Il mio bilancio personale del 2017 prosegue dalla parte I “Ricorrenze ed eventi” (clicca qui per andare all’inizio) e dalla II “Servizi e recensioni” (clicca qui per il link)
Ci hanno lasciato
Sono molte le persone più o meno direttamente legate alla psichiatria che ci hanno lasciato quest’anno. E per primo voglio ricordare uno dei miei maestri, Franco Giberti. Nato nel 1926, è scomparso il 18 luglio a novantun anni. Diciasettenne, era salito “in banda” per farsi partigiano nella brigata Longhi della divisione garibaldina Coduri, attiva nell’appennino chiavarese. Lì in montagna aveva scoperto, mi aveva confidato molti anni dopo con gli occhi che ancora gli brillavano – lui che come tutti i suoi coetanei si era formato nella scuola fascista – per la prima volta la meraviglia e la vertigine della libertà. Lo raccontava con quella sua voce calda e avvolgente e gli occhi di nuovo illuminati per un attimo dal giovanile entusiasmo di allora. C’è una fotografia che ritrae il comandante della brigata, Paolo Castagnino (“Saetta”), in mezzo a due ragazzi: “Buccin”, cioè Giberti, e “Biella”. Uno dei due sarebbe stato ferito pochi giorni dopo in combattimento, e preferì darsi la morte che cadere vivo nelle mani dei torturatori fascisti[i]. Giberti invece sopravvisse, divenne assistente di Lionello De Lisi e assistente e poi aiuto di Cornelio Fazio alla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Genova ed ebbe nei primi anni ’70 l’incarico d’insegnamento della psichiatria, il primo in Italia come ha ricordato Cazzullo[ii]. Dal 1968 dirigeva il primo nucleo della Clinica psichiatrica genovese avendo tra i suoi allievi e collaboratori Romolo Rossi, Carmelo Conforto e via via gli altri. Del 1972 è la prima edizione del Manuale di psichiatria scritto con Rossi e Collaboratori; nella prefazione, Fazio apprezza il carattere eclettico dell’opera, confacente a quella fase della psichiatria, il coraggio di esprimere idee innovative e l’età giovanissima dei collaboratori (l’età media del gruppo era 32 anni), per poi commentare però anche: «non pochi sono i passi di questo libro in cui vengono espresse opinioni diverse dalle mie». Di stretta formazione neurologica e ancora appartenente, nonostante il ’68, a una certa università – quella dei “baroni” – Fazio non poteva che guardare con perplessità le aperture del gruppo di Giberti in primo luogo alla psicoanalisi, ma anche alla psichiatria sociale e perfino all’antipsichiatria di Ronald Laing. Ed è da apprezzare, infondo, che lasciasse a quel suo collaboratore poco più che quarantenne che si accingeva a tornare a esplorare i luoghi misteriosi – e a lungo abbandonati da neuropsichiatri che erano molto neuro e poco psichiatri – della vita mentale, una così larga autonomia. Quando, nel 2003, la sezione ligure della SIP – fondata da Giberti e Giorgio Padovani, che era il direttore degli OO. PP., nel 1968 – pubblicò un volume dedicato ai 25 anni della legge 180, Maurizio Marcenaro e io riproponemmo il lontano intervento che lui aveva fatto appunto nel ‘68, nel quale già delineava molti aspetti di quella che sarebbe stata la psichiatria italiana negli anni a venire[iii].
Alla scuola fondata da Giberti si è formata la maggioranza degli psichiatri che in questi primi quarant’anni di psichiatria senza manicomio hanno lavorato nei servizi psichiatrici della Liguria e questo è stato il suo maggiore contributo, io credo, alla psichiatria della nostra regione, accanto all’assistenza ospedaliera diretta a una parte dei pazienti genovesi. E’ stato soprattutto un formatore, attento a dare una buona preparazione psichiatrica allo studente di medicina e preoccupato dell’identità dello psichiatra e della sua formazione. Mi pare che al centro della sua visione stesse l’importanza dell’incontro duale con l’altro, corpo e mente, la dimensione dialogica della cura, il fatto di mettere in gioco la propria presenza umana e la dimensione affettiva nello stare con l’altro nelle situazioni più difficili: nell’abisso della depressione, sul limite angosciante del rischio suicidario, nel farsi sinistro e misterioso del mondo nell’esperienza allucinatoria e delirante. Spazio privilegiato per l’esercizio della psichiatria era perciò la dimensione calda e rispettosa del dialogo tra chi soffre e chi, riconoscendo la sofferenza anche come esperienza propria, si adopera per curarlo. E’ stato tra i pionieri dello studio della psicofarmacologia in Italia tra gli anni ’50 e ’60, e nella fenomenologia e nella psicoanalisi riteneva di aver individuato strumenti preziosi per porre il medico all’altezza di questo compito impegnativo, per il quale occorreva lavorare in profondità e criticamente su se stessi in quanto principale strumento della cura. Un lavoro di manutenzione della propria mente, che tenesse presente il fatto che la vocazione alla professione psichiatrica – e alle professioni d’aiuto in genere – nasce spesso anche da quelle che amava definire “angosce mainofobiche”, l’esigenza in chi cura cioè di conoscere e tenere sotto controllo in primo luogo propri elementi di fragilità dei quali è necessario che lo psichiatra (o il terapeuta) sia consapevole. Un umile, prudente e dubbioso stare accanto all’altro, insomma, evitando i rischi della fusionalità propri di un atteggiamento oblativo come quelli della fuga nel distanziamento proprio di ogni tecnicismo. Frenando gli entusiasmi e imparando a tollerare le delusioni. Un lasciarsi scaldare e smuovere nel profondo delle emozioni, sforzandosi però di non perderne il controllo. Credo che essere uno psichiatra avesse, per lui, la sua essenza in questa capacità di stare con l’altro in situazioni dolorose e difficili rimanendogli in ogni caso fedele, e mi pare che questa capacità sia quello che soprattutto si è sforzato di trasmetterci. Era un compito maieutico impegnativo e difficile quello che sentiva così di assumersi, e lo ha spinto a maturare attraverso una costante attività di studio e aggiornamento una cultura sterminata in discipline molteplici: medicina, psichiatria, filosofia e studi letterari. Era anche appassionato di poesia, un campo nel quale ha coltivato molte letture e scritto, a quanto ho saputo dai familiari, versi a sua volta. Davvero affascinato per tutta la vita dallo studio e la ricerca, ha cercato di trasmetterci questo amore e un ricordo affettuoso che ho di lui è un momento nel quale, un po’ tremebondo (ero ancora specializzando), mi decisi a sottoporgli un elaborato nel quale sviluppavo una certa intuizione. Mi colpì l’entusiasmo con il quale lo accolse, incoraggiandomi ad approfondirne alcuni aspetti, dandomi suggerimenti bibliografici preziosi e, alla fine, una sua nota con la quale poterne accompagnare l’invio.
