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AL TERMINE DELLA PSICHIATRIA. Guenda Bernegger a colloquio con Gilberto Di Petta

11 Feb 18

A cura di gilbertodipetta

Questa intervista è apparsa sul n°37, 2017, della “Rivista per le Medical Humanities”, organo ufficiale della Commissione di etica clinica dell’Ente Ospedaliero Cantonale del Cantone Ticino, a firma di Guenda Bernegger, che ringraziamo per l’autorizzazione alla pubblicazione su Psy-on line.  
L’intervista pone di fronte due persone, l’intervistatore e l’intervistato, laddove uno chiede e l’altro risponde. Questo ci si aspetta. Ma Guenda e Gilberto dialogano, sono partecipi delle argomentazioni trattate. È vero, l’intervistato è Gilberto, ma, nello spirito del dialogo, anche gli interventi di Guenda qui vanno al di là delle semplici domande.  
Il grido di dolore di una psichiatria al tramonto ci riportano all’atmosfera di molti dei nostri Servizi,  opposta al clima dei mega convegni, dove si respira quasi l’euforia della morte imminente. Anche chi, come noi, non è psichiatra ma psicologo,  oltre a prenderne atto, è totalmente coinvolto, data la prossimità che ugualmente ci investe, che ci inchioda alla domanda ineludibile sul fondamento delle nostre prassi e dei nostri modelli teorici.
Gilberto riesce, in  questa intervista, non solo a raccontare quanto sta accadendo, ma lascia scorgere le possibilità infinite che l’incontro racchiude, fino alla trasformazione dell’impossibile nel possibile. Quello che, tra le righe di questo dialogo emerge, è un incontro in cui i partecipanti sono sulla stessa barca, alla ricerca della rotta da seguire, una rotta che non può che rifarsi ai fondamenti, alla storia. Ed è proprio grazie a questo che il discorso può riproporre temi come mondo, tra, epoché, attesa, ricaduta, impossibile, che non restano meri costrutti teorici, ma azioni incarnate nel mondo intersoggettivo fatto da noi e dai nostri pazienti insieme. La gruppoanalisi dell’esserci ne è un esempio, dove atmosferico ed eidetico fanno da pilastri ad una terapeutica dell’incontro.  E’ così che, quasi sulla soglia crepuscolare di un addio, si ricrea qui sorprendentemente un’atmosfera di attesa, venata di quella speranza di minkowskiana memoria. Una psichiatria, e con essa anche una psicologia, che, radicandosi nel fondamento fenomenologico, possa costituire i sintomi come esperienze fino al punto, come diceva Mueller-Suur, di “aiutare i malati a poter essere folli”. (Giorgia Tisci e Giuseppe Ceparano)


 
“Mi stavi raccontando del pericolo…
 

… del pericolo di estinzione della psichiatria.
 
Niente di meno!
 

Si. Incredibile questa vicenda. Perché la psichiatria si è ancorata con tutte le sue forze al paradigma medico-naturalistico per sopravvivere, dato che ha percepito la fragilità delle proprie basi epistemologiche. Però il paradigma medico ha fatto come la natura di Leopardi: non ha dato ala psichiatria quello che le aveva promesso. Per cui io credo che a un’analisi scientifica seria – e non fatta di mitologia recettoriale o molecolare – la psichiatria medica non abbia futuro: scomparirà, perché di fatto nessuna base anatomo-patologica, nessun meccanismo fisio-patologico è stato trovato in duecento anni per le malattie mentali. Tutta la psichiatria contemporanea non è altro che una post-verità. Ovvero, il regno della doxa.
 
Come si è potuti arrivare a ciò?
 

È una vicenda singolare quella della psichiatria, ovvero di una scienza ancora «giovane» – se li mettiamo in fila, da Pinel a Basaglia, ci stanno cinque-sei psichiatri, cinque-sei generazioni – e già vicinissima all’estinzione. Nel paradigma di Pinel, a fine Settecento, la psichiatria nasceva come medicina delle passioni. La follia era uno squilibrio tra la ragione e la passione. Ma la ragione non era ancora la ragione calcolante: era la ragione comprendente. Quindi la ragione comprendeva anche la sragione. Dunque, la follia di Pinel si integrava in una dialettica tra raison e déraison. In fondo potremmo dire che Pinel è un hegeliano ante litteram. Poi, dopo, con Morel, Magnan, ma soprattutto con i tedeschi, con Griesinger, la psichiatria diventa neuro-psichiatria, si salda alla neurologia: si crea il paradigma delle malattie nervose e mentali. Naturalmente, le varie acquisizioni cerebrali – da Golgi a Cajal, da Jackson a Sherrington, che consentono piano piano di scoprire le vie, di capire la struttura e la funzione del cervello – apportano molti dati, nel corso di tutto l’Ottocento e anche nel corso del Novecento, alla neurologia. E una fine semiotica permette sempre più di distinguere le patologie funzionali dalle patologie organiche – prendiamo il caso dell’isteria come modello paradigmatico. Questo consente alla neurologia di accreditarsi realmente come disciplina medica, e alla psichiatria di rimanere á côté. Cioè, la psichiatria, nel paradigma della neuro-psichiatria, diventa la sorella povera della neurologia, diventa la Cenerentola della medicina. Il regno del funzionale in attesa di sistematizzazione organica.
 
