Percorso: Home 9 180X40 - Quarant anni della Legge Basaglia 9 RECENSIONE: L’ascolto gentile di Eugenio Borgna.

RECENSIONE: L’ascolto gentile di Eugenio Borgna.

24 Mar 18

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NDR: Il volume sarà presentato a Genova dall'autore , presso la Sala dei Chierici della Biblioteca Berio, il 9 maggio alle 17.30 nell’ambito della manifestazione 180 x 40.

Eugenio Borgna ritorna a occuparsi della relazione di cura con il libro L'ascolto gentile. Racconti clinici, che nasce dall'incontro, lungo la sua lunga vita di psichiatra, con alcune donne sofferenti per la depressione – dal male di vivere che può essere esperienza di tutti in certe fasi, fino allo spegnersi completo dei sentimenti o al suicidio – o la schizofrenia.
I due concetti richiamati nel titolo sono quelli intorno ai quali tutto ruota, le due parole chiave direi.
Il primo è “ascolto”, cioè apertura all’altro, disponibilità a dargli tempo e presenza. Una presenza che può essere fatta di parole, e può essere anche silenziosa; ma mai improntata a «noncuranza e disattenzione, impazienza e indifferenza» (p. 140).
E’ difficile. Ma potrà esserlo un po’ meno se avremo la possibilità di  contare sempre su dimensioni e numeri piccoli, seguendo il ritmo necessariamente lento dell’incontro tra persone. Il che richiama alle loro responsabilità anche politici e amministratori che definiscono il contesto del nostro operare; ma non deve comunque diventare un alibi, rispetto alle nostre.
Personalmente mi sono sempre più convinto negli anni che la prognosi di un mio paziente è correlata anche al tempo e all’attenzione che ho la possibilità, la capacità e la volontà di dedicargli. Al tempo e alla qualità dell’ascolto che sono in grado di mettergli a disposizione e alla gentilezza, anche, della quale sono capace nella relazione. Nel potere trasformativo di questi strumenti ho imparato ad avere fiducia, e concordo perciò pienamente con quanto questo libro sostiene.



Il secondo concetto è “gentilezza” – una gentilezza antica dice Marco Speroni nel video qui allegato, ma forse oggi ogni gentilezza è antica – ed è un termine al quale l’Autore associa nelle diverse occasioni umanità, tenerezza, mitezza, delicatezza, discrezione. E certo l’idea di richiamare la necessità di essere gentili in psichiatria può apparire banale – per quale professione d’aiuto si raccomanderebbe un atteggiamento sgarbato? – ma invece non lo è.
Non lo è se si guarda alla storia della psichiatria e del suo rapportarsi al paziente. Che è una storia tragicamente caratterizzata da straordinari episodi di generosità, certo, ma anche immense violenze istituzionali e piccole violenze quotidiane che sono anche nell’esperienza di ciascuno di noi. E la differenza tra questa storia come ce la raccontiamo e come la raccontano organizzazioni critiche verso di noi – o addirittura ostili, come ad esempio Scientology – mi pare che stia soprattutto nel mettere l’accento sui primi, o le seconde.
Non è affatto inutile quindi raccomandare agli psichiatri (agli operatori psichiatrici) di essere gentili. E viene in mente il Levi Bianchini giovane medico in Congo, quando identificava nell’immenso potere cui era abituato il colono rispetto all’indigeno il principale fattore di rischio per lo sviluppo in lui di un sé ingiustificatamente grandioso. E per nulla gentile. Analogo rischio, infondo, corre lo psichiatra (l’operatore psichiatrico) di fronte al paziente.
E d’altronde, John Conolly non identificava infondo già nel 1856 in “gentilezza e attenzione” i due ingredienti fondamentali del suo Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi? 
Una psichiatria gentile è perciò anche, sicuramente, una psichiatria che non si sente in diritto di legare, e questo Borgna lo ha recentemente argomentato nell’appassionata e convinta prefazione a un testo coraggioso e importante di Giovanna del Giudice sul tema.
Ma il libro è ricco di infinite suggestioni; impossibile raccoglierle tutte nello spazio di una recensione. Perciò, mi limiterò al filone principale che lo percorre, quello segnato dal ridondare lungo le pagine delle due parole espresse nel titolo, appunto.