Tra le numerose pubblicazioni scientifiche ricordo, oltre al Manuale uscito in varie edizioni, due monografie, L’identità dello psichiatra (Pensiero scientifico, 1982) e L’altra depressione. Apporti psicoanalitici alla psichiatria (Piccin, 1985). Per ciò che mi riguarda, credo che dopo tanti anni di lavoro quello che la Clinica di Giberti mi ha trasmesso mi soccorra ancora nei momenti difficili; e per questo ricordo questo maestro di psichiatria con molta gratitudine[iv].
Ci spostiamo verso una prospettiva internazionale e un ambito più strettamente psicoanalitico con il ricordo di Salomon Resnik, uno dei massimi esponenti della psicoanalisi mondiale che ci ha lasciato il 17 febbraio. Era nato a Buenos Aires il 1 aprile 1920 da una famiglia ebrea originaria di Odessa, e dopo la formazione a Buenos Aires con Enrique Pichon-Rivière e altri, si è perfezionato a Londra con Melanie Klein, Herbert Rosenfeld, Wilfred Bion, Esther Bick e Donald Winnicott. Quando li nominava, non senza un certo compiacimento per averli toccati con mano, era come se questi giganti prendessero a danzare intorno a lui. Tra le sue opere ricordo: Il teatro del sogno (Bollati Boringhieri, 1982), Dialoghi sulla psicosi (Bollati Boringhieri, 1989), Spazio mentale. Sette lezioni alla Sorbona (Bollati Boringhieri, 1990), L'esperienza psicotica (Bollati Boringhieri, 1992), Sul fantastico. Tra l'immaginario e l'onirico (Bollati Boringhieri, 1993), Glaciazioni. Viaggio nel mondo della follia (Bollati Boringhieri, 2001). Oltre naturalmente al classico Persona e psicosi. Il linguaggio del corpo (Einaudi, 1972). Stabilitosi dal 1970 a Parigi, è stato presente spesso in Italia, con collaborazioni a Roma, Ancona, Napoli e recentemente soprattutto a Venezia. Un’esistenza dunque distribuita negli ultimi anni tra Parigi e Venezia, due luoghi del fascino e della magia. Ho incontrato il professore a Savona grazie ad Antonio Maria Ferro, un allievo che gli è sempre stato affezionato e gli ha dedicato un commosso e affettuoso ricordo in occasione della scomparsa[v]. Mi ha colpito soprattutto il senso di affascinata, curiosa e divertita intraprendenza di fronte all’imperscrutabilità della psicosi, che trattava come una sfida, ogni volta, ad afferrarla nel suo senso nascosto. E un piglio come ludico o artistico – apparentemente un po’ infantile anche per quel suo giocare consapevolmente con l’inflessione spagnola e con l’età veneranda – con il quale sembrava affrontare la clinica come se si trattasse dell’esplorazione di un mondo ogni volta nuovo. Soprattutto la curiosità: «Il pensiero filosofico è sempre stato stimolato dagli enigmi di una realtà piena di misteri da svelare. Decifrare questi enigmi, per tentare di risolverli, vuol dire dare un senso all’ignoto, identificarlo, nominarlo, vuol dire penetrare nel mistero, fonte della Mitologia, della Religione, di ogni atteggiamento filosofico» (P. e P., pp. 15-16). Ma è una curiosità che, per funzionare nella clinica, necessita d’inquadramento in una robusta cornice teorica per evitare che: «Dato il fascino che esercita il mondo dello schizofrenico, l’Io narcisista infantile dell’analista, si perd[a] nell’altro, come Narciso» (P. e P., p. 20). Già. L’altro. Gli scritti di Resnik sono in molta parte, arricchiti da preziosi riferimenti psicopatologici, psicoanalitici e culturali, storie d’incontro con l’altro, il paziente.
Il 3 marzo è mancato a Trieste Bruno Norcio. Era nato a Savona il 27 agosto 1945 ed è stato uno dei leader dell’esperienza triestina[vi]. Ricordo di avere ascoltato da lui, in una relazione a un convegno a Pisa del 1994 una delle sintesi più felici di quello che dovrebbe essere il lavoro di ogni operatore del servizio psichiatrico pubblico: “mantenere aperta la dialettica tra presa in carico degli aspetti simbolici e della materialità dell'esistenza”. Meritano di essere ricordati i suoi studi di storia della psichiatria; fu infatti tra i primi a riscoprire la pagina drammatica della deportazione nei lager degli internati ebrei dei manicomi del nord-est, direttamente amministrato dalla Germania, descrivendo il caso di Trieste[vii]. Alla metà di maggio ci ha lasciato Lorenzo Calvi, uno dei più delicati e raffinati studiosi della fenomenologia tra gli psichiatri italiani. Ho avuto spesso occasione di leggerlo e ascoltarlo, ma non l’ho conosciuto di persona. Rimando perciò agli interventi, pubblicati su Pol. It in occasione della sua scomparsa ad opera di amici e compagni di strada[viii]. Il 30 ottobre è mancato a Torino Agostino Pirella, che è stato il secondo collega, dopo Antonio Slavich, a raggiungere Basaglia a Gorizia, succedendogli poi nella direzione e passando di lì a guidare l’esperienza di Arezzo e poi di Torino. E’ stato per molti anni il leader di Psichiatria Democratica, che gli ha dedicato in quest’occasione un ampio e meritato ricordo[ix]; con lui la psichiatria italiana senza manicomio perde uno dei suoi padri, e uno dei suoi protagonisti. Da poco ci eravamo occupati in questa rubrica di uno dei suoi scritti, quello dedicato cinquant’anni fa con Domenico Casagrande all’esperienza inglese di John Conolly nel volume collettaneo Che cos’è la psichiatria?[x]. Non era uno psichiatra né un operatore, ma ha dato molto al mondo della salute mentale: mi riferisco a Ernesto Muggia che, per molti anni presidente di UNASAM, si è battuto con generosità, passione e sentimento della giustizia, per le persone affette da malattie mentali. Luigi Benevelli lo ha ricordato come era giusto su Pol. it[xi].
