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IL PENSIERO LUNGO. 70 di Costituzione, 40 di 180

13 Gen 18

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Settant’anni fa, alla mezzanotte del 1 gennaio 1948, entrava in vigore la Costituzione. Mi pare un anniversario al quale dedicare qualche pensiero e, per porlo in relazione con il fatto che il prossimo 13 maggio la legge 180 compirà 40 anni, utilizzerò come falsariga un saggio di Daniele Piccione: Il pensiero lungo. Franco Basaglia e la Costituzione (Merano, Alpha BetaVerlag, 2013).
Che sia possibile rintracciare un retroterra comune tra Costituzione e lotta al manicomio in Italia, del resto, lo aveva già messo in evidenza Valeria Paola Babini tracciando la storia della psichiatria del Noovecento, nel quale tanto la Costituzione che la 180 sono stati promulgate, nel volume : Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento (Bologna, Il mulino, 2009). Nascono entrambe, infatti, la Costituzione del 1948 e la lotta al manicomio il cui inizio è collocato dalla storica bolognese già negli anni ’50, dal rigetto dell’esperienza di privazione della libertà che aveva caratterizzato gli anni del fascismo e aveva conosciuto il suo estremo nella realtà del lager. E sono emblematici in proposito non solo l’analogia tra il manicomio e il lager che è utilizzata da Ugo Cerletti o Luigi Mariotti a fini polemici, prima che da Basaglia anche per lo studio delle dinamiche istituzionali grazie anche al riferimento a quello che è stato in Italia il più noto testimone della realtà del lager, Primo Levi.
Piccione propone una tesi suggestiva: che il pensiero e il lavoro di Basaglia – e la legge 180 che ne costituisce l’approdo (anche se certo mai immaginato come definitivo né in sé risolutivo) – vadano letti come la prosecuzione di un pensiero lungo, che ha la sua origine nella Costituzione.
Con la chiusura dell’ospedale psichiatrico si poneva rimedio a una grave iniquità, quella per cui durante i primi trent’anni della Repubblica c’era stato un luogo nel quale il vento della Costituzione non era entrato; ed era quello. In quel luogo lasciato fuori dalla società, escluso al di là di un muro, non avevano avuto valore né le tutele da essa previste, né gli stimoli che essa offriva. Nonostante uno dei primi articoli della stessa Costituzione, il n. 3, dicesse: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione (…) di condizioni personali e sociali». Tra  queste ultime, le “condizioni personali e sociali”, rientrano evidentemente anche le condizioni di salute mentale della persona, la quale anche se giudicata “alienata”, come la legge  36 del 1904 allora la definiva, aveva diritto a essere collocata in una posizione di “pari dignità sociale” ed uguaglianza di fronte alla legge con gli altri cittadini. Il problema di un adeguamento della legge 36 del 1904, dunque, si era posto già con l’emanazione della Costituzione. Tanto che poi Basaglia nel 1979 avrebbe definito la 180, ormai inserita nella 833: «soltanto l’inserimento nella normativa sanitaria di un elemento civile e costituzionale che sarebbe dovuto esservi implicito» (cit. a p. 58). Più chiaro di così!
Tra Costituzione e legge 180 mi pare che si respiri, del resto, uno stesso spirito, quello di essere leggi, per così dire, ”sporte in avanti”; impegnate quindi non solo a descrivere un diritto esistente, ma a prefigurare diritti a venire, indicare una direzione. E Piccione cita in proposito Calamandrei, per il quale la Costituzione è un documento “presbite”, che guarda lontano in avanti e in definitiva una “polemica contro la realtà” (pp. 33-34, 63). E non si potrebbe dire lo stesso della legge 180?
Diritti che non erano stati garantiti dal fascismo, e si doveva lavorare perché lo fossero da quel momento in poi dalla Repubblica, dunque, per ciò che riguarda la Costituzione; diritti dai quali il malato di mente era stato escluso, prima e dopo la Costituzione, dal muro dell’ospedale psichiatrico e ai quali si doveva lavorare perché potesse avere accesso, per quanto riguarda la legge 180.