Conosciamo però anche un periodo più glorioso per la psichiatria…
 

In seguito, ci sono infatti stati – nella prima, ma soprattutto nella seconda metà del Novecento – quelli che potremmo chiamare i movimenti di liberazione della psichiatria dal letto di Procuste della neurologia: tra questi, sicuramente la psicoanalisi, la grande onda psicoanalitica, sicuramente l’antropo-fenomenologia, quindi l’onda più filosofica, e poi il paradigma della socio-psichiatria. Queste tre anime – una psichiatria psicodinamica (come si diceva allora), una psichiatria fenomenologica e una psichiatria sociale – irrobustivano così le basi di una psichiatria senza fondamenti biologici. Però portavano avanti un’idea che la medicina non poteva accettare: ovvero, che il fondamento, il nucleo duro – per dirla alla Lakatos, il nucleo metafisico – della psichiatria, stesse non nella struttura e nella funzione del cervello, ma in campi del sapere, in discorsi che erano completamente fuori dalla medicina (quello psicoanalitico, quello sociale, quello filosofico). Questo era inaccettabile per l’establishment medico, e diventa inaccettabile proprio nel momento in cui la psichiatria si stacca dalla neurologia – il che avviene nella seconda metà del Novecento – anche in configurazioni universitarie. Perché fino alla prima metà del Novecento, le cliniche si chiamavano «delle malattie nervose e mentali». Anche la prestigiosa rivista fondata da Strauss si chiamava Nervenarzt. E molti psichiatri avevano una prima formazione neurologica. Quando la psichiatria si sgancia dalla neurologia e assume una sua rappresentazione universitaria, chi è che va in cattedra? Non gli psichiatri illuminati, gli psichiatri alla Pinel, ma gli psichiatri alla Pinel, ma gli psichiatri-neurologi, i quali andando in cattedra rimangono indenni nelle loro convinzioni, e giocano a fare i neurologi del mentale – oggi si chiamano «neuroscienziati»… Così, nel corso della seconda metà del Novecento, si vede che le cliniche universitarie di psichiatria sono tutte aggrappate al paradigma medico-neurologico. Mentre la psichiatria che si fa fuori – negli ospedali psichiatrici, nei territori – è invece una psichiatria di avanguardia, una psichiatria sociale, fenomenologica, psicoanalitica, psicodinamica, eccetera. Però, di fatto, chi conta nell’establishment di potere sono le cattedre universitarie.
 
Una vera e propria divaricazione tra questi paradigmi!
 

Tutta la congressistica, l’entrata massiccia delle case farmaceutiche, delle multinazionali, non fano altro che corroborare il paradigma medico. E anche i fondi per le ricerche non vengano mica assegnati per temi come la struttura dell’esperienza vissuta del tempo: vengono assegnati per le basi biochimiche dell’attacco di panico. Per cui, di fatto, la vera psichiatria, cioè quella psicoanalitica, fenomenologica, sociale, diventa una psichiatria alternativa – addirittura si tinge di nomi strani, come «antipsichiatria» o «psichiatria alternativa» -, mentre la falsa psichiatria, cioè quella che scimmiotta la medicina, diventa la psichiatria ufficiale.
E qui arriviamo alla psichiatria 2.0, che è quella di oggi, dove abbiamo una psichiatria ufficiale, quella dei mega-congressi, che si svolgono in Europa e nel mondo, dentro la quale di tutto si parla fuorché della relazione medico-paziente, fuorché dell’esperienza vissuta del malato di mente, fuorché del modo in cui approcciarsi, del modo in cui curarlo, di quello che accade dentro il curante. È tutta una psichiatria strutturata sull’imitazione di meccanismi neurologici, neuro-fisiologici, totalmente depsicopatologizzata. Ora, siccome questa è una psichiatria delle illusioni – se si prova a leggere le riviste «impattate», ad esempio, le grandi riviste «impattate» internazionali, che non pubblicano i lavori della psichiatria sociale, psicoanalitica o fenomenologica, ma che pubblicano i lavori della psichiatria biologica – è tutto un condizionale: «presumiamo che», «sembrerebbe che», «questo suggerisce che». Ma non c’è nulla: di concreto, non c’è nulla, se non una suggest-psychiatry. Per cui, come si può immaginare che sopravviva nel futuro un professionista che fonda le sue conoscenze e la sua prassi sul nulla? Cioè, come si può concepire che esista una specializzazione della medicina che non abbia uno straccio di base anatomo-patologica? Perciò, la mia previsione è che la psichiatria scomparirà, eliminata dallo stesso sistema a cui essa ha cercato di assimilarsi parlandone un linguaggio senza contenuti.
Se rimane questa che è adesso, la psichiatria scomparirà. E non ci sarà più bisogno dello psichiatra, perché di fatto anche nell’assistenza ai pazienti gravi la figura dello psichiatra ha un ruolo sempre minore: sono i cinque minuti della prescrizione e della diagnosi che viene fatta secondo assi standardizzati. Ma poi, chi ci sta con i pazienti sono social worker, infermieri, operatori: i pazienti vengono sempre più inviati a percorsi, diciamo, ufficialmente «riabilitativi», ma di fatto sono percorsi esclusivi, esclusivi, strutture intermedie eccetera. Si è sbriciolato il Moloc dell’ospedale psichiatrico e si sono create tante situazioni, di fatto, di esclusione sociale: questi pazienti passano tutta la vita nell’ombra, in situazione residenziali, intermedie… Non si parla più di psicoterapia, non si parla più di niente. Questa è la situazione attuale. In futuro, io prevedo che ci sarà qualcuno che abbia una formazione neurologica, ma basterà anche un medico di base con delle competenze behaviorali, comportamentali, che sappia più o meno utilizzare quattro farmaci – perché sono quattro i farmaci, l’antidepressivo, l’ansiolitico, lo stabilizzatore, l’antipsicotico – e che corregga il comportamento del paziente, rendendolo più o meno gestibile. Poi, di quello che il paziente vive non interessa niente a nessuno.
Secondo me, sulla nostra generazione pesa dunque un carico etico importante: non ci possiamo mantenere nell’ambiguità, pensando che in fondo ci sono tante psichiatrie possibili: oggi c’è una psichiatria, che è quella mainstream. Allora, o noi riusciamo, in coda a questa storia, a inciderla, a dialogare, a riaprire questa finestra epistemologica, cioè a far capire che la psichiatria è una scienza complessa, pluriparadigmatica – che sta dentro la medicina ma sta allo stesso tempo á côté della medicina, che sta dentro la medicina ma che ha anche delle basi narrative, delle basi metafisiche, delle basi filosofiche, delle basi umanistiche – e dunque riusciamo a riformare anche i programmi che portano alla formazione dello psichiatra, oppure siamo fuori dalla partita. Avremo sicuramente una psichiatria colta, che sarà una pietra miliare archeologica della psichiatria, dentro la quale (come nella musica classica) continueremo a studiare la fenomenologia, la psicoanalisi, tante cose, che non avranno però più nulla a che fare con la prassi quotidiana e che diventeranno sempre più appannaggio di persone non di formazione psichiatrica – per esempio, filosofi, umanisti, ricercatori eccetera. Cioè saranno loro che porteranno avanti la continuità di questo discorso, che avrà un valore culturale, storico, estetico di grandissima importanza, ma… Poi magari se ci torniamo vorrei anche dire (perché così potrebbe sembrare che la psichiatria abbia solo preso dalle scienze umane…), vorrei anche dire quello che la psichiatria ha dato alle scienze umane.
 