Fin qui persone più direttamente legate al mondo della salute mentale. Ma ci hanno lasciato quest’anno anche molti che si sono, più in generale, adoperati per la comprensione dell’uomo e del senso della vita e per una società più equa e più libera e che dunque con i temi della salute mentale hanno avuto a che fare, anche se in modo indiretto. Il 9 gennaio è scomparso a 91 anni il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Noto per essere il teorico della “società liquida”, un’espressione che rischia di aver perso nell’uso e nell’abuso la densità del proprio contenuto teorico, attento a come il capitalismo moderno abbia progressivamente corroso la famiglia, i partiti, le chiese, la scuola, gli Stati. Fino ad arrivare a concludere che la miscela di globalizzazione, individualismo e liquefazione delle istituzioni della convivenza produce un’esclusione sempre più spietata e fa sì che – in un quadro nel quale il welfare è oggetto di costante erosione e l’accesso al reddito diventa precario per un’area sempre più vasta di soggetti – l’unica fabbrica che non conosce crisi sia quella degli scarti umani, come ha sostenuto in uno degli ultimi saggi, nel 2008. Il 23 giugno ci ha lasciato Stefano Rodotà: il suo nome rischia di essere legato soprattutto alle noiose procedure della privacy che sono un’espressione importante del diritto debole, ma rischiano di assumere spesso soprattutto un carattere formale e inutilmente ossessivo. E’ stato invece un intellettuale lucido, schietto, appassionato, inflessibile nel porre la questione di un’Italia più rispettosa della persona e più giusta. Credo che la politica avrebbe bisogno di molti uomini capaci di tenerla all’altezza alla quale lui l’ha sempre tenuta. Il 28 giugno si è spento Ettore Masina, giornalista della RAI e raffinato esponente di quel pensiero cattolico più direttamente impegnato nel sociale, paladino appassionato dei diritti degli ultimi dall’Africa, all’America Latina, al Vietnam, alla Palestina. Al seguito di Paolo VI durante il viaggio in Terra santa, è rimasto impressionato dalle condizioni di vita dei campi palestinesi ed è stato fondatore e coordinatore della Rete Radiè Resh, che prende il nome da una bambina palestinese morta di polmonite nella miseria a Nazareth; una rete volta a un’attività di solidarietà e di denuncia. Il 15 luglio ci ha lasciato Giovanni Franzoni; abate della basilica di San Paolo fuori le mura a Roma, ha preso posizioni via via più critiche verso le gerarchie cattoliche avvicinandosi in modo sempre più convinto alla sinistra, spinto dal desiderio di un cristianesimo più autenticamente schierato dalla parte degli ultimi. Ricordo tanto lui che Masina – che nella parte I Guevara e Follerau – con commozione, sorridendo un po’ sul me stesso di allora, per l’influenza che essi ebbero sull’inizio della mia maturazione politica negli anni tra la terza media e la IV ginnasio. Poi il 4 agosto un altro lutto ha colpito l’area del mondo cattolico più attenta alle questioni della solidarietà e della giustizia sociale, con la scomparsa a 82 anni di Dionigi Tettamanzi, prima arcivescovo a Genova e poi a Milano. Di lui, che anticipando il magistero di Bergoglio aveva fatto della misericordia il nucleo del suo apostolato, mi limito a ricordare qui i messaggi rivolti alla diocesi in occasione della XVI, XVII e XVIII giornata mondiale della salute mentale il 10 ottobre 2008, 2009 e 2010. Sono tre documenti di straordinaria sensibilità, umanità e interesse, che credo debbano essere letti nella loro integrità e il più possibile diffusi[xii]. Credo di non esagerare se affermo che nelle parole che l’illustre prelato rivolge ai suoi concittadini resi indifferenti e a volte spietati dalla fredda modernità di una metropoli del nord del mondo, mi è parso di veder rinverdire un po’ dell’attenzione per i deboli che animò le omelie coraggiose del vescovo von Galen contro lo sterminio hitleriano dei disabili. Il 3 luglio era mancato intanto l’attore genovese Paolo Villaggio. Non credo superfluo ricordarlo in questo contesto perché attraverso il suo personaggio più noto, il ragionier Ugo Fantozzi, ha saputo sorridere intelligentemente delle caratteristiche di un ceto medio impiegatizio italiano compresso tra luoghi comuni, aspirazioni al riscatto individuale dalla mediocrità e spinte alla serializzazione e proletarizzazione del lavoro e della vita che cominciavano a farsi più opprimenti in quegli anni. E ha saputo ironizzare, ricorrendo al grottesco, sul servilismo cui possono dare vita le situazioni gerarchiche che negli ultimi anni – grazie a una malintesa "aziendalizzazione" dei servizi pubblici – non ha risparmiato neanche questo settore. Con il personaggio perturbane e commuovente della figlia, ha infranto coraggiosamente il tabù per il quale parlare della bruttezza desta imbarazzo e perciò bisogna tacere dei vissuti che questa condizione comporta nell’interessato e in chi gli vuole bene. Le polemiche un po’ ipocrite di questi tempi sulla scoperta che nel mondo del lavoro la “bella presenza” – che è un criterio inevitabilmente e spietatamente antiegualitario – ha il suo peso, dimostrano quanto quel personaggio incarnasse un problema che si pone nella realtà e ha molto peso nel destino delle persone e nel loro vissuto. Attraverso un altro dei suoi