A prima vista, Piccione nota giustamente, nella Costituzione non c’è nulla che riguardi in modo specifico il malato di mente; ci sono, però, passaggi e interventi durante i lavori della Costituente nei quali è difficile pensare che la questione psichiatrica non fosse presente sullo sfondo, e puntualmente li ricostruisce. Ma, soprattuto, sono i due principali elementi di novità che sarebbero stati introdotti dal superamento dell’ospedale psichiatrico a essere gli stessi introdotti, per la generalità dei cittadini, dalla Costituzione.
In primo luogo, i diritti intesi come difesa del soggetto debole contro l’arbitrio, la violenza, il sopruso. Il fascismo aveva negato questa tutela della persona in generale, e il manicomio continuava a negarla agli internati ancora trent’anni dopo che la Costituzione aveva scritto all’art. 2: « La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (…) e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Un testo impegnativo, che si sforza di porre le garanzie previste per l’individuo al riparo dai prepotenti, ma anche dalla tendenza a prevalere nei suoi confronti dell’interesse generale incarnato dallo Stato. E che già da solo basta a mettere in discussione il manicomio, previsto dalla legge 36 prima per la custodia che per la cura.
E’ un testo, questo, che trova poi ulteriore declinazione nell’art. 13: «La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». E poi ancora: «E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà», una fattispecie quest’ultima nella quale sembra evidente che rientri il paziente sottoposto ad Accertamento o Trattamento sanitario obbligatorio. E ancora nell’art. 32: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
E’ difficile pensare che chi ha emanato i passaggi della legge 180 che disciplinano gli Accertamenti e Trattamenti sanitari obbligatori (pp. 109-11) qualificandoli come eccezionali e preoccupandosi di tutelare comunque al loro interno i diritti fondamentali della persona, non sia partito dai passaggi fondamentali contenuti in questi tre articoli della Costituzione: garanzia comunque dei diritti inviolabili dell’uomo; inviolabilità della libertà personale; inviolabilità della persona posta in condizione di limitazione della libertà; tutela della salute; definizione per legge dei limiti e delle salvaguardie entro i quali una compressione della libertà personale e della sovranità sul proprio corpo può eccezionalmente essere imposta per ragioni sanitarie. 
Una base giuridica a partire dalla quale, tra l’altro, l’autore argomenta il suo convincimento dell’illiceità della contenzione fisica decisa e attuata in ambito sanitario (pp. 48, 160-161)[i]. E in riferimento alla quale diventa delicata la questione dell’ASO. Perché, come osserva Piccione, l’ASO dovrebbe probabilmente essere autorizzato dal Magistrato quando preveda atti invasivi dell’integrità del corpo (p. es. prelievi ematici ecc.),  se questi non sono collocati all’interno del TSO, per non incorrere nella violazione del già ricordato art. 13 della Costituzione. E’ difficile tuttavia che esso possa effettuarsi, come mi pare vorrebbe l’Autore, anche nella sua forma più semplice – rappresentata in psichiatria dal colloquio clinico, rimandando quindi al TSO l’esecuzione di eventuali ulteriori accertamenti più invasivi – senza “invasione del domicilio” o “limitazioni della libertà fisica” (pp. 159-160), perché si tratta comunque di costringere a fermarsi (o lasciarsi trasportare) in un luogo un soggetto per quel tanto di tempo da consentirne la visita del medico, e accertarne così lo stato di malattia o meno. Ma  certo ciò rende questo provvedimento molto delicato rispetto ai principi previsti dall’art. 13 della Costituzione, proprio perché ha per oggetto un individuo per il quale, a monte della visita, il medico non è ancora in grado di certificare l’esistenza di quei problemi sanitari che giustifichino il rimando all’art. 32, e invocare cioè il diritto alla salute. Problemi che di salute che, con  l’accertamento, è ovviamente possibile dover constatare che non esistevano affatto[ii].