Sarà interessante pensare a che cosa la psichiatria abbia dato alle scienze umane: ci ritorneremo in ogni caso. Ma prima ancora mi verrebbe da dire che, in fondo, la prospettiva fenomenologica non è fondamentale solo per la psichiatria, bensì per tutta la medicina: ogni pratica di cura dovrebbe essere nutrita del sapere fenomenologico. Questo, senza necessariamente entrare nello specifico delle psicopatologie, almeno per quanto riguarda le dimensioni esistenziali, che stanno sullo sfondo di ogni prassi medica e che vanno in crisi nella malattia in generale. Anche se, dicendo così, si rischia nuovamente di far scomparire la psichiatria, di attenuarne la specificità, dissolvendola nella medicina.
 
 
Tu stai dicendo una cosa importante. Però, mentre nel resto della medicina è come se stessimo parlando di un «di più» – è un piatto che senza sale non sa di nulla ma ti nutre… tu fai il protocollo, dai l'antiblastico, dai la tua terapia, le tue cose; poi magari non hai rapporto con il paziente, non consideri questo sfondo e tutto è più duro, però di fatto il malato non muore di fame, l'essenziale è garantito – in psichiatria stiamo togliendo l'essenziale, Questo è il punto. E poi noi non abbiamo avuto una cardiologia fenomenologica, non abbiamo avuto un'oncologia fenomenologica. Noi abbiamo avuto una psichiatria fenomenologica, che è stata una gloria. Quindi c'è una sofferenza da parte di chi oggi è uno psichiatra ispirato alla fenomenologia, nel sentire che svanisce qualcosa a cui gli psichiatri hanno in precedenza attinto. Perché gli psichiatri hanno capito la portata del discorso husserliano! Neanche gli psicologi: gli psichiatri lo hanno capito, hanno capito l'enorme portata del discorso di Husserl. Poi è chiaro che la medicina, nel momento in cui è diventata scientifica, si è frazionata, si è distaccata dal radicale umanistico che ha sempre avuto, ma che volendo può recuperare: ce l'ha avuto e lo può recuperare. Il dramma della psichiatria è invece che rischia, non rifondandosi su basi umanistiche, di estinguersi proprio. Perché, mentre la medicina è comunque salda sulle sue basi scientifiche – e così, tranquillizzandosi su tali basi, inizia a comprendere che non può buttare via il bambino con l'acqua sporca -, la psichiatria è delirante: perché la psichiatria non può ammettere di non avere delle basi scientifiche e rischia di perdersi definitivamente.
 
 Resterei ancora sul paradigma fenomenologico. La specificità dell'approccio fenomenologico non è forse scontata per tutti i lettori. Non voglio farti rifare tutta la storia, ma solo chiederti di raccontare che cosa rappresenta per te, come tu adesso lo stai intendendo. E questo nelle due direzioni di cui dicevi: in quanto sapere teorico che sostenevi resterà un patrimonio che verrà portato avanti da studiosi e filosofi, ma anche in quanto strumento che ha un'efficacia nella pratica, nella tua propria pratica. Mi sembra utile spiegare ancora questo, prima di tornare su ciò che la psichiatria ha dato alle scienze umane.
 
 
Per me l'approccio fenomenologico ha rappresentato da subito l'unica ragion d'essere della psichiatria e del fare lo psichiatra. Perché è stato proprio quello che mi ha permesso di colmare lo iato tra gli studi medici e l'incontro con il paziente. Venendo da una formazione medica e, nel mio caso, anche neurologica, e decidendo di dedicarmi poi alla psichiatria e di incontrare i pazienti psichiatrici, a me è venuta a mancare improvvisamente tutta la semeiotica: tutta la semeiotica medica dell'ispezione, della palpazione, dell'auscultazione, della percussione e degli esami di laboratorio e strumentali; ed è venuta a mancare anche la semeiotica neurologica dell'esame neurologico classico. Ovvero, una volta espletata la semeiotica medica e l'esame neurologico, di fronte a un paziente affetto da schizofrenia, e non avendo trovato nulla… E dopo? Allora lì ho sentito il colpo di vuoto. È quel colpo di vuoto è stato colmato dalla fenomenologia, perché la fenomenologia, con la sua capacità di incarnare, io dico, la mente e il mondo – nel senso che mondanizza la mente e mentalizza il mondo (e questa è stata per me la fenomenologia, la possibilità di mondanizzare la mente e di mentalizzare il mondo) – mi ha fatto sentire che avevo una possibilità di dialogo con quella persona, anche se finivano tutti gli strumenti che avevo a disposizione. E sui quali avevo passato molti anni della mia vita.
 
 Mondanizzare la mente e mentalizzare il mondo… Posso chiederti di esplicare questi concetti per i lettori?
 