personaggi, Fracchia, ci ha aiutato a sorridere del tirannico e del mostruoso che è dentro ciascuno. Federico Fellini ha scoperto la poesia di questo attore insieme comico e triste, e lo ha scelto con Roberto Benigni per l’ultimo film da lui diretto nel 1990, La voce della luna, ispirato a Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni. Nel 1993 è stato Ermanno Olmi a dirigerlo ne Il segreto del bosco vecchio, tratto da un racconto di Dino Buzzati[xiii]. Il 23 agosto è mancato a 89 anni Tullio Seppilli. Di famiglia ebrea, era riparato dopo le leggi razziali in Brasile e al rientro in Italia conseguì la laurea in scienze naturali e divenne collaboratore di Ernesto De Martino. Luigi Benevelli ne ha ricordato su Pol. it il contributo nei campi dell’antropologia, dell’etnopsichiatria, della psichiatria e l’impegno di intellettuale e militante di sinistra nella sanità pubblica[xiv]. Il 21 novembre è mancato a Genova il geografo Massimo Quaini; era nato a Celle L. il 5 maggio 1941. Divenuto noto per un saggio del 1964, Marxismo e geografia, lo ricordiamo qui per un articolo pubblicato nel 1980 sulla rivista “Movimento Operaio e Socialista”, diretta dallo storico Antonio Gibelli, dal titolo: Il modello panoptico del primo manicomio di Genova. Con esso si ricominciava a parlare, a cinquant’anni dagli scritti di Giuseppe Portigliotti, di storia della psichiatria in questa città e lo si faceva con un taglio molto diverso, decisamente critico e attento soprattutto alla relazione tra spazio, cura, potere e libertà. Un ricordo di carattere più personale è infine quello che voglio dedicare a Dante Taccani, che si è spento a 74 anni il giorno prima di Quaini, il 20 novembre. Giunto a Genova da Milano a metà degli anni ’70 e sposato con Patrizia Polselli, con la quale ha condiviso convincimenti politici e professione, è stato militante di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria e Rifondazione Comunista, ricoprendo il ruolo di Assessore alle politiche giovanili e all’immigrazione del Comune nella giunta di Giuseppe Pericu. Ci siamo conosciuti grazie a uno dei suoi insegnanti e mio caro amico, Antonio Marletta, quando lui era preside dell’Istituto alberghiero Nino Bergese e io responsabile del Centro diurno di via Sestri, a poche centinaia di metri. La sua idea di scuola era quella di una realtà formativa in senso ampio di quello che sarà poi il membro di una comunità, e al contempo professionalizzante; uno strumento quindi di trasmissione dei valori democratici e di integrazione sociale, e anche di preparazione ad affrontare in modo attrezzato il mondo del lavoro e le sue asprezze, la competitività, i conflitti. I segni di questa duplice attenzione sono nella passione con la quale si adoperava a favorire i percorsi di studio degli studenti socialmente più disagiati – e quelli del corso serale, che forse gli stavano un po’ più a cuore – e proiettava il suo impegno anche nell’aiutarli nella fase successiva della ricerca (non facile) del lavoro. Che si trattasse di ragazzi arrivati alle superiori da percorsi scolastici accidentati o di giovani migranti di seconda generazione con le famiglie frantumate dall’Atlantico, il loro problema diventava subito il suo. Lavorava per costruire una scuola non selettiva, perché desiderava una società non selettiva nella quale nessuno si trovasse già escluso a quindici anni dalla possibilità di una posizione dignitosa nella vita. Il suo orgoglio, la sua sfida era che i ragazzi del Bergese potessero ricevere una formazione che nel mercato del lavoro trovasse apprezzamento; senza però che, già in partenza, nessuno fosse escluso da questa prospettiva. Riuscire a tenere insieme competitività e inclusione, insomma; era decisamente una bella scommessa! E così, della sua generosità, della disponibilità ad assumersi delle grane per migliorare le cose, abbiamo potuto profittare anche noi: ogni iniziativa del nostro Centro sapeva di trovare supporto da parte di studenti e insegnanti del “suo” Bergese, da lui sensibilizzati al riguardo. Con la stessa umanità e curiosità con le quali si prendeva a cuore il destino dei suoi ragazzi difficili, ha accolto la proposta di realizzare per noi (con un budget limitato ma prezioso messo a disposizione da Ennio Massolo) un vero corso di cucina e ristorazione, utilizzando locali, strumenti e insegnanti dell’istituto. E anche quando abbiamo lanciato una campagna per combattere lo stigma e il pregiudizio tra gli studenti, la porta del Bergese è stata tra le prime a spalancarsi per accoglierci. Potevamo insegnare umanità e integrazione, e questi erano i valori che la scuola, secondo lui, dovrebbe trasmettere. Piccole cose, certo, ma credo che se i nostri progetti, che riescono meglio quando hanno piccole dimensioni, potessero incontrare sempre sulla loro strada persone che hanno il sentimento della giustizia e l’umanità di Dante, riusciremmo a realizzarne in numero senz’altro maggiore e di più efficaci. Anche un preside, infatti, può fare la sua parte per la salute mentale nella comunità; e lui l’ha fatta, insieme a molto altro.
Nel video allegato la lectio magistralis "Psicopatologia e anonimato nel campo psichiatrico" tenuta da Salomon Resnik il 30 ottobre 2010 a Lecce al 2° convegno Id-entità Mediterranee "Psicoanalisi e luoghi della negazione".