Tra le altre cose, poi, mi pare interessante che l’Autore sottolinei ancora a questo proposito – quello della tutela dell’individuo dall’arbitrio dello Stato e dei suoi rappresentanti, medici compresi – come la legge 180 non si limitasse a chiudere l’accesso all’ospedale psichiatrico, ma per evitare che la chiusura dell’ospedale psichiatrico potesse tradursi in un’operazione gattopardesca si preoccupasse anche di sancire all’art. 7 il divieto di costruirne di nuovi o del riutilizzo a fini di assistenza psichiatrica di quelli dismessi. Piccione sostiene a questo proposito che si tratti dell’unico atto legislativo nella storia repubblicana che sopprima in modo perentorio un’istituzione e che ne persegua, vietandola, la rinascita (pp. 95-96). Ma sono certo che non si troverà in disaccordo se mi permetto qui di segnalare un’associazione che, leggendo questo passaggio, mi è subito venuta alla mente con un altro caso almeno nel quale la legge sparge, per così dire, il sale su un’istituzione eliminata, ed è proprio contemplato dalla Costituzione. Mi riferisco alla XII disposizione transitoria la quale stabilisce, come importante eccezione ai diritti politici del cittadino, che: «è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». E se, effettivamente, questi fossero i soli due casi nei quali una formula del genere viene utilizzata, ospedale psichiatrico e partito fascista sarebbero accumunati, e da soli, in una stessa damnatio memoriae nella legislazione italiana. Il che  non significherebbe certo che l’ospedale psichiatrico sia, come ingenuamente si potrebbe evincere, in sé “fascista” (il manicomio ha prosperato e prospera nelle più diverse realtà politiche, compresa per trent’anni l’Italia democratica); ma che entrambe queste istituzioni sono indissolubilmente collegate a quella compressione della dignità e libertà dell’individuo che proprio con la Costituzione – e con la legge 180 che ne discende e ne estende il campo di applicazione all’area della malattia mentale – si è inteso contrastare. Il partito fascista dunque non può essere ricostituito perché il progetto di società che incarna è in sé antitetico a quello della Costituzione; e così non può esserlo l’ospedale psichiatrico perché il progetto di assistenza psichiatrica che incarna è antitetico rispetto a quello della legge 180. C’è, nell’un caso e nell’altro, oggettiva incompatibilità.     
Ma non è solo riguardo alla tutela dei diritti dell’individuo che la legge 180 può essere intesa come uno sforzo del legislatore volto a estendere la Costituzione all’area degli “alienati”, che prima ne erano esclusi. In essa, infatti, è possibile individuare non solo il fondamento della tutela della libertà e dignità dell’individuo intesa in senso difensivo, ma anche quello della loro tutela per così dire “in avanti”, rimuovendo gli ostacoli e promuovendo. E così l’art. 3, già ricordato per il primo comma, prosegue: «E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». E nel campo della salute mentale, per come viene descritto e per come qualcuno di noi ha fatto ancora a tempo a conoscerlo, non era infondo proprio l’ospedale psichiatrico a costituire questo ostacolo per l’individuo che vi era internato?
In questo “pieno sviluppo della persona” poi, che la Costituzione si dà per obiettivo generale e la 180 persegue nel nostro campo specifico, occupa un posto centrale il lavoro, il quale non solo è citato nella prima riga dell’art. 1 come fondamento della Repubblica democratica, ma diventa protagonista assoluto all’articolo 4: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Il lavoro è un diritto dunque, ma è anche riconosciuto come il nucleo del nostro essere sociale perché attraverso di esso possiamo con-correre al progresso materiale e spirituale della re-publica, alla cui costruzione, così, pienamente possiamo sentire di partecipare. Il lavoro è ciò attraverso cui ciascuno ha il sentimento di fare, con-correndo con gli altri, la propria parte: e si capisce allora perché è proprio il lavoro ciò che anche oggi gli utenti chiedono con maggior insistenza ai nostri servizi, appena lo sforzo di uscire dalla crisi comincia ad avere successo. Non certo perché, come spesso si sente sostenere, non abbiano consapevolezza dei propri limiti, ma perché colgono l’importanza per loro come per tutti del lavoro (e del reddito) nel dare materialità a concetti altrimenti evanescenti come dignità e socialità della persona umana. Ed è ciò che anche i Costituenti hanno sottolineato appunto coll’evocare la questione del lavoro già all’art. 1 e all’art. 3, e coll’affrontarla in modo specifico all’art. 4. Lo risponde, del resto, a Sergio Zavoli un internato di Gorizia nel brano de I giardini di Abele (1968) che il giornalista riporta nell’introduzione ricca di suggestioni a questo volume: «Per farsi accettare bisogna parlare delle cose di lavoro. Prima di tutto i soldi, no? Diritti civili e soldi. Tocca formarsi un avvenire». E fuori, cosa conta di più? «Mah, il denaro. Anche un malato ha facili rapporti tra individui quando fa vedere che lavora e guadagna» (p. 20).
