CUORE DI TENEBRA
Viaggio al termine della psichiatria
di Gilberto Di Petta

LETTERA A UNA/UN GIOVANE SPECIALIZZANDA/O IN PSICHIATRIA

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6 luglio, 2021 - 20:58
di Gilberto Di Petta

Questo grande male... da dove proviene? Come ha fatto a contaminare il mondo? Da che seme, da quale radice è cresciuto? Chi ci sta facendo questo? Chi ci sta uccidendo, derubandoci della vita e della luce, beffandoci con la visione di quello che avremmo potuto conoscere? La nostra rovina è di beneficio alla terra, aiuta l'erba crescere, il sole a splendere? Questo buio ha preso anche te?
Sei passato per questa notte?

The thine red line (T. Malick)
 


Cara/o giovane collega che ti stai specializzando in psichiatria,
al giro di boa dei miei anni, la mia vita è ormai lunga due volte la tua. Questo significa che io, da veterano, posso sopportare tutto, o quasi. Tu no. Adesso sono in reparto e la notte stessa reclina il capo. A quest’ora, prima dell’alba, la pace è perfetta anche qui. Se non fosse per il soffocato rumore di fondo dei condizionatori, ascolterei lo sciabordio delle onde sulla riva del mare.
Perché scriverti? Perché la necessità di mettere in una bottiglia e affidare alla marea della rete queste cose che ci riguardano? Queste cose che io ho distillato e giustapposto,  come perle su un filo, da uomini grandi, da Maestri che, a differenza di te, ho fatto ancora in tempo ad incontrare. E dunque sento il compito etico di trasmetterle anche a te, queste cose. Poi, certo, tu ne farai l’uso che vuoi. O che puoi.
Forse non ora, ma un giorno, queste poche cose ti torneranno utili. Io non so se tu hai scelto di diventare psichiatra per un’ insopprimibile vocazione, come è stato a suo tempo per me, o per caso, perdendo alla lotteria nazionale dei posti le Scuole di specialità che preferivi.
Ad ogni modo, ormai sei dentro. Sei imbarcato. Se frequenti l’ultimo anno, sei come uno di quei soldati stivati nelle navi alleate dritte alle coste della Normandia, nel “44, oppure a Guadalcanal, nel “42-“43. Se non lo hai visto, guardati il mistico film “La sottile linea rossa”, di Terence Malick. Quando il rumore del cuore dei marines stretti sulle chiatte superava, per la paura, lo sciabordio dei motori e delle onde. Ad ogni modo, stai per definirti come un “medico specialista nella cura delle malattie mentali”. Questo per il senso comune, quello con cui ragiona la gente profana, e, naturalmente, per la Legge, essendo la psichiatria una “regolare” branca della medicina.
Ciò che io ti sto scrivendo, invece, in questo messaggio, non ha a che fare né con il senso comune, né con la Legge. Diciamo che ha a che fare con l’epistemologia, con la storia della psichiatria, con la nozione stessa di follia. Con cosa significa essere umani.
Troverai, mia/o giovane amica/o, al tuo imminente sbarco sulla “Omaha beach” del territorio, un mondo che non conosci, un mondo difficile assai, dove le diagnosi si fanno ad occhio, senza nessuna scala, o, spesso, non si fanno proprio; tanto l’una vale l’altra e, tanto, nella notte psicotica tutte le vacche saranno nere;  dove i farmaci si usano come estintori, le terapie diventano prima o poi tutte uguali, e si usano i farmaci  che si trovano, non quelli che vorresti usare; dove la psicoterapia è un’ideologia del passato, e la riabilitazione una chimera; dove i colleghi sono stanchi, anziani, demotivati e sotto organico; dove gli infermieri ti diranno cosa è giusto che tu faccia, e cosa non è giusto; dove, spesso, avrai l’impressione che tutti e tutto siano contro di te. Un mondo dove coloro che ti hanno insegnato in questi anni, in genere, non mettono mai piede (li rivedrai ai convegni, sempre perfetti, sorridenti, senza occhiaie, compiaciuti e circondati dai giovani specializzandi che prenderanno il tuo posto).
 