Ci hanno lasciato
Sono molte le persone più o meno direttamente legate alla psichiatria che ci hanno lasciato quest’anno. E per primo voglio ricordare uno dei miei maestri, Franco Giberti. Nato nel 1926, è scomparso il 18 luglio a novantun anni. Diciasettenne, era salito “in banda” per farsi partigiano nella brigata Longhi della divisione garibaldina Coduri, attiva nell’appennino chiavarese. Lì in montagna aveva scoperto, mi aveva confidato molti anni dopo con gli occhi che ancora gli brillavano – lui che come tutti i suoi coetanei si era formato nella scuola fascista – per la prima volta la meraviglia e la vertigine della libertà. Lo raccontava con quella sua voce calda e avvolgente e gli occhi di nuovo illuminati per un attimo dal giovanile entusiasmo di allora. C’è una fotografia che ritrae il comandante della brigata, Paolo Castagnino (“Saetta”), in mezzo a due ragazzi: “Buccin”, cioè Giberti, e “Biella”. Uno dei due sarebbe stato ferito pochi giorni dopo in combattimento, e preferì darsi la morte che cadere vivo nelle mani dei torturatori fascisti[i]. Giberti invece sopravvisse, divenne assistente di Lionello De Lisi e assistente e poi aiuto di Cornelio Fazio alla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Genova ed ebbe nei primi anni ’70 l’incarico d’insegnamento della psichiatria, il primo in Italia come ha ricordato Cazzullo[ii]. Dal 1968 dirigeva il primo nucleo della Clinica psichiatrica genovese avendo tra i suoi allievi e collaboratori Romolo Rossi, Carmelo Conforto e via via gli altri. Del 1972 è la prima edizione del Manuale di psichiatria scritto con Rossi e Collaboratori; nella prefazione, Fazio apprezza il carattere eclettico dell’opera, confacente a quella fase della psichiatria, il coraggio di esprimere idee innovative e l’età giovanissima dei collaboratori (l’età media del gruppo era 32 anni), per poi commentare però anche: «non pochi sono i passi di questo libro in cui vengono espresse opinioni diverse dalle mie». Di stretta formazione neurologica e ancora appartenente, nonostante il ’68, a una certa università – quella dei “baroni” – Fazio non poteva che guardare con perplessità le aperture del gruppo di Giberti in primo luogo alla psicoanalisi, ma anche alla psichiatria sociale e perfino all’antipsichiatria di Ronald Laing. Ed è da apprezzare, infondo, che lasciasse a quel suo collaboratore poco più che quarantenne che si accingeva a tornare a esplorare i luoghi misteriosi – e a lungo abbandonati da neuropsichiatri che erano molto neuro e poco psichiatri – della vita mentale, una così larga autonomia. Quando, nel 2003, la sezione ligure della SIP – fondata da Giberti e Giorgio Padovani, che era il direttore degli OO. PP., nel 1968 – pubblicò un volume dedicato ai 25 anni della legge 180, Maurizio Marcenaro e io riproponemmo il lontano intervento che lui aveva fatto appunto nel ‘68, nel quale già delineava molti aspetti di quella che sarebbe stata la psichiatria italiana negli anni a venire[iii].
Alla scuola fondata da Giberti si è formata la maggioranza degli psichiatri che in questi primi quarant’anni di psichiatria senza manicomio hanno lavorato nei servizi psichiatrici della Liguria e questo è stato il suo maggiore contributo, io credo, alla psichiatria della nostra regione, accanto all’assistenza ospedaliera diretta a una parte dei pazienti genovesi. E’ stato soprattutto un formatore, attento a dare una buona preparazione psichiatrica allo studente di medicina e preoccupato dell’identità dello psichiatra e della sua formazione. Mi pare che al centro della sua visione stesse l’importanza dell’incontro duale con l’altro, corpo e mente, la dimensione dialogica della cura, il fatto di mettere in gioco la propria presenza umana e la dimensione affettiva nello stare con l’altro nelle situazioni più difficili: nell’abisso della depressione, sul limite angosciante del rischio suicidario, nel farsi sinistro e misterioso del mondo nell’esperienza allucinatoria e delirante. Spazio privilegiato per l’esercizio della psichiatria era perciò la dimensione calda e rispettosa del dialogo tra chi soffre e chi, riconoscendo la sofferenza anche come esperienza propria, si adopera per curarlo. E’ stato tra i pionieri dello studio della psicofarmacologia in Italia tra gli anni ’50 e ’60, e nella fenomenologia e nella psicoanalisi riteneva di aver individuato strumenti preziosi per porre il medico all’altezza di questo compito impegnativo, per il quale occorreva lavorare in profondità e criticamente su se stessi in quanto principale strumento della cura. Un lavoro di manutenzione della propria mente, che tenesse presente il fatto che la vocazione alla professione psichiatrica – e alle professioni d’aiuto in genere – nasce spesso anche da quelle che amava definire “angosce mainofobiche”, l’esigenza in chi cura cioè di conoscere e tenere sotto controllo in primo luogo propri elementi di fragilità dei quali è necessario che lo psichiatra (o il terapeuta) sia consapevole. Un umile, prudente e dubbioso stare accanto all’altro, insomma, evitando i rischi della fusionalità propri di un atteggiamento oblativo come quelli della fuga nel distanziamento proprio di ogni tecnicismo. Frenando gli entusiasmi e imparando a tollerare le delusioni. Un lasciarsi scaldare e smuovere nel profondo delle emozioni, sforzandosi però di non perderne il controllo. Credo che essere uno psichiatra avesse, per lui, la sua essenza in questa capacità di stare con l’altro in situazioni dolorose e difficili rimanendogli in ogni caso fedele, e mi pare che questa capacità sia quello che soprattutto si è sforzato di trasmetterci. Era un compito maieutico impegnativo e difficile quello che sentiva così di assumersi, e lo ha spinto a maturare attraverso una costante attività di studio e aggiornamento una cultura sterminata in discipline molteplici: medicina, psichiatria, filosofia e studi letterari. Era anche appassionato di poesia, un campo nel quale ha coltivato molte letture e scritto, a quanto ho saputo dai familiari, versi a sua volta. Davvero affascinato per tutta la vita dallo studio e la ricerca, ha cercato di trasmetterci questo amore e un ricordo affettuoso che ho di lui è un momento nel quale, un po’ tremebondo (ero ancora specializzando), mi decisi a sottoporgli un elaborato nel quale sviluppavo una certa intuizione. Mi colpì l’entusiasmo con il quale lo accolse, incoraggiandomi ad approfondirne alcuni aspetti, dandomi suggerimenti bibliografici preziosi e, alla fine, una sua nota con la quale poterne accompagnare l’invio.
Tra le numerose pubblicazioni scientifiche ricordo, oltre al Manuale uscito in varie edizioni, due monografie, L’identità dello psichiatra (Pensiero scientifico, 1982) e L’altra depressione. Apporti psicoanalitici alla psichiatria (Piccin, 1985). Per ciò che mi riguarda, credo che dopo tanti anni di lavoro quello che la Clinica di Giberti mi ha trasmesso mi soccorra ancora nei momenti difficili; e per questo ricordo questo maestro di psichiatria con molta gratitudine[iv].