 
È come se la mente, nella prospettiva fenomenologica, non fosse più chiusa dentro l'hortus conclusus della coscienza cartesiana, bensì è come se la mente – grazie alla freccia intenzionale che continuamente la apre, la apre al mondo, la porta incessantemente nel mondo -fosse fuori dalla scatola cranica, dove noi classicamente la localizziamo. Cioè, la mente è nel mondo, la mente è fuori, la mente è ectopica al cervello, È' ectopica alla scatola cranica, È' ectopica a quel centro di gravità a cui ognuno di noi è' abituato a pensare quando pronuncia la parola «io» o la parola «sé». Quando pronunciamo la parola «io» o la parola «sé», siamo portati a immaginare un ideale' centro di gravità, un ideale baricentro della persona. No: con la fenomenologia questo non c’è più, il confine io-mondo-altro è completamente sbrecciato, divaricato.
Il sé è fuori di sé, il sé è nel mondo, il corpo è apertura al mondo, è mondo. Al tempo stesso, però – perché detto così potrebbe sembrare un atteggiamento assolutamente centrifugo, per cui io non mi posso andar raccogliendo in frammenti esplosi in tutto il mondo che mi circonda, o negli altri -, la fenomenologia coglie anche questa freccia di ritorno, cioè il mondo che si incarna dentro l'esperienza e che può essere descritto con il linguaggio dell'esperienza, dell'esperienza interna. Quindi io sto descrivendo un qualche cosa che sento dentro, ma in realtà sto semplicemente trascrivendo un'amplificazione dei mondo. E questo ha dato agli psichiatri, e a me come psichiatra, anche di fronte al paziente grave, al paziente chiuso, autistico, mutacico, allucinato, la possibilità di un accesso. La possibilità di un accesso, perché lui poteva stare male quanto voleva, lui, io non dovevo preoccuparmi di ciò che lui pensasse: io potevo occuparmi di che cosa stesse tra me e lui, in mezzo. Quindi di un qualche cosa che non era più nella sua disponibilità di distruggere o di chiudere, o nella mia capacità di andare a svelare, ma era lì tra di noi.
È tra di noi un concetto su cui ha lavorato moltissimo il mio maestro, Bruno Callieri: io sono stato sensibilizzato da lui a questo concetto del tra, della betweenness, dell'entre, dell'aida alla Kimura Bin, che rappresenta forse il più grande portato della filosofia, della fenomenologia, alla psichiatria, e rappresenta anche la restituzione della psichiatria alla fenomenologia. Perché poi, alla fine, sia che noi vogliamo fare una fenomenologia alla Husserl – e quindi una fenomenologia ancora intrisa di kantismo e di cartesianesimo, diciamo una fenomenologia trascendentale -, sia che vogliamo fare una fenomenologia muscolare alla Straus, o una fenomenologia viscerale alla von Weizsäcker, o una fenomenologia percettiva alla Merleau-Ponty, comunque il rischio che corriamo è sempre quello di una fenomenologia che esiste nella mente del fenomenologo. Quello che la psichiatria restituisce potentemente è la possibilità di una fenomenologia realmente incarnata. Cioè, l'apriori della psichiatria fenomenologica è un apriori immanente, è un apriori definitivamente immanente tra la carne e il mondo. In questo, mai ha potuto essere così spietata e così vera la rottura tra Heidegger e Binswanger rispetto al travisamento che Heidegger riteneva che Binswanger avesse fatto del suo discorso. Il travisamento di Binswanger è l'esatta originalità della psichiatria fenomenologica.
 
Credo che anche qui sia utile dire di più…
 

Diciamo che l'uscita di Essere e tempo, Sein und Zeit, del 1927. Per Binswanger ha rappresentato una grossa svolta: Binswanger assume il concetto heideggeriano di Dasein e costruisce su questo concetto, quindi sul concetto di essere-nel-mondo (Dasein inteso come essere-nel-mondo). la sua Daseinsanalyse e a quel punto Heidegger, in particolare nei seminari di Zollikon, lo castiga dicendo: tu non hai capito nulla, perché la mia era una Daseinsanalytik, mentre la tua è una Daseinsanalyse. Cioè, io ho strutturato il mio discorso come un'analisi dell'essere, ontologico-non dell'es~e]'e di questo uomo qua, davanti a me, ma dell'essere U0ll10 in generale, dell'essere universale dell'uomo – e tu invece l'hai travisata e mi stai parlando di questo uomo qua. E sono due discorsi incompatibili, inconciliabili. A quel punto, Binswanger ritira le sue carte, rastrella le sue cose e ritorna, grazie alla mediazione di Szilasi, a Husserl.
Secondo me, un altro aspetto della collera heideggeriana stata nel fatto che nelle Grundformen, l'opera di Binswanger del 1942 (purtroppo non tradotta), ciò che struttura l'essenza dell'essere uomo nel mondo, quindi l'essenza dell'esistenza umana, è l'amore, là dove per Heidegger era la cura. Quindi, di fatto, Binswanger ravvisa nell'autenticità dell'amore, nel modo di essere al mondo degli amanti, la cifra dell'esistenza autentica, laddove Heidegger invece la ravvisava nell'angoscia e nella cura. Il che ci fa anche capire come Binswanger avesse compreso che tutto questo discorso doveva essere calato nella relazione tra gli uomini: nella relazione tra gli uomini fatta di carne, di corpo, di questo uomo qua, che ho davanti a me, di amore. Di ciò la psichiatria aveva bisogno.
 
E questo, nel tuo essere professionista, nella relazione con i pazienti. come lo viri, come si gioca? Vuoi raccontare un po' della tua pratica di «gruppoanalisi dell'esserci»? Credo possa essere un 'illustrazione utile per chi legge, e anche l'indicazione di una via più applicativa.
 