IL NUOVO LIBRO DI GILBERTO DI PETTA E FRANCESCO BOLLORINO



Troverai colleghi medici (non psichiatri, medici di base, 118) convinti che i malati di mente non abbiano un corpo, e convinti che basti un’agitazione  psicomotoria per fare, di un assemblato di organi che risponde al nome di uomo, tout court un malato mentale. Incontrerai genitori disperati, matti più dei figli, che pretenderanno da te il miracolo, e che non capiranno nulla quando tu gli pronuncerai la parola “psicosi”, o “esordio”, perché per loro la psicosi è una fobia di qualcosa, e la malattia mentale non esiste.
Incontrerai pazienti che ti passeranno davanti come in una quintana, che tu dovrai, in qualche modo, curare, o tentare di curare, per quel pezzetto che loro sono affidati a te o che tu sei affidato a loro. Pazienti che, a volte, vedrai per un istante soltanto, prima di dileguare in un altro Servizio, o prima che loro stessi passino, come su una catena di montaggio, in un altro Servizio (CSM, SPDC; SRA; SRI; CDR; CPS; CIM::J).
Incontrerai pazienti che poco dopo moriranno, e che, quando ti diranno che sono morti, di malattia o volontariamente, tu faticherai a ricordarne i volti, per il troppo breve tempo che li hai visti. Incontrerai pazienti che ti aggrediranno, che ti sputeranno in faccia, che ti diranno parolacce. E pazienti che benediranno di averti incontrato. Che ti diranno tutto il dicibile in uno sguardo. A cui occhi, a volte, ti terrai attaccato solo per sopravvivere. Ti domanderai molte volte, raccattando homeless dalle strade, che puzzano di morte, convalidando TSO che neppure Lombroso avrebbe convalidato, fino a poi non domandartelo più, che senso ha il tuo lavoro…
Il giorno che non te lo domanderai più, forse rileggere questa lettera potrà aiutarti. Le cose che ti scrivo, se hai la pazienza almeno di conservartele, possono tornarti utili, se non altro per capire il vicolo cieco che hai imboccato, e la complessità di cui hai bisogno per sopportarlo.
Mia/o giovane amica/o, Il discorso sulla psichiatria e della psichiatria negli ultimi anni, purtroppo, è stato schiacciato da un’enorme pressione. Le forze commerciali della società dominata dai mezzi di comunicazione e dal consumo di massa hanno favorito un drammatico abbassamento del livello, del linguaggio, del senso stesso della psichiatria, dal punto di vista formale e dei contenuti.
Nella situazione odierna, l’impatto prodotto da questo omologamento biologico-riduzionista e dalla monotonia del linguaggio burocratico-managerial-gestionale sugli ideali e sulle pratiche della parte più colta e alfabetizzata della società, ti riguarda molto da vicino. Poiché la psichiatria è diretta espressione (non come la cardiologia, la nefrologia, l’ortopedia o altre branche medico-chirurgiche) della società nella quale essa si inscrive. La grammatica della mediocrità, oggi, è in cattedra dovunque, e va di pari passo con il vuoto sterile ed uniforme del gergo tecnico dei media e dei mercati dell’Occidente. Uniformità, monotonia e vuoto, riduttivo e sterile, ovvero le qualificazioni dell’attuale modo di insegnare (e, ahimè, a volte di praticare..) la psichiatria, si contrappongono prevalendo su complessità, sottigliezza, raffinatezza e varietà di contenuti.
E’ triste vedere, dopo oltre duecento anni, ovvero da quel 1793 in cui Pinel, spezzando le catene ai folli nella Salpetriere, aggregò la psichiatria alla medicina, la condizione umiliante, disonorevole e sciagurata nella quale quella stessa psichiatria è caduta,  è in procinto o è destinata a cadere. E’ un baratro, quello che si apre davanti a te, di uniformità, standardizzazione e appiattimento. Tutte bugie. Tutto quello che vedi, tutto quello che senti. Così grosse da vomitare. 
Tra poco ti ritroverai in una gabbia, dalle sbarre invisibili ed elastiche. La chiamano “Terricomio”. Ti vorranno presto in burn-out... o parte della loro bugia. Mi piacerebbe, invece, che tu fossi pronto a condurre una guerra fino all’ultimo sangue, per salvare la ricchezza della differenza e della sofferenza, che caratterizza, oltre alla psichiatria, tutto ciò che c’è di importante nella cultura umana. Perché, anche se tu sei giovane, c’è poco tempo per farlo.
Fui “arruolato” dal mio Capitano, quando avevo al tua età, con l’appellativo di “recluta fresca per una lunga battaglia”. Lo avrei seguito dovunque. Fu per lui che tornai giù dalla Germania, dove oggi sarei Chefartz alla Klinik fur Psychiatrie und Psychotherapie Charité di Berlino. “Recluta fresca per una lunga battaglia”, così oggi mi piacerebbe appellarti. Purtroppo, cara/o amica/o alcune battaglie intraprese  in questa direzione, anche da uomini di grande valore, sono andate perdute. Non è solo che la forza della volgarità linguistica e culturale equipaggiata con la tecnologia all’ultima moda dei media e sponsorizzata da immense risorse manovrate dai mercati consumistici è diventata soverchiante, è anche che l’élite, quell’élite che un tempo si schierava contro questa mediocrità culturale, ora è stata cancellata, e su quelli che erano i suoi vessilli la capacità di discernere è stata rimpiazzata da una voracità populista onnivora e bulimica.
Mi rendo conto, cara/o giovane collega, del tono apocalittico che a poco a poco sta prendendo questa lettera. Me ne dispiace. Mi piacerebbe, tuttavia, anche se essa, un giorno, fosse studiata almeno come il “delirio” di uno psichiatra fulminato. Vorrebbe dire, almeno, che qualcuno è ancora interessato alla forma e ai contenuti di un pensiero. Un pensiero qualunque, purchè un pensiero di qualcuno, e non un pensiero anonimo omologato alla dittatura del consenso. Un pensiero libero, delirante, disobbediate e anarchico, che 25 anni di trincea non hanno estinto. Allora, le cose che vorrei dirti si riassumono così.
