Frantz Fanon: nuovi scritti politici, ma non solo
10 febbraio, 2018 - 09:50
Editore: Ombre Corte
Anno: 2017
Pagine: 123
Costo: €12.00
E’ sottotitolato “Scritti politici (1957-1970)” - ma non è solo di politica, come sempre in Fanon, che si tratta - il volume La rivoluzione algerina e la liberazione dell’Africa pubblicato a cura di Gabriele Proglio per le edizioni ombre corte di Verona. Il testo rappresenta la versione italiana di una parte degli scritti inediti di Fanon raccolti da Jean Khalfa e Robert Young sotto il titolo écrits sur l’aliénation et la liberté, quella composta dagli articoli originariamente pubblicati anonimi sull’edizione francese di El Moudjahid, organo ufficiale del Fronte di Liberazione Nazionale algerino, oltre a un’interessante lettera all’intellettuale iraniano Ali Shariati. L’attribuzione di questi scritti, che nascono da un lavoro redazionale collettivo ma portano - come scrive Jean Khalfa nell'introduzione - sotto molti aspetti l’impronta evidente dello psichiatra martinicano, ha richiesto un complesso lavoro di esegesi e l’incrocio di più fonti, ma pare ora abbastanza certa.
Il periodico al quale erano originariamente destinati è un foglio di propaganda politica, e quindi in molti di essi traspaiono evidenti l’intento polemico e il carattere decisamente militante. Pure, non mancano elementi d’interesse sul piano storico, politico, ma anche per la psichiatria, che mi permetto qui di brevemente evidenziare.
In primo luogo, gli articoli qui raccolti contribuiscono alla ricostruzione storica di una fase particolarmente feroce ed emblematica del processo di decolonizzazione, quella che ha visto protagoniste la Francia e l’Algeria, a partire dall’impressionante relazione, puntualmente ricostruita per il caso algerino, tra colonialismo e terrore (pp. 82-89). C’è in essi la consapevolezza della decolonizzazione come problema unitario, che riguarda i dannati della terra nel loro insieme i quali devono trovare unità nel loro riscatto come sono stati uniti dall’imperialismo nell’esperienza di un’unica oppressione. C’è anche chiaro, evidente, l’essere stato quel momento magico della decolonizzazione un’occasione forse unica di voltare davvero pagina per l’umanità, nel quale la possibilità e la prospettiva di un “mondo nuovo” pareva a portata di mano. Poi la politica imperialista è riuscita a ricacciare in questi cinquant’anni quei luoghi nel baratro della barbarie, dall’Egitto all’Iraq, alla Siria, ai Paesi del continente africano, “insieme il più svantaggiato e il più giovane della terra”, dove: «I popoli africani, con un sacrificio doloroso ed eroico, si rialzano e decidono di riconquistare a tutti i costi la loro indole entusiasta, di affermare la loro identità umiliata, di riprendersi la loro condizione di popoli liberi, di voltare per sempre l’origine pagina della schiavitù e della servitù» (p. 91). Ma insieme, c’è in questi articoli la consapevolezza del fatto che quelle indipendenze appena nascono e già sono riacciuffate, imprigionate in legami di dipendenza economica, militare e politica con l’ex Paese dominante che sono diversi nella forma da quelli precedenti, ma ancora assai simili ad essi nella sostanza. La consapevolezza, cioè, della decolonizzazione come processo incompiuto destinato a essere ancora oggi, e la cronaca lo dimostra quotidianamente, conteso. Molti dei problemi dell’Africa di oggi nascevano in quel momento, e questi scritti lo dimostrano in modo lampante.
E poi, di nuovo attuale, c’è la denuncia della movimentazione e la gestione per esigenze politico-militari di ampie masse umane (p. 55-58), che non può non rievocare quanto accade, certo con finalità e modalità diverse, nella Palestina di oggi o nella Libia o la Turchia cui l’Europa sceglie di restituire i desideri respinti dei nuovi dannati. E c’è, chiaramente esposto e problema non meno di oggi che di allora, il diverso valore attribuito alla vita di chi appartiene alla parte ricca e a quella povera del mondo[i]: «Bisogna che la Francia sappia una volta per tutte che la vita di un algerino è preziosa quanto quella di un francese, che l’algerino che ha voluto spogliare di ogni sua umanità si considera prima di tutto un uomo, esattamente come tutti gli altri esseri umani» (p. 62). E ancora, le difficoltà della sinistra francese di allora (solo francese, solo di allora?) a farsi carico dei problemi degli uomini e le donne di quel mondo coloniale che anche oggi, formalmente indipendente, rimane subalterno: «perché di “sinistra” e “antifascisti” a casa loro, alcuni Francesi ritengono di guidare gli altri popoli, di dare lezioni di democrazia anche a colpi di bombe» (p. 65).
