare alla sua identità sessuale in cambio di “immunità”. Ma ammesso che ciò portasse da qualche parte e non, invece, a un’uniformazione, molto insidiosa, delle differenze e delle identità, non è proprio questa di per sé la forma più pesante della violenza?
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