La psichiatria attuale, che il senso comune definisce come “branca della medicina che si pone come obiettivo la cura delle malattie mentali”, contiene alcune antinomie autodistruttive non affatto risolte. Due per tutte : prima, la psichiatria è stata aggregata alla medicina solo due secoli fa, quindi non è per niente scontato il fatto essa che sia un sapere medico sic et simpliciter, come ti è stato senza alcuna critica spacciato; seconda, le malattie mentali non sono, come darebbe ad intendere la definizione, degli enti di natura, come le altre malattie d’organo, ma rappresentano il costrutto di un determinato paradigma, che cambia nella storia della scienza e nelle vicissitudini del mondo.
Quando Pinel aggrega la psichiatria alla medicina, la visione che ha la medicina del corpo umano è ancora olistica, ovvero organismica, e i trattamenti, per ogni patologia, vanno alla generalità dell’organismo (salassi, bagni etc). E’ con questo sfondo (totalmente altro da quello attuale) che la psichiatria entra nella medicina, perchè le malattie mentali sono intese, alla stessa stregua delle altre, come squilibri “organismici”, nella fattispecie squilibri tra la ragione e le passioni. Il trattamento morale è volto, allora, a ricercare un punto di equilibrio nella dialettica saltata del discorso. Poco dopo, quando, con Claude Bernard, la medicina diventa d’organo, ovvero si specializza intorno a costrutti strettamente anatomo-clinici, la psichiatria salta il binario. In altri termini, se ogni sintomo rimanda ad una lesione di organo, non di organismo, alla psichiatria tocca, come organo, ovviamente il cervello. In questa fase, però, la psichiatria perde subito, proprio per questa attribuzione, la sua autonomia primitiva e viene per forza di cose fagocitata dalla neurologia.
Le scoperte di Golgi, Cajal, Sherrington, e poi Broca e Wernicke, fanno pensare che le basi anatomopatologiche e fisiopatologiche delle malattie mentali stiano lì lì per emergere dalla meravigliosa e colorata architettura cerebrale. La scoperta della spirocheta treponema pallidum, associata al quadro della neurolue, dànno una potente conferma a questa teoria. Griesinger e Meynert affermano apodittici : “Le malattie mentali sono malattie dle cervello”. In realtà la neurologia a poco a poco, grazie allo sviluppo della neruopatologia, mette le sue bandierine sul mantello corticale, e la psichiatria rimane, come volevasi dimostrare, povera e nuda. Ridotta, quindi, al ruolo ancillare e secondario nell’ossimoro “neuro-psichiatria”. Fino alla metà del Novecento le carenze nutrizionali ed igieniche della popolazione davano una quantità di quadri disvitaminosici, distiroidei che riempivano i manicomi di frenastenici o oligofrenici, ovvero di soggetti con evidente e manifesto ritardo nello sviluppo psicomotorio, con associati disturbi del comportamento. Questo consentiva il mantenimento del concetto di “clinica delle malattie nervose e mentali”. Ovviamente il miglioramento delle condizioni di vita e una certa “eugenetica” preventiva hanno ridotto molto questo folto gruppo di pseudo“malati mentali”, per cui l’attenzione della psichiatria si è spostata da quadri “neuro-psichiatrici” a quadri sempre più psichiatrici, ovvero funzionali (senza base organica dimostrabile), come la schizofrenia e la psicosi maniaco-depressiva. Andando incontro all’autonomia dalla neurologia, negli anni Settanta del Secolo scorso, ma senza avere una sua base anatomo-patologica, la psichiatria si è trovata improvvisamente in una posizione assai debole ed esposta. Perdendo la sua componente umanistica, perché come neuro-psichiatria l’aveva persa, le è toccato appiattirsi, in maniera compensatoria, sul paradigma biologico-riduzionista, a scapito del paradigma clinico e psicopatologico. Questa operazione è stata fatta essenzialmente dagli universitari, che erano tutti ex neurologi. Contemporaneamente, sul territorio, gli psichiatri sociali hanno fatto la loro rivoluzione.
L’irrigidimento della psichiatria accademica sul biologico e il progressivo assorbimento inerziale dello slancio della psichiatria sociale, hanno consegnato la nostra amata disciplina alla miseria attuale, nella quale tu ti sei formata/o. Ovvero alla stipsi dei tuoi quattro o cinque anni di specializzazione, in cui non ti sei mai trovato, probabilmente, a discutere con qualcuno su cosa è e come si dà una percezione delirante, sulla differenza tra un delirio e un deliroide, sul dispositivo della rivelazione e della conferma nella patogenesi del delirio, sulla differenza tra un’allucinazione acustica e una allucinazione acustico-verbale; sulla differenza tra sintomi primari e sintomi secondari; sulla differenza tra struttura di base endo-fenotipica e sintomo feno-fenotipico, su come si costituisce un’esperienza vissuta di centralizzazione. Perché tutto questo concerne una dimensione del discorso completamente scomparsa, mutilata, cioè la dimensione della psicopatologia. Ciò che è sopravvissuta, nella forma degradata delle varie edizioni del DSM, è solo una volgare semeiotica di base. E’ quella che probabilmente ti hanno spacciato per psicopatologia. La semeiotica, ovvero la raccolta di segni significativi, è, certo, di appannaggio della medicina. Ma non è con la semeiotica che si fa una diagnosi. I segni e i sintomi, in psichiatria, non sono affatto patognomonici.
Nessuna sindrome in psichiatria ha un sintomo fondamentale, o un cluster di sintomi fondamentali, come vorrebbe spacciarti il DSM-5. La psicopatologia, invece, come cornice di senso in cui inserire questi segni o sintomi, è l’unica prospettiva che può guidarti nella criticità diagnostica. Ma devi sapere, cara/o amica/o, che la psicopatologia non è per nulla appannaggio della medicina.  
Essa deriva, nel suo impianto metodologico, dalle scienze umane, ovvero dalla filosofia della storia (Dilthey) e dalla filosofia della vita (Simmel). Essa si è strutturata con le concettualizzazioni della fenomenologia (Husserl), della filosofia dell’esistenza (Heidegger, Sartre, Merlau-Ponty) e dell’ermeneutica (Ricoeur, Gadamer). La psicopatologia riconosce un impianto ed un metodo che non sono quelli del sapere medico-naturalistico ma che, paradossalmente, rendono significativo il sapere medico, cioè la semeiotica, applicata all’incontro e alla relazione con il malato mentale. Il fatto che la psicopatologia non ha una fondazione medica è il motivo per cui è stata abbandonata dalla psichiatria ufficiale o maistream, del tutto preoccupata solo di ricevere una legittimazione dalla medicina. In cattedra di psichiatria, per tutto il Secondo Novecento, non ha mai messo piede nemmeno uno psicopatologo, e i docenti sono troppo impegnati a correre dietro il “publish or perish” su riviste impattate, modaiole e asservite al consensus, per potersi dedicare alla psicopatologia.
