IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

L'epistemologia intertestuale per una scienza letteraria

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4 marzo, 2018 - 11:31
di Antonello Sciacchitano

Quasi stento a crederlo. Da due immensi poeti tra loro solidali – Pound ed Eliot[1] – mi giunge inatteso un suggerimento positivo per un’epistemologia che potrebbe trasformare la pratica psicoanalitica da “sordido mestiere” (Lacan, Roma, ottobre 1974) a pratica scientifica. Lo enunciò Eliot nella recensione all’Ulisse di Joyce del novembre 1923, un anno dopo la pubblicazione del suo capolavoro, The Waste Land. In modo lapidario Eliot dichiarò: “Invece del metodo narrativo, possiamo usare il metodo mitico”. Kristeva opportunamente lo corresse: metodo paragrammatico o intertestuale. Di cosa si trattava? Come in tutte le cose serie, per cogliere il punto, è indispensabile un minimo di matematica alla portata di tutti.

Si tratta di una procedura agli antipodi dell’ermeneutica freudiana che tuttavia calza bene con la pratica analitica. Non si tratta di ricalcare il romanzo moderno sull’antico, trovando, per esempio, le analogie edipiche nella narrazione dell’analizzante, ma di praticare delle transizioni tra testi antichi e moderni, tra il testo del singolo in analisi e il patrimonio culturale dei testi della collettività, considerati co-presenti nella sincronia letteraria, abbandonando la successione diacronica del singolo testo alla ricerca – come si ama dire – della singolarità assoluta del soggetto (in evanescenza).[2]

Il punto critico di partenza è la problematica pluralità dei testi, che non forma una totalità insiemistica; in altri termini, la molteplicità testuale non è unificata da una proprietà caratteristica che la individui, trasformandola in un elemento, appartenente a un’altra classe, del quale si possa predicare tutta la verità e nient’altro che la verità. In matematica si direbbe che la pluritestualità è una “classe propria” come il paterno e il femminile, presumibilmente sue sottoclassi. Nella vecchia terminologia scolastica la classe propria è una specie senza generi sopra di sé. L’epistemologia intertestuale si ambienta ma non si unifica nella classe propria dei testi. La sua verità non è quella di un Ganz, dell’intero, direbbe Hegel.

Che ce ne facciamo di questo non uno, che Lacan battezzava non tutto? Potremmo studiare le possibili transizioni da un testo all’altro che compongono il soggetto collettivo e producono il soggetto individuale. In matematica si direbbe che si analizzano gli endomorfismi che trasformano un testo nell’altro, cioè le applicazione della classe dei testi in sé stessa, alla ricerca di invarianti (numerici, algebrici, topologici) e di simmetrie (anche astratte), che restituiscono sembianti di universalità.[3] Il sesto capitolo dell’Ulisse di Joyce o il primo dei Cantos di Pound non fanno altro che questo: producono il metaromanzo dei romanzi antichi e moderni, senza escludere una gita all’Ade per dar la parola al vecchio Tiresia, che è cieco sì ma, trascurando le quisquilie, riesce a percepire qualcosa dell’enigmatico godimento femminile. Tiresia sarebbe un topos invariante per testi che concernono la differenza sessuale, come Medea potrebbe essere una variante dell’edipo femminile.

Cosa c’è di scientifico in tutto ciò?

Innanzitutto c’è l’abbandono della legge che istituisce la narrazione: il principio di ragion sufficiente, che concatena gli effetti alle loro cause nel caso clinico, la tedesca Krankgeschichte, istituendo la catena della significazione, dove “il significante rappresenta il soggetto per un altro significante”.[4] Questa è la pars destruens dell’epistemologia intertestuale. La pars construens fa interagire testi, considerati come elementi “elementari” tra cui si instaurano transizioni “istantanee” nella sincronia ancora prima che nella diacronia. Il modello letterario si costruisce come qualsiasi modello meccanico che tratti azioni e reazioni tra componenti elementari.

Transizioni, Übertragungen, transfert, traduzioni e contagi. Non siamo lontani dal freudismo. Il transfert è un particolare accento che connota diversamente una storia antica e ne fa una moderna, in un certo senso già prevista ai tempi dell’antica. Può essere una semplice trasposizione; al grado zero è una citazione; ma può essere anche una diversa accentuazione di testi simili, che porta dal tragico al comico, passando per il satirico, l’ironico o lo gnomico, toccando tutti i registri della retorica della drammatizzazione. La ripresentazione è l’effetto innovativo di questa epistemologia. L’analista dovrebbe essere il testimone di tale evento che fa passare dalla struttura originale all’attuale, in un certo senso d’emblé, regolarmente sacrificando l’impianto narrativo, che lascia alla mercé della fenomenologia. In questa epistemologia The Waste Land presenta una struttura romanzesca futile o fa della futilità la propria struttura; lo teorizza anche Eliot. L’incipit di The Waste Land esordisce così: April is the cruellest monthpuò essere un pesce d’aprile anche l’opera più poetica, senza perdere dignità scientifica.

