Il “giorno della memoria”, un rito stanco, difensivo, è espressione di un conflitto irrisolto tra resistenza e cedimento all’oblio. Già nell’essere privo di oggetto (ricordo di cosa?) si manifesta la sua contraddizione.
La volontà di educare a ricordare, a apprendere dalla storia, è impotente di fronte all’amnesia, se non ci sono le condizioni che rendono possibile e significativa la memoria.
Le forze xenofobe o razziste sono in grande espansione in tutto il mondo e governano in parecchie democrazie occidentali. Da noi la nomina a senatrice di una sopravvissuta dei campi di concentramento è contradetta nei fatti dalla sintonia di quasi tutte le forze politiche sulla necessità di tenere, non importa in che modo, i migranti lontani dai nostri confini. Il disinvestimento delle scienze umanistiche e del campo della cultura, a favore dello spettacolo e della tecnologia, fa sì che solo una piccola minoranza di colti disponga di strumenti adeguati per una lettura critica del passato.
La nostra memoria non è fatta del ricordo oggettivo dei singoli fatti che sono rievocati sempre modificati. Non solo per la deformazione imposta dalla rimozione del conflitto in cui possono essere implicati, ma anche perché il loro richiamo oggettivo interferirebbe con l’interpretazione soggettiva che rende significativa la loro presenza nel nostro ricordo.
Freud disse che l’oggettività di un ricordo inganna perché ci mette nella condizione dell’osservatore esterno, mentre quando l’esperienza ricordata accadeva noi eravamo “al centro della situazione con la nostra attenzione rivolta al mondo esterno”.
Ricordiamo la nostra relazione con il mondo, la sensorialità, sensualità dei gesti che ci hanno aperto, ci aprono, sbilanciandosi, alla vita, abbiamo memoria del passato vivente che con a sua presenza dà il senso della profondità e ampiezza del nostro movimento nello spazio-tempo.
Lo sterminio, l’irrompere freddo della morte venuta a colonizzare la vita, l’agire privo di senso in sé che non può essere esperito né dal automa che lo esegue, né dall’essere umano che lo subisce, è il reale bruto:il fatto nella sua totale concretezza congelato in una attualità glaciale e percepito da chi è sopravvissuto come minaccia incombente dal futuro.
Non lo troveremo nel passato sospeso, quello che non passa perché non è stato fatto il lutto, la trasformazione interna necessaria per affrontare i cambiamenti inevitabili delle nostre condizioni di vita. Neppure nell’inattuale, il fuori dal tempo lineare che lo espande lateralmente e rende gli esseri umani contemporanei al di là della collocazione storica della loro esistenza. Cancella il tempo, non può essere ricordato né obliato. Resta iscritto dentro di noi come vuoto di materia viva.
Non è questo vuoto l’oggetto della nostra memoria, ma ciò che oggi lo può colmare, ciò che allora avrebbe potuto evitare la sua genesi, ma era stato messo da parte. Ciò che ci lega all’altro come co-costitutivo della nostra soggettività.
Che fine ha fatto la componente ebraica della civiltà europea, il nostro legame con essa, il suo respiro nel nostro sangue? Quando faremo il lutto per ciò che abbiamo perso, in modo da ritrovarlo in forme nuove e riempire lo spazio beante nel cuore della nostra esistenza?
Impresa impossibile se continueremo a sostituire il lutto con il raffinato negazionismo del restauro che copre il vuoto (cresciuto dall’esodo in Palestina) e della retorica del “martirio”.
Se continueremo a esaltare gli ebrei martiri e discriminare quelli in carne e ossa, se piangiamo per i migranti annegati e rifiutiamo quelli sopravvissuti. Anche questo è morte che mangia la vita.
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