La psicopatologia, oltre ad essere un medium tra te e il paziente, oltre a fornirti quel linguaggio strutturato sulle esperienze vissute del paziente, che ti apre la strada al colloquio, sarebbe anche un medium tra te e la società che ti circonda. Nel senso che la psicopatologia costituisce un paradigma sensibile al clima culturale che la società respira. Senza la psicopatologia, tu, futuro psichiatra, sei staccato dalla cultura, e appiattito solo su di un registro biologico.
Significa, concretamente, che tu avrai sempre meno voce in capitolo sul “management” del paziente, sulle sue relazioni con l’ambiente, sulla sua storia di vita. Il tuo compito sarà sempre più solo quello di un (illusorio) equilibratore recettoriale. In realtà un sarto di  “camisole de force chimique” per situazioni da tenere sotto controllo quando scoppiano. Farai il pompiere delle follia. Dovrai stabilizzare con i farmaci, senza sapere più di tanto. Accontentandoti di ciò che ti diranno o che riuscirai ad afferrare della vita del paziente per poter prescrivere una terapia. Sei, in fondo, anche se non ti insegnano un gran che, un professionista costoso da formare, quindi il tuo stipendio, nei Servizi o nelle Cliniche private, dovrai guadagnartelo vedendo moltissimi pazienti, per pochissimo tempo, non più di una volta al mese, senza starci su a pensare troppo. Un prescrittore. Non un clinico. Il resto della vita del paziente  sarà appannaggio di altri. Il paziente, le sue relazioni, non appena tu lo avrai più o meno riequilibrato, le farà con gli altri. E questa sarà la fine. La fine della psichiatria e la mortificazione di te come psichiatra. Ma, del resto, se anche tu dovessi avere voce in capitolo, di cosa parleresti, per quanto concerne quel paziente, con i vari riabilitatori o psicoterapeuti, o assitenti sociali, parleresti dei suoi recettori? Dei suoi geni? Dei suoi alleli? Dell’epidemiologia?  Delle metanalisi? A chi credi che interessino queste cose, se non agli editor delle riviste dove pubblicano i tuoi docenti? Ovviamente, questi elementi rappresentano tutti probabilismi della ricerca, materia della psichiatria che ti hanno fatto studiare, ma essi sono, di per sé, afasici, se calati nelle situazioni del real world (o mondo-della-vita, come preferisco chiamarlo io). Se non possiedi una dimensione discorsiva psicopatologica che discorsi fai su quel particolare paziente? Sei in grado di descrivere, ad esempio, come quel paziente vive il tempo, come vive lo spazio, come struttura il suo mondo? Come vive il corpo? Se lo fai, o ti butti a farlo, lo fai per intuizione? Per quello che ti appare in quel momento? In tal caso per  tua bocca parlerà solo il senso comune, a cui tu apporrai il sigillo dell’autorità medica. Ma ti troverai di fronte a personale non medico che la vedrà assai diversamente da te. Dovrai argomentare. Oppure sarai destituito. Nel ruolo che ti è stato lasciato farai, alla fine, la parte del “cattivo” che deve sedare e ricoverare, non l’interlocutore del progetto terapeutico-riabilitativo.
La perdita di potere dello psichiatra secondo alcuni è auspicabile, viste alcune nefandezza commesse dagli psichiatri quando hanno avuto il potere. Il punto è, però, che i manicomi si sono potuti chiudere anche perché i direttori avevano un potere che oggi nessuno ha più. Il potere di aprire i reparti. Il potere di dimettere. E, ad ogni modo, dispiace tanto consumare questo addio tra noi e i nostri pazienti. Eravamo nati, come psichiatri clinici, per occuparci di loro, cioè dei nostri pazienti come persone, con passione illuministica e filantropica, non solo dei loro recettori o del loro cervello.
Queste cose te le dico, mia/o giovane amica/o,veramente  sine ira et studio. Ho rinunciato, da tempo, a fare concorsi di secondo livello, perché avrei smesso di vedere pazienti. Non ho fatto il medico per occuparmi di gestione del personale e di budget.
Un uomo, in certe circostanze, per salvarsi, può fare una sola cosa, trovare una situazione che sia sua, crearsi un'isola attorno. Sono rimasto nei posti dove mi hanno inviato, senza mai avere il cambio. Se tra di noi ci sono tanti anni di stacco, è perché dietro di me non hanno più preso nessuno. Se non ti incontrerò mai in questa vita, almeno lasciami sentire la tua mancanza. Se avessimo lavorato insieme, uno sguardo dei tuoi occhi e la mia vita sarebbe stata a tua disposizione.
Me ne andrò dal Servizio pubblico senza gradi e senza riconoscimenti, senza rimpianti, con una mano avanti ed una dietro, povero e nudo, come sono entrato, ma felice di essere stato dimenticato in un angolo di “terricomio”, insieme ai pazienti dei quali ho cercato, come meglio ho potuto, semplicemente da psichiatra clinico, da ultimo mohicano, di condividere il destino. Che differenza può fare un uomo solo, in tutta questa pazzia? La mia battaglia è perduta, mi rimane solo l’onore di averla combattuta giorno dopo giorno, e di aver conosciuto uomini che mi hanno messo sulle tracce di una clinica vicina al fascino assoluto che ogni esistenza, anche la più straziata, trasmette.
Di questa carta nautica, amica/o mia/o fanne ciò che puoi. Se ci riesci a farla tua, trasmettila arricchita di dettagli.
E non smettere mai di domandarti una domanda cruciale, che mi ha assillato per tutti questi anni: ”Se una persona a cui tu tieni tanto, veramente tanto, si “ammalasse di mente”,  quale tipologia di psichiatra tu vorresti che incontrasse?”.
Lo so che una risposta non c’è. Cerca di diventare, se puoi, tu quello psichiatra. La via per arrivarci passa per la sofferenza (anche personale),  per  l’umanità e per la cultura

