Che cosa significa ‘fare’ un’analisi? In cosa consiste e come si struttura una psicoanalisi nello specifico?
Come si è evoluta la pratica analitica negli ultimi tempi e come cerca di rapportarsi rispetto allo scenario che le nuove sintomatologie offrono al dispositivo analitico?
Di fronte all’aumento sempre più significativo di un corredo sintomatico che si differenzia dalle classiche forme nevrotiche di cui raccontava Freud e che sembra manifestare l’urgenza di una questione che punta al cuore del reale, cosa può la psicoanalisi che è, da sempre e a tutti gli effetti, una pratica della parola, una cura con la parola?
Un celebre motto, in campo lacaniano, ‘Senza standard ma non senza principi’, può aiutarci a comprendere come si può muovere una pratica analitica anche su un piano scivoloso come quello che ci offre il nuovo quadro clinico. L’accento è posto sul fatto che ogni singolo caso è un caso a sé, unico, irripetibile e che, in conseguenza di ciò, non può esserci un sapere universale, totale, che possa dire di quel caso/soggetto. In più, è il sistema stesso del linguaggio ad essere mancante e, dunque, fallace nel poter stabilire un sapere compiuto una volta per tutte e valido per tutti. Se, dunque, la psicoanalisi è senza standard, essa non è però senza principi. Ecco profilarsi allora, alcuni punti fondamentali nella direzione di una cura, senza i quali una psicoanalisi non può istituirsi: si tratta di capire come inizia un’analisi, della questione del transfert e della domanda e, ovviamente, di come può finire un’analisi.
Lo spirito etico che è a fondamento della psicoanalisi e della sua prassi, marca come essa non venga orientata da un supporto immaginario, regolato da un giudizio di validità improntato dalla norma vigente, ma da un piano simbolico che istituisce i perni intorno ai quali il lavoro analitico può dispiegarsi.
L’analisi, così, non si accomoda su un registro immaginario – nella forma, ad esempio, di un’alleanza terapeutica come relazione speculare tra l’io dell’analista e l’io del paziente – ma mira al cuore della cura come processo di soggettivazione della dimensione di assoggettamento del desiderio[2].
Cosa significa questo? Già a partire dalla regola fondamentale dell’associazione libera, come regola che caratterizza e distingue la tecnica psicoanalitica, si pone in evidenza come la catena associativa del soggetto non è mai veramente libera perché direzionata da alcuni significanti che ritornano nel discorso al di là di ciò che l’Io pensa di voler dire. In aggiunta, non si può dire veramente tutto, non per una questione di volontà appunto, ma proprio per un’impossibilità strutturale che designa il rapporto del soggetto con il linguaggio che lo istituisce e che non potrà mai far coincidere l’essere del soggetto con la sua parola, poiché, come già detto, è il linguaggio stesso ad essere bucato. L’inizio di un’analisi coincide proprio con l’accerchiamento di questa divisione soggettiva, un vacillamento dell’io si pronuncia e si affaccia per il tramite della parola del soggetto. Ecco perché Lacan, ad esempio, sottolinea come sia la funzione della logica la sola cosa tramite cui si ha accesso al reale.[3] Il soggetto vacilla e solo così riesce a mostrare la propria implicazione nel sintomo da cui è braccato, il godimento nascosto sotto la maschera del lamento. Ma perché questo possa accadere è fondamentale che il transfert si sia instaurato, poiché è proprio per il tramite dell’analista che un nuovo discorso può emergere. Il silenzio dell’analista, la sua non-risposta, come posizione etica rivolta all’ascolto, è ciò che consente di far risuonare, di far vibrare questa iato, di puntare il dito verso l’assenza, un buco di padronanza, consentendo al soggetto uno spostamento rispetto alla sua identificazione primaria che sorregge il discorso dell’Io e nasconde l’appagamento clandestino del sintomo. Per dirla in altri termini: “La presenza dell’analista deve mostrare quell’aspetto di interferenza che si insinua nell’automatòn significante per via della tuché del reale. L’analista deve cioè assumere le sembianze di quella parte non simbolizzata che viene indicata dal concetto di godimento. L’analista deve anche mostrare il significante e partire dall’esperienza di godimento” (p. 167).
Questo ci permette di comprendere in che senso la formula dell’associazione libera non prende le mosse da un piano regolamentato dal principio di piacere, poiché questo piano tende all’omeostasi del soggetto, tende a non disturbare l’economia soggettiva, tende, cioè, a mantenere attivo il discorso dell’Io volto al principio di realtà. L’analisi, invece, richiede uno sforzo, un dispiacere, il soggetto “deve sudare di brutto”[4]. Ecco, dunque, che un’analisi consiste in un lavoro, faticoso, di messa in rilievo di alcuni significanti che dicono della particolarità del soggetto, del suo modo di fare nodo, di come si sia arrangiato con questa iniezione di significanti nel reale. Il sintomo è ciò che rende possibile intravedere la particolarità del soggetto, come ciò che “fa di ciascuno un segno differente del rapporto che noi abbiamo, come parlesseri, al reale”[5].