Non è chiaro? “Se non è chiaro, vuol dire che c’è del transfert”, che fa velo alla comprensione come una sorta di materia oscura, diceva Freud agli intimi. Se il transfert non è chiaro, è perché lì non vige la regola medica della ragion sufficiente, che spiega apparentemente gli effetti morbosi con le cause morbigene, come l’oppio spiega tautologicamente il sonno con la virtus dormitiva o come la pulsione sessuale giustifica altrettanto tautologicamente la corrispondente soddisfazione. La storia di oggi non si spiega con la storia di ieri, perché entrambe sono da sempre contemporaneamente e indipendentemente presenti nello spazio dell’eternità simbolica. Il nesso “storico” da cogliere in modo scientifico, direbbe Fachinelli, è la loro sempiterna copresenza, senza prima e senza dopo.

Una considerazione generale: il romanzo moderno è coevo alla scienza moderna: la scienza dei modelli, non delle cause. L’antichità non ebbe romanzi, anche se ebbe l’epica, perché il suo scire era per causas. La scienza e la letteratura moderne operano su modelli di pensiero, senza preoccuparsi molto delle loro cause, ma mettendo a fuoco le reciproche interazioni interne. Rabelais anticipò addirittura di un secolo Galilei con una scrittura francamente intertestuale molto erudita. Il suo Gargantua et Pantagruel è una gigantesca – pour cause – enciclopedia letteraria.  

In fondo, la lezione di vita che ci danno questi grandi poeti è semplice da ritenere: impariamo da loro a sopportare il non senso della sincronia – fondamentalmente l’insensata sincronia tra la vita e la morte –, senza attutirlo con storielle consolatorie come pretendono religione e filosofia. A quel punto letteratura e scienza si toccano. Resistere alla scienza significa, allora, resistere anche alla letteratura, in particolare alla poesia.

Da ultimo non voglio perdere l’occasione per segnalare un interessante corollario di questo discorso. Qualunque sia l’epistemologia alla base del discorso analitico, se è scientifica, non dà spazio alla medicina, che non è una scienza ma una tecnica – forse un’arte – che applica ritrovati scientifici alla cura. Ma, se la psicoanalisi non è una tecnica, non fa posto a maestri che ne insegnino l’ortodossia. Come si sa, i maestri e i guru hanno infestato il movimento analitico, all’unico scopo di inibirne lo sviluppo e l’innovazione scientifica. Infatti, affermando in via esclusiva e categorica il proprio sapere, il maestro fa dimenticare questa semplice verità: di fronte alla scienza siamo tutti profani, cioè ignoranti; non c’è rivelazione profetica o magistrale che ti sollevi dall’ignoranza; è questo il senso della questione affrontata da Freud nel saggio del 1926-27, La questione dell’analisi laica. Nel caso particolare, come non ci sono maestri che ti insegnino a fare il poeta, non ci sono maestri che ti “formino” come psicoanalista. Io sono diventato analista liberandomi attraverso la pratica analitica dalle deformazioni che Freud e Lacan mi hanno imposto con i loro insegnamenti mitologici, conservandone tuttavia la componente più vitale. Spero che altri seguano il mio faticoso esempio e lo mettano in comune, giusto per formare collettivi di pensiero diversi dalle scuole di psicoanalisi.



[1] Eliot dedicò The Waste Land all’amico Pound, nominandolo come il miglior fabbro del parlar materno, citando Dante a proposito del trovatore provenzale Arnaut Daniel (Canto XXVI del Purgatorio, v. 117).
[2] Le famose sedute brevi di Lacan hanno questa giustificazione teorica: azzerare la diacronia in un sembiante di sincronia.
[3] Non va esclusa la possibilità di una modellistica intertestuale computazionale, che offra uno spettro di eventualità da testare durante l’effettivo percorso clinico di analisi.
[4] J. Lacan, “Subversion du sujet et dialectique du désir dans l’inconscient freudien” (1960), in Id., Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 819.

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