 

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La maggior parte degli specializzandi è donna... da tempo... e alcuni sono LGBTI... dichiarati... da tempo...

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SEGNALO IL CONTRIBUTO CORRELATO:
Continuando la lettera di Gilberto Di Petta a un/a giovane specializzando/a in psichiatria di Gianni Francesetti e Michela Gecele alla URL: http://www.psychiatryonline.it/node/7952

Gentile dott. Di Petta, salve.
Sono capitata su questo sito per caso e per caso leggo la sua lettera. Colombo per caso scoprì l’America, che siano le sue parole la mia America in una tiepida mattina di marzo? Mi chiamo Elisa e sono una neoabilitata, ovvero una giovane donna medico sospesa in quell’odioso limbo formativo che intercorre tra la laurea e il giorno in cui, attraverso un concorso nazionale, si deciderà il mio futuro. Per fortuna non sono una persona ansiosa e tendo ad essere piuttosto ottimista, per cui mi sto prendendo questo tempo – che, mi creda, è tanto e a quest’età pesa, pesa tantissimo – per riflettere su chi voglio diventare “da grande”.

Mi sono iscritta a medicina perché volevo diventare una psichiatra. Avrò avuto 16 o 17 anni e a scuola vidi “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, tornai a casa e mi informai più che potei su questo mondo che per me era ancora del tutto sconosciuto.. Che strano, è la prima volta che risalgo al momento in cui, per la prima volta, sentì che davvero qualcosa mi appassionava e mi chiamava, mi attraeva a sé. Non starò qui a raccontarle tutte le mie vicende personali, di come verso la fine del mio percorso di studi mi persi dietro alla ricerca di “altro” che non riuscivo più a trovare tra le aule universitarie e di come la Vita, la mia Natura, inevitabilmente, mi abbiano ricondotta a riva. Galeotto fu anche in questo caso un film: “La meglio gioventù”. Guardavo Nicola (Luigi Lo Cascio) e mi identificavo in lui. Molti incontri, ora che ci penso, mi hanno spinta in questa direzione. Non sa quanto è importante per me leggere le sue parole. Mi danno fiducia seppur nello sconforto.

Sa, mi ha strappato un sorriso quando ha nominato il Charitè di Berlino: io l’esame di psichiatria l’ho dato proprio in Germania perché volevo “vedere i pazienti”, onore questo che nella mia università difficilmente avrei avuto. Assurdo eh? Ma non voglio tediarla con le mie lamentele riguardo l’università italiana. Dell’Italia – di un certo tipo d’Italia, ne saprà molto più di me.

E allora perché le scrivo? Perché da lei ho sentito, letto le parole che da tanto tempo cercavo. Le parole che mi parlano di umanità, di sogni e di lotta. Di interesse, vero, nell’essere umano e nella sua complessità. Di rispetto per la sofferenza. Di accettazione dei propri limiti ma di ostinazione. Questo la rende degno di stima, da parte mia. Parole che appartengono ad un mondo ormai scomparso, ma in cui io continuo a credere fermamente e che spero tornerà a farla da padrone, un giorno.

Beh, questo mio Bewusstseinsstrom solo per dirle che le sue parole hanno toccato delle corde profonde dentro di me e che se ci riuscirò, a portare avanti la battaglia, sarà anche merito suo.

Elisa

Cara Elisa, sono ripassato per caso tra queste pagine, stimolato dall'infernale Bollorino che ha rilanciato questo mio disperato messaggio nella bottiglia. Così mi imbatto nel suo commento di ieri l'altro. Da dicembre, da quella guardia di Natale, non riesco più a trasmettere cablogrammi. Non riesco più a scrivere. Sono, allo stato, sottoposto a tre procedimenti giudiziari. Due per la morte di due pazienti, insieme ad altri colleghi, psichiatri e non. Uno perchè un mio paziente, che ho amato moltissimo, ha ucciso la madre. E dopo tre mesi si è tolto la vita. Questi eventi hanno prodotto dentro di me una serie di fratture, che fatico a ricomprendere. Ho dedicato tutta la mia vita alla psichiatria e ai pazienti. Non ho altro. Non ho fatto carriera e vivo incontrando pazienti dalla mattina alla sera alla notte. Oggi mi trovo a dovermi difendere. Da che cosa? Da chi? Perchè? Dove ho sbagliato? Posso dirle solo che la sua lettera ha avuto su di me l'effetto che ha la mano di uno sconosciuto che si posa dolce sulla tua spalla, quando, sopraffatto dal cammino, ti fermi, e, rapito dai tuoi pensieri, ti assenti, ti astrai. Quella mano, nel silenzio degli anni che ci separano e nell'assoluta ignoranza di tutto, ti fa venire voglia di riprendere il cammino. Di riaprire gli occhi alla luce. Sapere che dietro di te c'è qualcuno. Sapere che non sei solo. Sapere che stai lottando e soccombendo per delle idee condivisibili e non scadute, è più di tutto. Pertanto la ringrazio. E le dico che ha aiutato, dall'acerbità della sua posizione, ma con il futuro nello sguardo, uno dei suoi primi e forse più gravi pazienti a rialzarsi.
L'abbraccio.
Gilberto