Mi pare che non si potrebbe esprimere  in modo più chiaro che cosa l’art. 4 della Costituzione significhi, quando viene applicato – come è giusto che sia – nel campo di nostro specifico interesse[iii].
Sono davvero tante, insomma, le suggestioni che Piccione ci offre a sostegno della propria tesi; ma non è soltanto della relazione tra Costituzione e chiusura del manicomio, che pure ne rappresenta il fuoco, che il libro si occupa. Perché esso interviene offrendo preziose riflessioni anche su importanti aspetti di contesto, che mi limito qui a segnalare. La difficile fase di costruzione delle Regioni e il passaggio ad esse dell’assistenza psichiatrica dall’ente Provincia, anche con gli elementi di difficoltà – raramente sottolineati – che per l’assistenza psichiatrica possono avere comportato la perdita della centralità e di un’interlocuzione più diretta con l’ente gestore (p. 80). E poi la scarsa rispondenza, purtroppo diffusa e ben nota, dei responsabili della cosa pubblica in Italia, a quell’art. 97 della Costituzione che vincolerebbe i pubblici uffici al buon andamento e all’imparzialità dell’amministrazione e i funzionari che ne sono responsabili a criteri di competenza e responsabilità (p. 119). E ancora poi l’essere la psichiatria una branca medica, ma il non poter essere mai ridotta a quello soltanto (p. 126). E l’interdipendenza, della quale Basaglia era ben consapevole, tra stato sociale e diritti civili (pp. 84-85). L’essere il dubbio, una dialettica destinata non chiudersi mai in sintesi definitiva, l’insoddisfazione eletta a metodo le caratteristiche fondamentali del modo con il quale ancora Basaglia costruiva il proprio pensiero e le proprie pratiche, pur a fronte della determinazione nel perseguire l’obiettivo (p. 83). La sua capacità di apprezzare le occasioni, come quella che la legge Mariotti del 1968 gli offrì, e trarne tutto il profitto possibile senza però considerarsene appagato (pp. 93-94). E così il fatto poi di considerare la stessa legge 180 un importante passo avanti, certo, ma non la soluzione raggiunta una volta per tutte (p. 107) e al riparo da insidie che seppe in gran parte intravvedere con straordinario anticipo (p. 103). E ancora il fatto che il destino di quelle leggi che abbiamo definito “sporte in avanti” come la legge 180 e la Costituzione, nel cui alveo concettuale essa si colloca, sia strettamente legato alla effettiva partecipazione, alla capacità di perseguire l’interesse individuale all’interno di quello collettivo e, in definitiva, al sentimento di giustizia e alla misura nella quale è sentita la solidarietà  (pp. 153-157).    
Né mancano considerazioni interessanti sul processo ancora in atto di superamento degli OPG (pp. 135-153), e poi anche un “glossario del diritto alla salute mentale” che tratta tra l’altro di ASO e TSO, deistituzionalizzazione, misure di sicurezza, OPG, REMS, contenzione. Tutti temi all’ordine del giorno del dibattito, rispetto ai quali la Costituzione può offrire un riferimento prezioso.

 
 
 
 



[i] Sull’ampio dibattito in atto sulla contenzione si vedano i riferimenti riportati nell’articolo: SLEGALO! USI E ABUSI DELLA PSICHIATRIA. La presentazione a Genova,  pubblicato sulla rubrica Pensieri sparsi di questa rivista (clicca qui per il link).
[ii] Per un tentativo di regolazione della delicata materia vedi: Conferenza delle Regioni  e Province Autonome, Raccomandazioni in merito all’applicazione di Accertamenti e Trattamenti Sanitari Obbligatori per malattia mentale, Roma, 29 aprile 2009: http://www.regioni.it/upload/290409_TSO.pdf
[iii] Su alcune questioni attuali del rapporto tra lavoro, riabilitazione e salute mentale rimando all’articolo 5 TESI IMPERTINENTI SU LAVORO, PSICHIATRIA, PERSONA pubblicato sulla rubrica Pensieri sparsi di questa rivista (clicca qui per il link).

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