Ci spostiamo verso una prospettiva internazionale e un ambito più strettamente psicoanalitico con il ricordo di Salomon Resnik, uno dei massimi esponenti della psicoanalisi mondiale che ci ha lasciato il 17 febbraio. Era nato a Buenos Aires il 1 aprile 1920 da una famiglia ebrea originaria di Odessa, e dopo la formazione a Buenos Aires con Enrique Pichon-Rivière e altri, si è perfezionato a Londra con Melanie Klein, Herbert Rosenfeld, Wilfred Bion, Esther Bick e Donald Winnicott. Quando li nominava, non senza un certo compiacimento per averli toccati con mano, era come se questi giganti prendessero a danzare intorno a lui. Tra le sue opere ricordo: Il teatro del sogno (Bollati Boringhieri, 1982), Dialoghi sulla psicosi (Bollati Boringhieri, 1989), Spazio mentale. Sette lezioni alla Sorbona (Bollati Boringhieri, 1990), L'esperienza psicotica (Bollati Boringhieri, 1992), Sul fantastico. Tra l'immaginario e l'onirico (Bollati Boringhieri, 1993), Glaciazioni. Viaggio nel mondo della follia (Bollati Boringhieri, 2001). Oltre naturalmente al classico Persona e psicosi. Il linguaggio del corpo (Einaudi, 1972). Stabilitosi dal 1970 a Parigi, è stato presente spesso in Italia, con collaborazioni a Roma, Ancona, Napoli e recentemente soprattutto a Venezia. Un’esistenza dunque distribuita negli ultimi anni tra Parigi e Venezia, due luoghi del fascino e della magia. Ho incontrato il professore a Savona grazie ad Antonio Maria Ferro, un allievo che gli è sempre stato affezionato e gli ha dedicato un commosso e affettuoso ricordo in occasione della scomparsa[v]. Mi ha colpito soprattutto il senso di affascinata, curiosa e divertita intraprendenza di fronte all’imperscrutabilità della psicosi, che trattava come una sfida, ogni volta, ad afferrarla nel suo senso nascosto. E un piglio come ludico o artistico – apparentemente un po’ infantile anche per quel suo giocare consapevolmente con l’inflessione spagnola e con l’età veneranda – con il quale sembrava affrontare la clinica come se si trattasse dell’esplorazione di un mondo ogni volta nuovo. Soprattutto la curiosità: «Il pensiero filosofico è sempre stato stimolato dagli enigmi di una realtà piena di misteri da svelare. Decifrare questi enigmi, per tentare di risolverli, vuol dire dare un senso all’ignoto, identificarlo, nominarlo, vuol dire penetrare nel mistero, fonte della Mitologia, della Religione, di ogni atteggiamento filosofico» (P. e P., pp. 15-16). Ma è una curiosità che, per funzionare nella clinica, necessita d’inquadramento in una robusta cornice teorica per evitare che: «Dato il fascino che esercita il mondo dello schizofrenico, l’Io narcisista infantile dell’analista, si perd[a] nell’altro, come Narciso» (P. e P., p. 20). Già. L’altro. Gli scritti di Resnik sono in molta parte, arricchiti da preziosi riferimenti psicopatologici, psicoanalitici e culturali, storie d’incontro con l’altro, il paziente.
Il 3 marzo è mancato a Trieste Bruno Norcio. Era nato a Savona il 27 agosto 1945 ed è stato uno dei leader dell’esperienza triestina[vi]. Ricordo di avere ascoltato da lui, in una relazione a un convegno a Pisa del 1994 una delle sintesi più felici di quello che dovrebbe essere il lavoro di ogni operatore del servizio psichiatrico pubblico: “mantenere aperta la dialettica tra presa in carico degli aspetti simbolici e della materialità dell'esistenza”. Meritano di essere ricordati i suoi studi di storia della psichiatria; fu infatti tra i primi a riscoprire la pagina drammatica della deportazione nei lager degli internati ebrei dei manicomi del nord-est, direttamente amministrato dalla Germania, descrivendo il caso di Trieste[vii]. Alla metà di maggio ci ha lasciato Lorenzo Calvi, uno dei più delicati e raffinati studiosi della fenomenologia tra gli psichiatri italiani. Ho avuto spesso occasione di leggerlo e ascoltarlo, ma non l’ho conosciuto di persona. Rimando perciò agli interventi, pubblicati su Pol. It in occasione della sua scomparsa ad opera di amici e compagni di strada[viii]. Il 30 ottobre è mancato a Torino Agostino Pirella, che è stato il secondo collega, dopo Antonio Slavich, a raggiungere Basaglia a Gorizia, succedendogli poi nella direzione e passando di lì a guidare l’esperienza di Arezzo e poi di Torino. E’ stato per molti anni il leader di Psichiatria Democratica, che gli ha dedicato in quest’occasione un ampio e meritato ricordo[ix]; con lui la psichiatria italiana senza manicomio perde uno dei suoi padri, e uno dei suoi protagonisti. Da poco ci eravamo occupati in questa rubrica di uno dei suoi scritti, quello dedicato cinquant’anni fa con Domenico Casagrande all’esperienza inglese di John Conolly nel volume collettaneo Che cos’è la psichiatria?[x]. Non era uno psichiatra né un operatore, ma ha dato molto al mondo della salute mentale: mi riferisco a Ernesto Muggia che, per molti anni presidente di UNASAM, si è battuto con generosità, passione e sentimento della giustizia, per le persone affette da malattie mentali. Luigi Benevelli lo ha ricordato come era giusto su Pol. it[xi].