Caro Gilberto, mi fa male leggere queste parole e sapere di ciò che sta passando. Anche se non la conosco, traspare da quello che scrive il suo sconforto e la sicura sofferenza che sta vivendo in questo momento. Non posso minimamente immaginare come ci si possa sentire, ma sono felice se le mie parole hanno potuto recarle un minimo di sollievo. Sono giovane, è vero. Ma la vita ha già messo sul mio cammino esempi di uomini e donne che mi hanno insegnato a stringere i denti e ad andare avanti con perseveranza quando la situazione si fa dura: questi uomini e donne, alla fine della battaglia, ne sono usciti più forti di prima. Le auguro che sarà lo stesso per lei.
Le lascio questa poesia di Rilke che è tra le mie preferite:

Se la vostra vita quotidiana vi sembra povera, non l’accusate;
accusate voi stesso, che non siete assai poeta da evocarne la ricchezza;
ché per un creatore non esiste povertà né luoghi poveri e indifferenti.
E se anche foste in un carcere, le cui pareti non lasciassero filtrare alcuno dei rumori del mondo fino ai vostri sensi – non avreste ancora sempre la vostra infanzia, questa ricchezza preziosa, regale, questo tesoro dei ricordi?
Rivolgete in quella parte la vostra attenzione.
Tentate di risollevare le sensazioni sommerse in quel vasto passato; la vostra personalità si confermerà, la vostra solitudine s’amplierà e diverrà una dimora avvolta in un lume di crepuscolo, oltre cui passa lontano il rumore degli altri.
Sempre l’augurio che possiate trovare assai pazienza in voi da sopportare e assai semplicità da credere; che possiate acquistare sempre più fiducia in quello ch’è difficile e nella vostra solitudine tra gli altri.
E per il resto lasciatevi accadere la vita.
Credetemi: la vita ha ragione, in tutti i casi.
Non vi osservate troppo.
Non ricavate conclusioni troppo rapide da quello che vi accade;
lasciate che semplicemente vi accada.

Un abbraccio,
Elisa

Credo Elisa che il tuo contributo sia importante.
mi spiace solo che tu sia arriavata "casualmente" al pezzo di Gilberto e alla Rivista.
sarebbe bello che tu come tanti la scoprissi cercando nei suoi archivi le TANTISSIME perle che vi sono contenute e ti facessi parte attiva per diffonderle in maniera capillare per far sì che in tanti le scoprano per merito tuo e non del caso.
Il passa parola fa miracoli a volte se fatto con cuore intelligente.
per intanto grazie per le tue parole