I
l mio lavoro si rivolge a pazienti gravi, oltretutto a pazienti – come dire -privati della libertà, nel senso in cui lo diceva Henry Ey. Forse la più bella definizione della patologia mentale che abbiamo di Henry Ey è quella della «patologia della libertà»: gli ammalati mentali gravi, gli schizofrenici, non sono liberi, non possono più far sì che il mondo accada così come accade. Non possono più lasciar che il mondo accada come accade, quindi non sono più liberi. lo poi lavoro anche con i tossicomani, che per definizione non sono liberi, perché di fatto sono totalmente asserviti, addicted, alla sostanza o ad altro. E, inoltre, opero da anni in una dimensione per me molto significativa, che è quella di una prigione femminile, di una casa circondariale femminile, dove di fatto ho a che fare con soggetti privati della libertà. Quindi, io mi trovo di fronte a tre, diciamo, «categorie di esseri umani» -malati mentali, tossicomani e detenuti – il cui comune denominatore è la perdita della libertà. Rispetto a questa perdita della libertà, la mia impostazione, la mia Einstellung, è quella di fare sentire loro invece quanto possono essere liberi nella possibilità di vivere le proprie esperienze interne e le proprie relazioni reciproche. Ecco, io credo che la cura stia in questo, nel conquistare gradi possibili di libertà sempre maggiore dai vincoli posti dalla malattia mentale, dalle sbarre e dalle sostanze stupefacenti, e nel far sperimentare a queste persone una sensazione di più autentica abitabilità del mondo: del mondo interno, del mondo del tra e del mondo esterno.
Perché che cosa accade? Accade che tutte e tre queste dimensioni della clinica che io frequento sono affette dalla stessa, io direi, «patologia del ritorno», ovvero dalla possibilità della ricaduta. Nel senso che il malato mentale migliora e poi, a un certo punto, o stacca i farmaci, o pensa di fare per conto suo, e ricade. Oppure, come facciamo in Italia con la nostra psichiatria territoriale, democratica, sociale, quando ci riusciamo, lo inseriamo in progetti lavorativi, riabilitativi; lui poi non regge – quindi gli facciamo anche un danno iatrogeno – e ricade. Quindi, la malattia mentale grave è ad altissima possibilità di ricaduta. In carcere, laddove non ci sono ergastoli ma ci sono delle pene limitate negli anni, vediamo il ritorno: le persone ritornano. Perché escono e, quasi in una orrenda coazione a ripetere, non di matrice nevrotica ma questa volta proprio centrata su una loro modalità di vivere il tempo circolare, rientrano. E così, allo stesso modo, il tossicomane rientra. La tossicomania è' proprio la malattia del tempo, per eccellenza, perché è una malattia dentro la quale la circolarità prende totalmente il sopravvento rispetto alla linearità del tempo. Far sperimentare a queste persone la possibilità di una relazione autentica di cura, la possibilità di un contatto, e sprigionare dentro di loro delle emozioni che portino dei vettori intenzionali e temporali più lineari, più coerenti, e meno circolari, significa ridare loro la possibilità della libertà. Questa è per me la cura. E questo non può prescindere dai farmaci, ma l'essenziale del percorso non è farmacologico; certamente, il percorso terapeutico non prescinde dalla struttura e dalla funzione del loro cervello, ma non è neurologico; certamente, non prescinde da quelli che sono i meccanismi di strutturazione della loro psiche, ma non è psicologico: tutto questo è fenomenologico. Cioè, io ci tengo a rivendicare questo quarto spazio della fenomenologia, ossia della fenomenologia intesa come un ambito che non è riducibile né al meccanismo psicologico, né al meccanismo neuropsicologico, né al meccanismo sociale. Anche se li sussume, certamente, li presume, ne tiene conto, ma non è nulla di tutto ciò: è qualcosa in più. È qualcosa che forse riesce a fondare tutto ciò.
E però sono discorsi complicati. Cioè è difficile innestare questo concetto oggi nella formazione di un clinico, di uno psichiatra o di uno psicologo. È difficile dirgli che può lavorare con quelli che sono dei meccanismi neurologici, sociali o psicodinamici, partendo da un punto archimedeo che è fuori da questi tre mondi (perché la fenomenologia è fuori da questi tre mondi, è un punto archimedeo che consente il sollevamento di questi mondi ma è fuori da questi mondi), dato che nella sua mente non ci sta. Dice: ma di che cosa mi state parlando? Dov'è questo punto archimedeo? Io non lo vedo: dov'è? Dov'è questo trascendentale immanente, di cui mi dite? Come mi devo muovere? Questa è la difficoltà.
 
Però quando racconti il lavoro che fai, in particolare nella dimensione gruppale, l’efficacia è riconoscibile. Dagli effetti si può in fondo rintracciare il punto archimedeo …
 

Sono contento di questa mia dimensione gruppale: ci ho messo il mio sforzo. Il mio contributo è stato quello di portare l'analisi del Dasein dalla coppia terapeuta-paziente al gruppo. Perché poi tutta questa intercorporeità, tutta questa intersoggettività, tutta questa Wirheit era rimasta più teorica che pratica. Cioè, io ho cercato di incarnarla nei gruppi: perché la fenomenologia non aveva un suo modello di pratica gruppale, se escludiamo alcune esperienze fatte da Rogers (quindi parliamo dell'approccio umanistico-esistenziale americano), e alcune cose fatte anche da Yalom -insomma, sempre nell'ambito della cosiddetta psicologia esistenziale -, o anche da Rollo May nel counselling eccetera. Però la fenomenologia continentale non si è mai applicata, devo dire, nel definire una forma di psicoterapia: l'analisi del Dasein non si è mai definita come una forma di psicoterapia duale o individuale, né come forma di psicoterapia gruppale.
Io ho cominciato con i tossicomani, poi con i tossicomani affetti da disturbi psicotici, e ora sto continuando questa esperienza nel carcere femminile. Ed è straordinario vedere come funziona questo puto di leva: se tu riesci a sintonizzarti e a portare le persone su questa nota, poi vedi che le cose vengono fuori. Loro capiscono che non sei interessato alla loro storia, non sei interessato alla cronaca dei fatti, non sei interessato a capire le loro difese o i loro conflitti: tu sei interessato ad un’unica cosa, a come si struttura la loro esperienza, in particolare emotiva, del mondo e di quel momento lì.
 
Come fai?
 