Un ultimo elemento, poi, che mi pare estremamente attuale è nella lettera del 1961 diretta da Fanon all’intellettuale iraniano Ali Shariati, nella quale coglie l’occasione per sottolineare il valore del potenziale antimperialista e antioccidentale dell’Islam, ma insieme mettere in guardia rispetto ai rischi intrinseci al settarismo religioso e al fatto che quella prospettiva - che esplicitamente accosta a quella della negritudine - possa portare a cercare nel passato quel “mondo nuovo” che, per Fanon invece, non poteva essere immaginato altro che in un futuro dove al centro davvero fosse l’uomo.
Gli elementi di questi scritti di cinquant’anni fa su cui mi sembra utile riflettere per meglio comprendere quello che oggi accade, perciò, mi sembrano molti davvero.
Quanto alla psichiatria, beh non è possibile non cogliere nel primo di questi articoli, dedicato alla psicologia di un disertore italiano dalla Legione straniera, quel di più nella comprensione della dimensione umana di un fatto militare e politico come quello, che deriva a Fanon dall’esperienza della pratica clinica e abbiamo imparato ad apprezzare dalla lettura dei suoi testi maggiori.
Ma, soprattutto, mi pare che nell’insieme questa raccolta restituisca il respiro e le emozioni di un momento magico della storia nel quale dall’Asia, all’Africa, a Cuba, al Vietnam, alla stessa Algeria l’aspirazione alla libertà di popoli quasi inermi si imponeva militarmente agli eserciti più potenti del mondo. E, insieme, un momento nel quale la linea della radicalità, dell’intransigenza nella definizione dell’obiettivo, che è ribadita con energia qui da Fanon per ciò che riguarda l’indipendenza dell’Algeria, era spesso premiata. Io credo che non si possa comprendere l’opzione radicale di chiudere il manicomio - e non solo pulirlo, riformarlo, socchiuderlo del che i più si sarebbero accontentati - che Basaglia rese esplicita nel 1964 quando a tutti sembrava una follia, e che perseguì in modo inflessibile negli anni successivi, senza coglierne la relazione strettissima con quel preciso momento storico che sentiamo palpitare in queste pagine, nel quale l’impossibile pareva poter essere ragionevolmente osato perché si era dimostrato in tante occasioni, se perseguito con la determinazione necessaria, possibile[ii].
Il periodico al quale erano originariamente destinati è un foglio di propaganda politica, e quindi in molti di essi traspaiono evidenti l’intento polemico e il carattere decisamente militante. Pure, non mancano elementi d’interesse sul piano storico, politico, ma anche per la psichiatria, che mi permetto qui di brevemente evidenziare.
In primo luogo, gli articoli qui raccolti contribuiscono alla ricostruzione storica di una fase particolarmente feroce ed emblematica del processo di decolonizzazione, quella che ha visto protagoniste la Francia e l’Algeria, a partire dall’impressionante relazione, puntualmente ricostruita per il caso algerino, tra colonialismo e terrore (pp. 82-89). C’è in essi la consapevolezza della decolonizzazione come problema unitario, che riguarda i dannati della terra nel loro insieme i quali devono trovare unità nel loro riscatto come sono stati uniti dall’imperialismo nell’esperienza di un’unica oppressione. C’è anche chiaro, evidente, l’essere stato quel momento magico della decolonizzazione un’occasione forse unica di voltare davvero pagina per l’umanità, nel quale la possibilità e la prospettiva di un “mondo nuovo” pareva a portata di mano. Poi la politica imperialista è riuscita a ricacciare in questi cinquant’anni quei luoghi nel baratro della barbarie, dall’Egitto all’Iraq, alla Siria, ai Paesi del continente africano, “insieme il più svantaggiato e il più giovane della terra”, dove: «I popoli africani, con un sacrificio doloroso ed eroico, si rialzano e decidono di riconquistare a tutti i costi la loro indole entusiasta, di affermare la loro identità umiliata, di riprendersi la loro condizione di popoli liberi, di voltare per sempre l’origine pagina della schiavitù e della servitù» (p. 91). Ma insieme, c’è in questi articoli la consapevolezza del fatto che quelle indipendenze appena nascono e già sono riacciuffate, imprigionate in legami di dipendenza economica, militare e politica con l’ex Paese dominante che sono diversi nella forma da quelli precedenti, ma ancora assai simili ad essi nella sostanza. La consapevolezza, cioè, della decolonizzazione come processo incompiuto destinato a essere ancora oggi, e la cronaca lo dimostra quotidianamente, conteso. Molti dei problemi dell’Africa di oggi nascevano in quel momento, e questi scritti lo dimostrano in modo lampante.