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Caro Prof. Di Petta, sono una specializzanda, una di quelle senza Capitano, partita con l’idea di scoprire nuove ricche terre e che ora guarda le sue vele in attesa del vento e di una direzione. Più che rispondere al suo messaggio, vorrei lasciare nella bottiglia il mio, sicura che molti miei colleghi riescano a sentire queste parole come fossero le loro.
La mia scelta è stata dettata da quella che lei chiama un’insopprimibile vocazione: nella lotteria nazionale ho scelto solo psichiatria. In quel momento non avrei fatto nient’altro. Forse il falegname, come mio nonno. Dopo 10 anni di servizio ai tavoli per guadagnarmi questo onore, sono entrata in Specializzazione e ho trascorso quell’estate carica di un entusiasmo che diventava a tratti infantile.
Non mi sentivo molto preparata, non sapevo bene quale fosse la mia idea di psichiatria, ma tempo addietro avevo letto queste parole di Jung: “Chi quindi vuole imparare a conoscere l’anima umana verrà a saperne poco o niente dalla psicologia sperimentale. Bisognerebbe piuttosto consigliargli di spogliarsi delle vesti di dotto, di dire addio alla stanza di studio e di girare con spirito aperto il mondo, di penetrare negli orrori delle carceri, manicomi e ospedali, per i cupi bar di periferia, i bordelli e le bische, per i saloni della società elegante, le borse, le assemblee socialiste […] di provare sul proprio corpo amore e odio […] allora tornerà carico di un sapere più ricco di quello che i voluminosi libri di testo non gli avrebbero mai dato e potrà essere un medico per i suoi pazienti, un vero conoscitore dell’anima umana.” Jung si riferiva ai testi della psicologia sperimentale del tempo che cercava di vivisezionare i processi mentali in parti quanto più possibile piccole per studiarle isolatamente. Al tempo non capivo fino in fondo cosa volesse dire, ma da allora, rafforzando a piccoli passi la mia acerba esperienza e intensificando le mie letture, ho sempre trovato in queste parole, ogni volta ricontestualizzate, qualcosa di attuale e di mio.
Nel tempo molti altri autori, che hanno conquistato più autorevolezza nel campo della filosofia e della letteratura che in quello della psichiatria (mainstream), hanno rafforzato e chiarito la sensazione che provo ogni volta che mi viene chiesto di somministrare una SCID 5, pena la scarsa attendibilità della diagnosi (utilizzabile). Provo imbarazzo se penso a quanto ci è stato insegnato alla lezione Come somministrare la SCID 5, ma non per spirito reazionario, semplicemente perché, a modo loro, me lo hanno imposto i pazienti. Sono loro ad avermi fatto sentire spesso inadeguata. Una volta ho provato anch’io a fare un test, era per la tesi di una mia collega che necessitava di campioni sani: mi sono sentita ingabbiata, con reazioni che oscillavano tra il fastidio e il sarcasmo, avrei scritto commenti su ogni risposta proprio come fanno i pazienti che definiamo “incongrui” e alla fine avevo solo voglia di rispondere a caso. Ho finito il test pensando ai pazienti ricoverati in SPDC, imbottiti di EN + Clorpromazina + Aloperidolo + Valproato, che mi rispondevano: “Dottoressa, sono stanco di tutte queste domande”; pensando a me che tornavo dal colloquio sconfitta, tra la preoccupazione di non essere riuscita a compiere il mio dovere e la frustrazione di non essere riuscita a conservare del tempo prezioso per tentare di entrare davvero nel loro mondo.
Caro Professore, adesso sono al terzo anno e non ho smesso di fare test, mi sento in grado di riconoscere le grandi categorie che il DSM insegna e, bene o male, agire da linee guida. Nelle categorie ci si può sentire più sicuri, ma ogni giorno che passa, mentre attraverso il corridoio dell’SPDC, si fa sempre più impellente in me l’esigenza di cercare un approdo insicuro nello sguardo dei pazienti, di confondermi tra quei criteri mai soddisfatti, di mantenere viva la risposta alla domanda che lei ci pone. A volte sono intimidita, perché incontro uno sguardo accusatorio, a volte sono quella che li seda, che partecipa agli atterramenti di fortuna prima della contenzione, a volte accolgo il loro abbraccio e le loro lacrime, il loro fiume di deliri, la loro perplessità, il loro aggrapparsi a tutto ciò che non è malattia. Cerco il loro sguardo perché mi ricordi che, così come la causa non è una semplice spirocheta, come spesso afferma Mario Maj, la cura non è l’aloperidolo. Ma con questo non intendo certo sminuire il valore dei farmaci nella nostra pratica clinica, anzi, sono sollevata dai progressi della farmacologia che mi danno la possibilità di prendere tempo, che mi permettono di abbassare il ponte levatoio che mi separa dal paziente e che mi sosterranno nella giungla del Terricomio, ma sento di non poter rinunciare a seguire questa costante sensazione di incompletezza che mi porta e cercare altro, a cercare oltre i neurotrasmettori e il DSM. Faccio parte di quella categoria senza Maestri, forse perché, come dice lei, non se ne vedono più tanti o forse perché non mi sono trovata nel fatidico posto giusto al momento giusto; vivo della mia borsa e non posso permettermi ancora una Scuola, e no, non ho mai discusso con nessuno della differenza tra un delirio e un deliroide, tra post festum e ante festum, ma neanche tra Seno Buono e Seno Cattivo, posizione schizoparanoide e depressiva. Il mio sollievo sono i miei colleghi specializzandi, in molti dei quali riconosco la sensibilità necessaria a non naufragare nei paradigmi biologico-nosografici; con i quali condivido riflessioni carbonare sui vissuti dei pazienti e impressioni su come procede la nostra analisi personale. Con loro ogni giorno condivido il senso di svenimento al pensiero del tempo che abbiamo dovuto impiegare su “volgare semeiotica”, concentrando tutto il resto, che è tanto, troppo, nel nostro poco tempo libero.
Ai convegni sento parlare di recovery e terapia integrata, concetti che ormai sfiorano la banalità per quanto sono stati osannati, eppure nel mio quotidiano ho l’impressione che stiamo ancora combattendo la stessa infinita guerra tra poveri: psicanalisti, farmacologi, basagliani nostalgici che rivendicano la loro parte, mentre la psichiatria universitaria continua a rimanere zoppa e quella territoriale in preda al populismo antipsichiatrico (ah, se fosse ancora vivo Basaglia!).
Sicuramente uscirò dai visceri della Specializzazione pronta a fare il pompiere recettoriale e non avrò la struttura solida di uno psicopatologo per argomentare la mie scelte, ma ricordo bene le sue parole al Corso Base di Psicopatologia Fenomenologica: cultura, analisi personale e un Maestro. Sono in ritardo, Professore, su tutte e tre le cose, ma è grazie a parole come le sue che riesco a resistere in questo dilagante paradigma del nostro secolo e addirittura a coglierne il buono. Forse sarò semplicemente assorbita dal Terricomio, abbandonata a nutrire con le lamentele un vecchio narcisismo frustrato, ma credo fortemente nel valore della nostra disciplina e nella possibilità di unire le sue parti in un unico grande contenitore di senso, nella pratica clinica oltre che nel pensiero. Sembrerò troppo romantica, forse perché scrivo dopo una difficile notte in SPDC, una notte di vacche nere, ma vorrei ringraziarla con tutto il cuore perché la sue parole ardenti, dure e al contempo benevoli, che ancora ci dona dopo anni di guerra al fronte, sono vento per le mie vele.
Raffaella