Il gruppo, a struttura circolare, ha due sedie centrali che aspettano l’incontro. Perché l’incontro, l’ha begegniung, è la pietra miliare di ogni approccio fenomenologico. Mantenere solamente un assetto circolare è come avere una lente di ingrandimento che non ha il punto di convergenza. E il punto focale della lente, l’asola attraverso cui si infilano le intenzionalità del circuito periferico, è quello centrale. È lì il punto di passaggio. Il conduttore parte da se stesso, fa un’operazione di epoché iniziale, dopo un silenzio, e cerca di cogliere l’atmosfera: è un gruppo molto atmosferico. Cerca di cogliere l’atmosfera, in questa nebulosa che è la spazialità intonata emotivamente in cui ci si trova. In quel momento c’è molta tensione, si percepisce e si avverte. Le mani sono fredde, il cuore batte, c’è un senso di attesa, e il senso di attesa per ciò che accadrà già introduce una dimensione futuristica del tempo. E nel frattempo c’è questo groppo del passato, c’è questo nodo – diciamo così – della nostalgia di quello che è accaduto, di quello per cui tu sei lì. Ecco, quella che è schiacciata è la dimensione del presente: il presente è solamente angoscia. E il conduttore, io, in questo caso, comincio con il mio vissuto emotivo, comincio con quella che la psicoanalisi intersoggettiva, la psicoanalisi relazionale chiama la disclosure: cioè io comincio con il raccontare quello che io provo in quel momento. Questo ha un effetto molto forte su chi ascolta, perché generalmente l’idea che hanno è di un conduttore neutrale, o che sta lì e dirige le cose. Con questa operazione si effettua uno spiazzamento, cioè si induce un’epoché, dicendo: qui non ci sono più un operatore e degli utenti, qui ci sono degli esseri umani che in questo momento si stanno incontrando. L’operazione di disclosure del terapeuta che dice: io ho paura, ho le mani che mi sudano, il cuore che mi batte, non so che cosa mi accadrà, mi vergogno di stare qua davanti a voi, non so che cosa dirvi… è un’operazione che ristruttura potentemente il campo. E poi, dopo aver fatto questo, io, il conduttore, invito singolarmente, uno dopo l’altro, a fare lo stesso: c’è chi ci riesce, chi no.
 
Inviti gli altri a fare lo stesso: e che succede?
 

Dopo che hai dato un esempio del genere, fai capire che cosa lì si fa. E quindi ognuno poi, a modo suo, fa. E mano a mano che uno porta dentro qualcosa – una lacrima, un tremito, il silenzio, oppure un’angoscia, la paura, la rabbia – l’atmosfera si carica di vissuti. Allora si apre il circuito tra l’atmos e l’eidos, due cose che in fondo sono sempre state viste come un po' in contraddizione nella letteratura fenomenologica: cioè, l’una, la percezione atmosferica, è una percezione immediata, una percezione che non richiede quasi l’epoché, una percezione sensoriale, tattile, gustativa, olfattiva, mentre l’altra, l’intuizione eidetica, l’eidos, è invece il discorso di una coscienza raffinata che, praticando l’epoché, fa un esercizio di sottrazione, di riduzione trascendentale e coglie la forma. Si avrebbe così da una parte, la nebulosa, dall’altra, il cristallo eidetico. Invece, un lavoro del genere è un lavoro di atmos-eidos, è un lavoro di clima, ma è anche un lavoro di forma, che va giocato in contemporanea. Perché in questa atmosfera, carica, il conduttore inizia ha cogliere delle forme.
A quel punto, viene dunque la volta dell’incontro al centro. Il conduttore invita chi se la sente ad alzarsi, a fare due metri e a sedersi al centro. Operazione non facile. Io faccio questi gruppi anche con gli specializzandi, con gli studenti, e in quel momento nessuno si alza. Perché fare quei due metri significa rompere ancora un’altra volta l’assetto spaziale, atmosferico. Se nessuno si alza, è il terapeuta che invita qualcuno, se se la sente. Insomma, facciamo sì che a un certo punto due persone si incontrino – si può immaginare in che clima carico. Realizzano allora un incontro pieno, un incontro fatto di carne: due persone si guardano negli occhi, si tengono per le mani, sentono queste mani fredde – hai paura, io ho paura, tu hai paura – gli occhi si bagnano di lacrime. È un incontro molto potente, c’è un grande silenzio in quel momento, le intenzionalità di tutti sono concentrate sulla coppia centrale. Gli incontri sono brevi: ti voglio bene, anch’io, mi hai colpito, ti ho pensato, era proprio te che volevo incontrare, che aspettavo. È un qualche cosa che ristruttura proprio il riconoscimento umano, diciamo, dell’uno da parte dell’altro. Non è che lì ci si metta a parlare o a raccontare la storia della vita.
Si susseguono degli incontri, dopo di che si fa un giro finale. Il terapeuta è l’ultimo che parla, dando una restituzione. Nel giro finale, si sente che le emozioni che vengono fuori sono pulite. Il dolore non è scomparso, ma è un dolore nitido, che si coglie. Quindi, diciamo, la prima fase è una fase molto atmosferica; la seconda fase è una fase più eidetica: piano piano, si arrivano a costituire delle forme. E ci si lascia così.
Nell’ultimo gruppo in carcere, ho invitato la signora Maria a venire al centro e a incontrarsi con il figlio che non c’è più. Ed è stato molto bello: un incontro liminale, sulla vita e sulla morte. Perché lì c’era una soglia. Lei ha parlato con questo figlio come se fosse presente. Di fronte a lei c’era un silenzio perfetto. È un gruppo dove l’estrazione culturale dei partecipanti è minima, molte detenute sono straniere… Questo per dire la portata umana della fenomenologia: cioè, più si va sui radicali umani, più si decostruiscono gli artefatti culturali o sociali. Sui temi fondamentali della vita e della morte, del senso, del tempo e dello spazio, ci si incontra, ci si rifonda. Questo è quanto.
 
Potrebbe sembrare una cosa semplice, quasi spontanea… Eppure hai bisogno di avere dietro di te tanto «pensato» per poter incontrare le persone in questo modo, apparentemente senza mediazioni.
 

È così. Diceva Buber: il vero incontro è possibile solo là dove è caduto ogni mezzo. Forse, il lavoro forte sta prima, nel capire quali sono gli strumenti dell’incontro – questo prevede un lungo lavoro – e poi nel toglierli di mezzo: e questo è un latro lungo lavoro. E, poi, nel sentire quello che sta accadendo. A quel punto, e solo a quel punto, si può sentire quello che sta accadendo, prima che si dilegui. Coglierlo. E farglielo vivere: perché una persona ha dentro delle cose, e quelle cose le sa, quelle cose che ha dentro le sente. Ma il mondo interno è una dimensione virtuale, è un dimensione che non esiste: è solo quando si mondanizza, si condivide, si incarna, si reciprocizza, che tu diventi l’evento che sei. Cioè, tu devi passare attraverso il mondo interno dell’altro per sentire anche il tuo. Gli devi dare una tridimensionalità, lo devi incarnare nell’altro. Questo è il lavoro che fa il fenomenologo. Rendere visibile l’invisibile. O, come piace dire a te, possibilizzare l’impossibile.
 