Fin qui persone più direttamente legate al mondo della salute mentale. Ma ci hanno lasciato quest’anno anche molti che si sono, più in generale, adoperati per la comprensione dell’uomo e del senso della vita e per una società più equa e più libera e che dunque con i temi della salute mentale hanno avuto a che fare, anche se in modo indiretto. Il 9 gennaio è scomparso a 91 anni il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Noto per essere il teorico della “società liquida”, un’espressione che rischia di aver perso nell’uso e nell’abuso la densità del proprio contenuto teorico, attento a come il capitalismo moderno abbia progressivamente corroso la famiglia, i partiti, le chiese, la scuola, gli Stati. Fino ad arrivare a concludere che la miscela di globalizzazione, individualismo e liquefazione delle istituzioni della convivenza produce un’esclusione sempre più spietata e fa sì che – in un quadro nel quale il welfare è oggetto di costante erosione e l’accesso al reddito diventa precario per un’area sempre più vasta di soggetti – l’unica fabbrica che non conosce crisi sia quella degli scarti umani, come ha sostenuto in uno degli ultimi saggi, nel 2008. Il 23 giugno ci ha lasciato Stefano Rodotà: il suo nome rischia di essere legato soprattutto alle noiose procedure della privacy che sono un’espressione importante del diritto debole, ma rischiano di assumere spesso soprattutto un carattere formale e inutilmente ossessivo. E’ stato invece un intellettuale lucido, schietto, appassionato, inflessibile nel porre la questione di un’Italia più rispettosa della persona e più giusta. Credo che la politica avrebbe bisogno di molti uomini capaci di tenerla all’altezza alla quale lui l’ha sempre tenuta. Il 28 giugno si è spento Ettore Masina, giornalista della RAI e raffinato esponente di quel pensiero cattolico più direttamente impegnato nel sociale, paladino appassionato dei diritti degli ultimi dall’Africa, all’America Latina, al Vietnam, alla Palestina. Al seguito di Paolo VI durante il viaggio in Terra santa, è rimasto impressionato dalle condizioni di vita dei campi palestinesi ed è stato fondatore e coordinatore della Rete Radiè Resh, che prende il nome da una bambina palestinese morta di polmonite nella miseria a Nazareth; una rete volta a un’attività di solidarietà e di denuncia. Il 15 luglio ci ha lasciato Giovanni Franzoni; abate della basilica di San Paolo fuori le mura a Roma, ha preso posizioni via via più critiche verso le gerarchie cattoliche avvicinandosi in modo sempre più convinto alla sinistra, spinto dal desiderio di un cristianesimo più autenticamente schierato dalla parte degli ultimi. Ricordo tanto lui che Masina – che nella parte I Guevara e Follerau – con commozione, sorridendo un po’ sul me stesso di allora, per l’influenza che essi ebbero sull’inizio della mia maturazione politica negli anni tra la terza media e la IV ginnasio. Poi il 4 agosto un altro lutto ha colpito l’area del mondo cattolico più attenta alle questioni della solidarietà e della giustizia sociale, con la scomparsa a 82 anni di Dionigi Tettamanzi, prima arcivescovo a Genova e poi a Milano. Di lui, che anticipando il magistero di Bergoglio aveva fatto della misericordia il nucleo del suo apostolato, mi limito a ricordare qui i messaggi rivolti alla diocesi in occasione della XVI, XVII e XVIII giornata mondiale della salute mentale il 10 ottobre 2008, 2009 e 2010. Sono tre documenti di straordinaria sensibilità, umanità e interesse, che credo debbano essere letti nella loro integrità e il più possibile diffusi[xii]. Credo di non esagerare se affermo che nelle parole che l’illustre prelato rivolge ai suoi concittadini resi indifferenti e a volte spietati dalla fredda modernità di una metropoli del nord del mondo, mi è parso di veder rinverdire un po’ dell’attenzione per i deboli che animò le omelie coraggiose del vescovo von Galen contro lo sterminio hitleriano dei disabili. Il 3 luglio era mancato intanto l’attore genovese Paolo Villaggio. Non credo superfluo ricordarlo in questo contesto perché attraverso il suo personaggio più noto, il ragionier Ugo Fantozzi, ha saputo sorridere intelligentemente delle caratteristiche di un ceto medio impiegatizio italiano compresso tra luoghi comuni, aspirazioni al riscatto individuale dalla mediocrità e spinte alla serializzazione e proletarizzazione del lavoro e della vita che cominciavano a farsi più opprimenti in quegli anni. E ha saputo ironizzare, ricorrendo al grottesco, sul servilismo cui possono dare vita le situazioni gerarchiche che negli ultimi anni – grazie a una malintesa "aziendalizzazione" dei servizi pubblici – non ha risparmiato neanche questo settore. Con il personaggio perturbane e commuovente della figlia, ha infranto coraggiosamente il tabù per il quale parlare della bruttezza desta imbarazzo e perciò bisogna tacere dei vissuti che questa condizione comporta nell’interessato e in chi gli vuole bene. Le polemiche un po’ ipocrite di questi tempi sulla scoperta che nel mondo del lavoro la “bella presenza” – che è un criterio inevitabilmente e spietatamente antiegualitario – ha il suo peso, dimostrano quanto quel personaggio incarnasse un problema che si pone nella realtà e ha molto peso nel destino delle persone e nel loro vissuto. Attraverso un altro dei suoi personaggi, Fracchia, ci ha aiutato a sorridere del tirannico e del mostruoso che è dentro ciascuno. Federico Fellini ha scoperto la poesia di questo attore insieme comico e triste, e lo ha scelto con Roberto Benigni per l’ultimo film da lui diretto nel 1990, La voce della luna, ispirato a Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni. Nel 1993 è stato Ermanno Olmi a dirigerlo ne Il segreto del bosco vecchio, tratto da un racconto di Dino Buzzati[xiii]. Il 23 agosto è mancato a 89 anni Tullio Seppilli. Di famiglia ebrea, era riparato dopo le leggi razziali in Brasile e al rientro in Italia conseguì la laurea in scienze naturali e divenne collaboratore di Ernesto De Martino. Luigi Benevelli ne ha ricordato su Pol. it il contributo nei campi dell’antropologia, dell’etnopsichiatria, della psichiatria e l’impegno di intellettuale e militante di sinistra nella sanità pubblica[xiv]. Il 21 novembre è mancato a Genova il geografo Massimo Quaini; era nato a Celle L. il 5 maggio 1941. Divenuto noto per un saggio del 1964, Marxismo e geografia, lo ricordiamo qui