Gentile collega Raffaella,
"recluta fresca per una lunga battaglia", il tuo messaggio mi rende felice. Ero perplesso del fatto che nel mare magnum delle visualizzazioni nessuno specializzando avesse mandato almeno un segnale. Alla fine il segnale è arrivato, ed è quello giusto. Il filo della psichiatria critica, ovvero della psichiatria capace di effettuare una riflessione su se stessa e sui propri fondamenti, in questo momento passa per tre punti : alcuni di noi veterani survivors, che hanno attraversato, non travolti, il mare delle ideologie, le tentazioni del potere, le semplificazioni mindless; i pazienti, che, come tu dici, ci deridono quando ci colgono fuori fuoco; e infine voi, alcuni di voi, quelli di voi che sentono che non è tutto, che non basta, che, in ultima analisi, la vita si accosta e si comprende solo con la vita. Se gli antichi Maestri avessero letto il tuo messaggio si sarebbero compiaciuti. Evidentemente non tutto è distrutto. E se non tutto è distrutto, dalle macerie del Novecento, di cui noi, io e te e gli altri, siamo gli ultimogeniti, qualcosa si può ricostruire. Dunque teniamoci in contatto e sentiamo sulle nostre spalle tutta la responsabilità di cogliere e di trasmettere quell'umanità che solo dalla devastazione mentale trapela. Quell'umanità che l'attuale psichiatria di superficie non è in grado di sentire. Grazie di essermi venuta in soccorso, di aver rotto un atavico senso di solitudine, di aver parlato a nome di altri che sono con te, che tu hai incontrato, di cui percepisci l'irriducibile passione per l'esistenza.

come editor non posso che augurarmi che altri giovani come Raffaella vogliano postare un loro commento.
Una rivista on line VIVE dell'interazione coi suoi lettori e in casi come questo i commenti e il dialogo rappresentano DAVVETO un valore aggiunto per tutti i lettori
per cui.. CORAGGIO DITE LA VOSTRA!!!!!!!!!

Caro Di Petta, penso che per te (mi permetto il tu, perché il discorso scorre meglio, ma anche perché ti sento vicino nel pensare e nell’essere), non avere gradi e riconoscimenti da tale mondo, ti abbia evitato (ma tu avresti comunque declinato tutto ciò e quindi ragioniamo per assurdo) di essere parte della loro bugia e di legittimarla.
E quindi, proprio questa mancanza di medaglie è il segno della tua “gloria”.
Lascia pure parlare di battaglia i generali che non sono mai stati al fronte; lascia che si rendano ridicoli presso quelli che sono stati e stanno in trincea.
Sarà soprattutto il personale non medico a riconoscerli come impostori, le cui carriere sono state costruite su motivazioni e/o scelte utilitaristiche e narcisistiche e sulla collusione con un mondo “uniforme, monotono e vuoto, riduttivo e sterile”.
Ma penso che i primi loro censori siano le loro coscienze o, se l’hanno smarrita, il loro inconscio.
Caro Di Petta, cosa sarà di loro quando, alla fine delle loro carriere, si volgeranno indietro?

Questo grande male... da dove proviene? Come ha fatto a contaminare il mondo? Da che seme, da quale radice è cresciuto? Chi ci sta facendo questo? Chi ci sta uccidendo, derubandoci della vita e della luce, beffandoci con la visione di quello che avremmo potuto conoscere? La nostra rovina è di beneficio alla terra, aiuta l'erba crescere, il sole a splendere?

Su tali domande, sarà molto alto il rischio, per loro, di capire, quando magari sarà tardi, che a tutto ciò, hanno contribuito anche loro.

Per quanto riguarda la domanda che tu poni alla fine, ti dirò che ai genitori di un figlio schizofrenico, che va da uno psicanalista freudiano, due volte alla settimana, sdraiato sul lettino, senza che i loro occhi si incontrino mai durante la seduta, e che mi hanno chiesto se ciò sia produttivo per il loro figlio, per correttezza deontologica non ho risposto, ma ho consigliato loro di leggere Gilberto Di Petta (libri e articoli) e vedere e ascoltare i tuoi video su Psychiatry On Line.
Come vedi, non è solo il mondo della psichiatria in crisi, ma il mondo intero: ma, proprio per questo, vai avanti, nel buio e nella notte, per illuminarla come sai fare tu e confidando che, alla fine, “Adda passà 'a nuttata!”

Con affetto, Stefano De Luca

Caro Stefano ti ringrazio della tua attenzione e sensibilità, e approfitto per ringraziare i numerosi autori di commenti che mi stanno pervenendo in via privata. L'impressione è quella di aver squarciato un velo su un sentimento comune, da molti non esplicitato. Se la forza di questa condivisione riesce a tradursi in un movimento per modificare la prassi e la didattica della nostra disciplina, allora le vicissitudini di questa via crucis che ci riguarda tutti (insieme ai nostri pazienti) non sono vane. Personalmente sono veramente sorpreso di scoprire che certi dilemmi non appartengono solo ad un mio dramma personale ed intimo, ma concernono il quotidiano di ognuno di noi. Credo molto nei giovani e nella loro capacità di non rassegnarsi. Credo molto nella saggezza degli anziani. La tue parole sulla possibilità di una consapevolezza, benchè tardiva, ma non meno dolorosa, come ogni consapevolezza deve essere, mi incoraggiano molto. Grazie. A te e a tutti.

la mia impressione come Editor della rivista non è solo quella di proporre contenuti ben scritti ma pure quella di parlare di cose che tanti pensano ma non hanno la possibilità di esplicitare.
In questo senso i numeri incredibili che sta facendo questo contributo spero sollecitino un dibattito qui su queste pagine tra i lettori registrati che possono appunto pubblicare la loro opinione allargando e approfondendo le tematiche proposte.

verso 38000


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