No: possibilizzare il possibile. Mi permetto di ribattere, perché la vera sfida credo stia lì. Cogliere la differenza tra l’impossibile e il possibile: è quella la tua arte, come terapeuta, quella di aiutare a riconoscere che cos’è il possibile di quella persona lì, in quel momento.
 

Perché quel possibile lasciato a se stesso, di fatto, è l’impossibile.
 
Mi piacerebbe tornare ancora su un paio di temi che hai evocato: sui temi dell’attesa, dell’atmosfera e della ricaduta. Dell’atmosfera hai già detto un po’, ma vorrei invitarti a raccontare anche quello che fai, concretamente, nella sala d’attesa del tuo studio che, se non erro, è pure strutturata in modo inabituale. Il «rendere visibile l’invisibile» di cui dicevi, forse può essere riferito anche questo: a livello di setting, prendersi cura dell’attesa vuol dire prendersi cura di una dimensione invisibile. Come declini dunque tu nella tua pratica l’attenzione per la dimensione invisibile dell’attesa?
 

Penso che tu ti riferisca al fatto che, nella mia pratica privata, limitata a un pomeriggio a settimana, io non do orario, per cui ognuno viene quando vuole e, naturalmente, poi aspetta il suo momento per entrare. Quindi è come se uno dovesse mettere in bilancio del tempo, anche del tempo prima dell’incontro. Non è che viene e ti incontra, e si incontra. C’è un tempo di preparazione all’incontro che è lasciato a se stesso: perché lì dentro incontra gli altri, innanzitutto. Incontra gli altri con i quali parla, e allora poi scopre che ha piacere a venire anche perché incontra gli altri. Devo dire che quasi mai si sono strutturate lì, tra i pazienti, relazioni che sono proseguite fuori da questo setting. Però in quel momento c’è un senso di condivisione forte, cioè inizia già lì a strutturarsi un qualche cosa che esce fuori dal carico insostenibile del dolore individuale. Il mondo moderno ha inventato il soggetto e lo ha lasciato solo con un dolore che in verità è del mondo, è dell’esistere di tutti gli enti, prima di essere il tuo, solo il tuo. Quando cominci a condividerlo, questo dolore che ti appartiene in quanto appartiene all’umano – che ritrovi, levinasianamente, sul volto dell’altro -, allora significa che puoi viverlo senza che ti distrugga.
 
Ma c’è ancora la figura che hai inserito per facilitare le dinamiche tra i pazienti che attendono? Se ben ricordo, mi avevi detto che c’era una persona…
 

C’è una signora che apre la porta, che se hanno bisogno dà loro un bicchiere d’acqua… Ma non c’è nessuna azione preparata, non è una persona formata. È una persona comune, che mi ha convinto, una persona sensibile, che sta lì e naturalmente dialoga con loro quando vogliono, e basta. Fa parte anche lei della cornice dell’attesa.
 
Ancora sulla ricaduta. È un tema che trovo affascinante. Il nostro nominare un nuovo evento come «ricaduta» è già un modo di farlo…
 

… accadere.
 
Sì, di farlo accadere e anche di considerarlo tale. Al momento in cui parliamo di «ricaduta», già imponiamo una lettura circolare del tempo, mentre in una lettura lineare quello potrebbe essere semplicemente descritto come un «nuovo evento». Allora mi chiedo quanto attraverso il linguaggio rischiamo di costringere, di condannare, e se non possiamo invece, attraverso il linguaggio, anche liberare. Ricordo un articolo bellissimo di Adriano Sofri, di molti anni fa, su Pinocchio: aveva preso la metafora di Pinocchio proprio per criticare questo uso del termine «ricaduta» e le sue implicazioni sul piano penale. Sosteneva infatti, in sintonia con quanto dicevi tu prima, che in certe condizioni psicopatologiche o anche di sofferenza psico-sociale, la ripetizione sia propria alla condizione stessa, per cui non si dovrebbe aggravare la pena per recidiva, come se ci fosse una nuova intenzionalità di compiere un gesto; bisogna invece partire dall’idea che la ripetizione, il riaccadere, sia insito nella condizione di sofferenza di queste persone. Mi interessava dunque indugiare ancora su questo termine di «ricaduta», nell’uso che tu ne hai fatto affiancandolo a quello di «ritorno».
 

Forse occorre fare la differenza tra un evento acuto, di scompenso, chiamiamolo così, che si può avere però nel trattamento, e un evento acuto che si può avere quando il paziente è fuori dal trattamento, quando ha una terapia solo farmacologica: sono due cose diverse. Perché, nel caso di un paziente lasciato alla propria patologia, l’evento acuto non è altro che il manifestarsi di questa patologia di fondo che soggiace, che sta facendo la sua corsa. È un fiume che corre al suo delta e che di tanto in tanto straripa ed esonda. Altro è invece il corso di un fiume che viene deviato, che viene lavorato, che viene irrigato, vengono create delle cascate, delle briglie: una situazione dove possono esserci sì degli eventi acuti, ma quegli eventi vengono riletti in un nuovo significato, anche come tentativi di rottura di un chronos. Un conto è un chronos che si acutizza per ricronicizzarsi, e un altro conto è un chronos che si acutizza per, diciamo, rompere quello che è lo schema ripetitivo. E però la differenza sta nell’incontro, sta se c’è stato un incontro. E io credo che la fenomenologia questa chance la può dare. Viceversa, non saprei cosa pensare.
Forse, uno dei motivi dell’inutilità della psichiatria sta proprio nel fatto che non è più iatreia, non è più cura, perché una psichiatria ridotta all’unica dimensione biologico-nosografica non è più cura. E quindi come tale non ci sta dentro la medicina, perché la medicina comunque è l’arte della cura. Non ci sta più. Se dobbiamo rassegnarci a questo percorsi cronici, allora possono essere gestiti in altro modo. A proposito del ritorno, invece, mi piacerebbe pensare che la fenomenologia possa invertire la rotta del ritorno: non più all’inesorabile status quo della patologia cristallizzata, ma alla patria dell’amore. La patria dell’amore, nell’accezione del Binswanger delle Grundformen, è la patria del ritorno, il «tu» inteso, con il verso di Elizabeth Browning, come il solo luogo dove io posso esistere.
 