E poi, di nuovo attuale, c’è la denuncia della movimentazione e la gestione per esigenze politico-militari di ampie masse umane (p. 55-58), che non può non rievocare quanto accade, certo con finalità e modalità diverse, nella Palestina di oggi o nella Libia o la Turchia cui l’Europa sceglie di restituire i desideri respinti dei nuovi dannati. E c’è, chiaramente esposto e problema non meno di oggi che di allora, il diverso valore attribuito alla vita di chi appartiene alla parte ricca e a quella povera del mondo[i]: «Bisogna che la Francia sappia una volta per tutte che la vita di un algerino è preziosa quanto quella di un francese, che l’algerino che ha voluto spogliare di ogni sua umanità si considera prima di tutto un uomo, esattamente come tutti gli altri esseri umani» (p. 62). E ancora, le difficoltà della sinistra francese di allora (solo francese, solo di allora?) a farsi carico dei problemi degli uomini e le donne di quel mondo coloniale che anche oggi, formalmente indipendente, rimane subalterno: «perché di “sinistra” e “antifascisti” a casa loro, alcuni Francesi ritengono di guidare gli altri popoli, di dare lezioni di democrazia anche a colpi di bombe» (p. 65).
Un ultimo elemento, poi, che mi pare estremamente attuale è nella lettera del 1961 diretta da Fanon all’intellettuale iraniano Ali Shariati, nella quale coglie l’occasione per sottolineare il valore del potenziale antimperialista e antioccidentale dell’Islam, ma insieme mettere in guardia rispetto ai rischi intrinseci al settarismo religioso e al fatto che quella prospettiva - che esplicitamente accosta a quella della negritudine - possa portare a cercare nel passato quel “mondo nuovo” che, per Fanon invece, non poteva essere immaginato altro che in un futuro dove al centro davvero fosse l’uomo.
Gli elementi di questi scritti di cinquant’anni fa su cui mi sembra utile riflettere per meglio comprendere quello che oggi accade, perciò, mi sembrano molti davvero.
Quanto alla psichiatria, beh non è possibile non cogliere nel primo di questi articoli, dedicato alla psicologia di un disertore italiano dalla Legione straniera, quel di più nella comprensione della dimensione umana di un fatto militare e politico come quello, che deriva a Fanon dall’esperienza della pratica clinica e abbiamo imparato ad apprezzare dalla lettura dei suoi testi maggiori.
Ma, soprattutto, mi pare che nell’insieme questa raccolta restituisca il respiro e le emozioni di un momento magico della storia nel quale dall’Asia, all’Africa, a Cuba, al Vietnam, alla stessa Algeria l’aspirazione alla libertà di popoli quasi inermi si imponeva militarmente agli eserciti più potenti del mondo. E, insieme, un momento nel quale la linea della radicalità, dell’intransigenza nella definizione dell’obiettivo, che è ribadita con energia qui da Fanon per ciò che riguarda l’indipendenza dell’Algeria, era spesso premiata. Io credo che non si possa comprendere l’opzione radicale di chiudere il manicomio - e non solo pulirlo, riformarlo, socchiuderlo del che i più si sarebbero accontentati - che Basaglia rese esplicita nel 1964 quando a tutti sembrava una follia, e che perseguì in modo inflessibile negli anni successivi, senza coglierne la relazione strettissima con quel preciso momento storico che sentiamo palpitare in queste pagine, nel quale l’impossibile pareva poter essere ragionevolmente osato perché si era dimostrato in tante occasioni, se perseguito con la determinazione necessaria, possibile[ii].
[i] Sulla questione, alla quale tengo particolarmente, rinvio su questa rivista a: P.F. Peloso, Il valore del sangue. Un pensiero alle stragi terroriste del 12 e 13 novembre, 15 novembre 2015 (clicca qui per il link), ma anche a P.F. Peloso, Corpi eccedenti, corpi violati. Le donne di Colonia e i (vecchi e nuovi) fantasmi d’Europa. Monologo sull’Europa, 19 gennaio 2016 (clicca qui per il link).
[ii] «La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile» dirà infatti Basaglia in Brasile l’anno dopo l’approvazione della legge 180 (F. Basaglia, Conferenze brasiliane °(1979), Milano, Cortina, 200, p. 142).