E’ dalla particolarità che il sintomo incarna, di cui il soggetto è meno disposto a parlare, che può venire fuori qualcosa di singolare e che Lacan chiama destino. Cosa vuol dire avere di mira il particolare? Significa prestare ascolto a ciò che disturba il piano del principio di piacere che è il piano della norma, del normale. Questo è un punto essenziale: ciò che un’analisi insegue, per così dire, è il contrario di un processo normativo-educativo. Ecco perché, anche quando si ha a che fare con la nuova sintomatologia, la questione rimane la stessa: puntare alla soggettività della parola al di là del fenomeno sintomatico, cercando di far emergere qualcosa che abbia a che fare con una verità soggettiva staccata dall’etichetta che il sintomo consente (“sono depresso”, “sono anoressica”, “sono ansiosa” ecc..) oppure dal godimento mortifero che esso assicura (dipendenza da sostanze). La lente del dispositivo deve spostarsi su quel qualcosa che, contro la nostra volontà, insiste, si ripete, quel qualcosa che è legato alla spinta pulsionale e che non cessa di ritornare e che non vuole obbedire. La domanda che viene posta in primo piano quando si intraprende un percorso analitico è, almeno all’inizio, una domanda d’aiuto, intesa come una domanda di ripristino e di controllo su ciò che ci sfugge, su ciò che ci assoggetta. L’analisi è ciò che compie un rovesciamento radicale di questa prospettiva e lo fa a partire proprio da ciò che il soggetto avverte come sgradevole, scomodo, ingovernabile, fino a circoscriverne la singolarità più propria. L’analisi ci conduce in un punto di verità che ci mette a confronto con l’impossibilità tutta umana di coincidere con il nostro corpo, di poterlo manovrare. Qualcosa non quadra, qualcosa stona.
Ovviamente tutto questo concerne anche l’interpretazione che proviene dall’analista: il piano non è quello immaginario, del senso (almeno non solo), ma riguarda il piano simbolico e reale nella dimensione specifica dell’atto. L’atto analitico, compiuto dall’analista, e i cui effetti si possono verificare esclusivamente in un secondo tempo, après coup, è il solo atto che consente di presentificare una possibile discontinuità nei confronti dell’insistenza della ripetizione. Inoltre, “l’atto è il punto decisivo di ogni pratica analitica, ossia quello attorno a cui si stabilisce se c’è o meno psicoanalisi” (p. 185).
L’atto ha a che fare con l’assenza di qualunque garanzia, con il buco stesso del linguaggio, poiché nessuno ci assicura nell’atto. Dunque, si potrebbe arrivare a dire che Nessuno compie l’atto analitico. “[…] che cos’è l’atto analitico? E un prendere posizione […] ed è un prendere posizione rispetto al reale […] chi compie l’atto analitico? A mio avviso, se ci chiediamo chi sia a compiere l’atto analitico, siamo costretti a rispondere nessuno: nessuno lo compie e nessuno lo può compiere – se ci fosse qualcuno che lo compie, l’atto non sarebbe atto analitico” (p. 187-188). Apparentemente, questa affermazione può sembrare assurda, visto che è l’analista a dirigere la cura, attraverso degli atti analitici, ma l’analista non dirige la cura per il tramite della sua persona, il suo posto è un posto vuoto, che apre il soggetto alla questione del reale. L’analisi, allora, consiste in una possibilità, per il soggetto dell’inconscio a partire da ciò che lo eccede e per il tramite dell’analista/atto, di acconsentire al reale. Consiste in un modo, sempre unico, di assumere il taglio, che noi siamo, di quell’incontro traumatico con il linguaggio, che è, in definitiva, incontro con l’inconsistenza dell’Altro, con l’assenza di ogni tipo di garanzia.
Ecco perché dirigere una cura non ha niente a che vedere con il dirigere la vita del paziente. L’analista, infatti, non sa quale sia il bene da seguire per un paziente, il piano della psicoanalisi è un piano che scavalca la misura del benessere adattivo per mirare al cuore pulsionale del soggetto, al cuore del suo particolare modo di godere, al cuore reale dell’inconscio.
Questo volume cerca di riflettere e analizzare tali questioni, sviluppando, attraverso un dialogo a più voci, un canale che investe sia il campo psicoanalitico che quello filosofico. E’ un testo che affronta con slancio e passione la problematica dell’inizio analisi, del transfert, dell’atto analitico e di come finisce un’analisi. Oggi più che mai, questo testo fornisce al lettore l’occasione di rileggere e di ripensare alcuni temi fondamentali della psicoanalisi, mantenendo sempre come riferimento, in una tensione costruttiva, la dimensione sociale, economica e culturale che abitiamo e i cambiamenti che essa comporta anche nella pratica clinica.
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