Anche la nostra conversazione deve prendere ora, prima di concludersi, la rotta del ritorno, verso quanto hai annunciato all’inizio: volevi infatti tornare ancora sulla questione del che cosa la psichiatria fenomenologica può insegnare alle scienze umane. E anche alla medicina tutta.

 
Può essere, in un’accezione forse romantica, la rondine che fa primavera. Nel senso che può dare un’evidenza concreta di come si è in un percorso di cambiamento, di trasformazione, di come l’incontro è trasformativo: cioè, testimonia il potenziale trasformativo dell’incontro.
 
Questo vale per la medicina, giusto?
 

Per la medicina. Mentre alla filosofia può insegnare quanto la soggettività e la mondanità siano due entità reciprocamente intercambiabili: realmente, reciprocamente intercambiabili. E non due entità che continuano a contemplarsi, illudendosi di stare dialogando. Perché il dramma è che molta filosofia, alla fine, diventa storia della filosofia, o diventa critica di qualcosa. Ma di fatto rischia di non avere alcuna incidenza, né sul mondo reale, né sul soggetto che la pratica. E questo è inammissibile. Dal fronte di una psichiatria, diciamo, engagée, questo è inammissibile. Nel senso che, se uno psichiatra è fenomenologicamente fondato, si deve vedere la differenza che c’è nella sua potenzialità d’incontro, e di chi lo incontra. Io ho questo concetto molto forte dell’intercambiabilità tra la mente e il mondo. Ed è come se la filosofia ci volesse da sempre arriva, ma di fatto non ci arriva mai. È un punto asintotico, questo, nella storia della filosofia. C’è sempre una mente che concepisce il mondo, oppure un mondo che è concepito da una mente, ma non si arriva mai a questa sorta di intercambiabilità tra la mente e il mondo, in cui la verità è un accordo sintonico di evidenza reciproca. Si arriva anche a vedere, a intuire, se ne vede la strada, ma quella strada non la si percorre.
Gli psichiatri fenomenologi questa strada l’hanno percorsa. È stato  a volte un sentiero interrotto, a volte un sentiero che li ha sviati, a volte un sentieri che li ha portati a quella che Kimura Bin chiamava «la casa di dietro il mondo», cioè li ha portati a scoprire che lo spazio trascendentale è dentro di noi, è qui in mezzo a noi, è qui tra di noi. È solo quando si arriva a scoprire questo, grazie al lavoro con i folli, cioè con coloro che, avendolo perduto, cercano continuamente di rifondare il mondo, che poi le cose iniziano a cambiare, la realtà inizia a cambiare, tu inizi a cambiare: non puoi rimanere identico. Il dramma di tanta filosofia è che lascia il mondo identico dopo di sé, come lo ha trovato prima di sé. E questo è gravissimo.
Ecco spezzata una lancia in favore della psichiatria fenomenologica: la psichiatria fenomenologica dimostra che è possibile lasciare il mondo diverso da come lo si è trovato. Non so se anche questa è un’utopia, però ancora ci credo!
 
E, in ogni caso, tu questo lo sai fare.
 

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4 Commenti

  1. admin

    Quale Editor della rivista mi
    Quale Editor della rivista mi permetto di consigliare ai lettori di andare seguendo il link all’indice della Rubrica (e questo vale per tutte le Rubriche di Psychiatry on line Italia) onde scoprire se non lo si è ancora fatto gli altri contributi che rappresentano un corpus che merita di essere scoperto.
    Ho notato (i counter son ormai molto raffinati e ci dicono assai delle abitudini dei lettori senza scomodare il grande fratello) che molto spesso la lettura di un pezzo è SINGOLA con successiva uscita qunado in realtà il vero arricchimento per chi legge sarebbe scoprire l’evoluzione del pensiero dell’autore che nel tempo ha pubblicato pezzi con un “razionale” comune che meriterebbe di essere scoperto e aprezzato.

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  2. delu_stefano

    Nessuna altra testimonianza
    Nessuna altra testimonianza sulla dialettica “Soggetto Altro” e “Soggetto Altri” e sul carattere eminentemente intersoggettivo della soggettività umana è più potente ed esplicativa di questa intervista.
    Di come poi ci si debba dare agli altri e di come convegni e aule universitarie non insegnino l’essenziale, riporto quanto riferitomi, via skype, da mio figlio Paolo, che quest’anno diventerà psicoterapeuta presso la Tavistock di Londra, circa la sua esperienza lavorativa extra universitaria, (per arrotondare quello che gli mandiamo noi genitori) presso una charity: “ Ora sono passato da un gruppo di schizofrenici a un gruppo di autistici non autosufficienti e devo provvedere a tutto, anche a pulire la loro merda”.
    Mio figlio ha detto ciò con una ironia che voleva mascherare la consapevolezza che, cosa più nobile di ciò non potesse fare ed io e mia moglie ce ne siamo, tacitamente, inorgogliti.

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    • gilbertodipetta

      Grazie Stefano. In effetti
      Grazie Stefano. In effetti c’è un’educazione all’altro, che paradossalmente manca proprio nelle helping professsion. Dove per educazione intendo un accostamento vissuto. E nessun accostamento all’altro è più vissuto di quello sub specie corporis. Ciò che tuo figlio Paolo sta facendo come “arrotondamento” dovrebbe diventare il perno di ogni formazione nel nostro ambito. Egli, come Lorenzo Calvi dall’esperienza di infermiere in Inghilterra, trarrà da questo incontro con la carne molto più di un arrotondamento….

      Rispondi
  3. admin

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