per un articolo pubblicato nel 1980 sulla rivista “Movimento Operaio e Socialista”, diretta dallo storico Antonio Gibelli, dal titolo: Il modello panoptico del primo manicomio di Genova. Con esso si ricominciava a parlare, a cinquant’anni dagli scritti di Giuseppe Portigliotti, di storia della psichiatria in questa città e lo si faceva con un taglio molto diverso, decisamente critico e attento soprattutto alla relazione tra spazio, cura, potere e libertà. Un ricordo di carattere più personale è infine quello che voglio dedicare a Dante Taccani, che si è spento a 74 anni il giorno prima di Quaini, il 20 novembre. Giunto a Genova da Milano a metà degli anni ’70 e sposato con Patrizia Polselli, con la quale ha condiviso convincimenti politici e professione, è stato militante di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria e Rifondazione Comunista, ricoprendo il ruolo di Assessore alle politiche giovanili e all’immigrazione del Comune nella giunta di Giuseppe Pericu. Ci siamo conosciuti grazie a uno dei suoi insegnanti e mio caro amico, Antonio Marletta, quando lui era preside dell’Istituto alberghiero Nino Bergese e io responsabile del Centro diurno di via Sestri, a poche centinaia di metri. La sua idea di scuola era quella di una realtà formativa in senso ampio di quello che sarà poi il membro di una comunità, e al contempo professionalizzante; uno strumento quindi di trasmissione dei valori democratici e di integrazione sociale, e anche di preparazione ad affrontare in modo attrezzato il mondo del lavoro e le sue asprezze, la competitività, i conflitti. I segni di questa duplice attenzione sono nella passione con la quale si adoperava a favorire i percorsi di studio degli studenti socialmente più disagiati – e quelli del corso serale, che forse gli stavano un po’ più a cuore – e proiettava il suo impegno anche nell’aiutarli nella fase successiva della ricerca (non facile) del lavoro. Che si trattasse di ragazzi arrivati alle superiori da percorsi scolastici accidentati o di giovani migranti di seconda generazione con le famiglie frantumate dall’Atlantico, il loro problema diventava subito il suo. Lavorava per costruire una scuola non selettiva, perché desiderava una società non selettiva nella quale nessuno si trovasse già escluso a quindici anni dalla possibilità di una posizione dignitosa nella vita. Il suo orgoglio, la sua sfida era che i ragazzi del Bergese potessero ricevere una formazione che nel mercato del lavoro trovasse apprezzamento; senza però che, già in partenza, nessuno fosse escluso da questa prospettiva. Riuscire a tenere insieme competitività e inclusione, insomma; era decisamente una bella scommessa! E così, della sua generosità, della disponibilità ad assumersi delle grane per migliorare le cose, abbiamo potuto profittare anche noi: ogni iniziativa del nostro Centro sapeva di trovare supporto da parte di studenti e insegnanti del “suo” Bergese, da lui sensibilizzati al riguardo. Con la stessa umanità e curiosità con le quali si prendeva a cuore il destino dei suoi ragazzi difficili, ha accolto la proposta di realizzare per noi (con un budget limitato ma prezioso messo a disposizione da Ennio Massolo) un vero corso di cucina e ristorazione, utilizzando locali, strumenti e insegnanti dell’istituto. E anche quando abbiamo lanciato una campagna per combattere lo stigma e il pregiudizio tra gli studenti, la porta del Bergese è stata tra le prime a spalancarsi per accoglierci. Potevamo insegnare umanità e integrazione, e questi erano i valori che la scuola, secondo lui, dovrebbe trasmettere. Piccole cose, certo, ma credo che se i nostri progetti, che riescono meglio quando hanno piccole dimensioni, potessero incontrare sempre sulla loro strada persone che hanno il sentimento della giustizia e l’umanità di Dante, riusciremmo a realizzarne in numero senz’altro maggiore e di più efficaci. Anche un preside, infatti, può fare la sua parte per la salute mentale nella comunità; e lui l’ha fatta, insieme a molto altro.
Nel video allegato la lectio magistralis "Psicopatologia e anonimato nel campo psichiatrico" tenuta da Salomon Resnik il 30 ottobre 2010 a Lecce al 2° convegno Id-entità Mediterranee "Psicoanalisi e luoghi della negazione".
[i] Rimando alla sua testimonianza raccolta in: P.F. Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (1922-1945), Verona, Ombre corte, 2008, pp. 72-74 (clicca qui per il link alla scheda del libro). E ricordo ancora il generoso entusiasmo con il quale accolse l’uscita del volume.
[iii] Aa. Vv., 25 anni di psichiatria di comunità in Italia. La SIP incontra le istituzioni, Genova, Brigati, 2004, pp. 96-100.
[iv] Al prof. Giberti è stato dedicato un ricordo a caldo su questa rivista dal direttore, Francesco Bollorino (clicca qui per il link), e un altro ricordo gli è stato dedicato da Giovanni Maria Ruggiero e Sandra Sassaroli (clicca qui per il link).
[v] Rimando ad A.M. Ferro, Salomon Resnik, pubblicato su “Il vaso di Pandora” versione on-line (clicca qui per il link).
[vi] Sull’esperienza triestina rimando in questa rubrica a: Inventare l’istituzione. Il “caso Trieste” nell’evoluzione della psichiatria italiana della 180 (clicca qui per il link).
[vii] Vedi p. es. B. Norcio, L Toresini, Dal manicomio al lager di sterminio. Riflessioni sulla deportazione di un gruppo di ricoverati ebrei dall'Ospedale psichiatrico di Trieste, in: Psichiatria e nazismo (a cura di B. Norcio, L. Toresini), Collana dei Fogli d'Informazione, 1994, pp. 16-23; B. Norcio, L’Adriatiches Kustenland e la deportazione psichiatrica del 1944 dall’Ospedale psichiatrico di Trieste, Fogli d’informazione, n. 191, “Psichiatria e nazismo”, 1998, pp. 42-51.
[viii] Si vedano i ricordi di Gilberto Di Petta (clicca qui per il link), Riccardo Dalle Luche (clicca qui per il link) e Paolo Colavero (clicca qui per il link), Luciano Del Pistoia (clicca qui per il link) pubblicati su Pol. it.
[x] CHE COS’E’ LA PSICHIATRIA? 50 ANNI DOPO. Parte II. Tutta un’altra storia (clicca qui per il link)
[xi] Cfr. L. Benevelli, Obituary. In memoria di Ernesto Muggia (1937-2017), Pol. it, 20 ottobre 2017 (clicca qui per il link).
[xii] Per il link alle tre lettere del cardinale Tettamanzi e a quella del suo successore cardinale Scola del 2011, che meritano decisamente di essere conosciute e diffuse, clicca qui.
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