A partire dall’idea che: «La linea segreta di ogni psichiatria umana e gentile dovrebbe  essere la disperata attenzione a cogliere i significati della sofferenza che (…) si nascondono in noi e negli altri, gli altri che stanno male in particolare. Senza la ricerca ardente e febbrile dei valori e dei significati che si animano nella nostra interiorità, e in quella degli altri, la psichiatria non può giungere a cogliere le radici profonde del dolore dell’anima e del dolore del corpo» (p. 5). O anche che una psichiatria gentile non può prescindere dal considerare il vissuto soggettivo del tempo e dello spazio – quello proprio e quello dell’altro – perché: «ogni incontro dialogico ha come sua premessa una distanza morbida e flessibile che eviti sia una debordante vicinanza, una divorante empatia, sia una astratta lontananza, che sarebbe vissuta come glaciale indifferenza. Sbagliare in questa scelta è assai pericoloso (…) e solo le misteriose sonde della conoscenza emozionale, della intuizione, ci consentono di avvicinarci alla natura profonda delle cose: alla loro dimensione interiore e segreta» (p. 55). O di rimanere, con discrezione, alla giusta distanza, come in una magica danza nella quale l’arte sta nel trovare, momento per momento, il punto d’equilibrio.  
Perché l’ascolto gentile può essere anche fatto di silenzio, un silenzio aperto alle parole delle quali l’altro vorrà farci dono o al bisogno di silenzio che a sua volta il suo silenzio esprimerà. Ma ricordandoci anche di quanti – adolescenti soprattutto – si lamentano a volte con noi: «non voglio più andare dal dottor X., sta sempre zitto e io non so cosa fare!». Perché anche il silenzio qualche volta può non essere gentile, e allora bisogna evitarlo.
Ma quando l’ascolto gentile è fatto anche di parole, non sono mai parole banali, gettate lì; ma preziose, attente, ricercate (talvolta sussurrate), come quelle che la grande poesia – e anche quella piccola, che non è destinata a un pubblico maggiore di noi stessi o qualche amico – ci dona. Perché, scrive Borgna: «la psichiatria ha bisogno della poesia se vuole guardare negli abissi insondabili della interiorità: in quella di chi cura, e in quella di chi è curato, nella loro infinita reciprocità» (p. 9). E anche: «le parole, si sa, queste creature viventi, queste prigioni sigillate dal mistero, questi pozzi artesiani, sono labili ed effimere, impalpabili e fugaci, ma, sia pure spegnendosi nel momento in cui sono dette, con le loro imprevedibili risonanze possono sfidare l’oblio, il drago dell’oblio, che talora sarebbe un salvagente fragile, e nondimeno salvifico» (p. 39).
Non si potrebbe esprimere meglio il valore prezioso delle parole – quelle dell’uno e quelle dell’altro – che con l’eleganza e la pienezza di queste parole che Borgna ci dona, appunto. Anche quando scrive, echeggiando Emily Dickinson: «Una parola muore / appena è detta / dice qualcuno – / Io dico che comincia / appena a vivere / quel giorno».
E assistiamo così, di pagina in pagina, al divenire le parole “creature viventi”, “prigioni sigillate del mistero”, e alternativamente “arcobaleni di attese e di speranze, o soglie pietrificate dal dolore e dall’indifferenza”. O ancora, parole “sincere che nascano dal silenzio del cuore, parole leggere e profonde, trasparenti e luminose, tenere e arcane”,  parole che curano e alimentano la speranza che, ogni volta, devo andare a “rintracciare negli abissi della mia interiorità” perché lascino «sgorgare dalla memoria del cuore dei pazienti le immagini dei loro desideri e delle loro illusioni, delle loro attese e delle loro speranze, che senza queste parole non giungerebbero alla luce del senso» (p. 137). Parole che ci aiutino, dunque, a «riconoscere le ombre della fragilità e del dolore, della tristezza e dell’angoscia, della nostalgia e della disperazione, che gridano nel silenzio alla ricerca d’aiuto» (pp. 138-139).
Dell’ascolto gentile e attento delle parole così intese dell’uomo, è la condizione umana a renderci tutti bisognosi. Ma il bisogno aumenta con l’esperienza del «mistero della malattia, dei suoi cambiamenti talora imprevedibili, ma sempre possibili» (p. 126). Una malattia che può portare al punto in cui: «cambia la fisionomia del mondo, e viene meno anche la certezza che il mondo esista; ma ancora, e ancora più radicalmente, si inaridisce la vita emozionale. Nulla sembra dare un senso alla vita, e non sono più possibili relazione umane significative: una barriera tiene lontana Anna dagli altri, e anche dai suoi figli» (p. 62).
All’origine di queste pagine preziose, nelle quali potrei dire che non una riga sia di troppo, mi è parso di cogliere il tentativo di rispondere a due esigenze.
La prima credo sia un’esigenza – dopo tanti  anni di esperienza clinica e di ascolto del dolore di uomini e di donne –  di pacificazione, col ritornare con le emozioni a quella che è stata per l’Autore, come per molti di noi del resto, l’esperienza più dura del lavoro psichiatrico: il suicidio del paziente. Che ci fa sbattere contro il limite, e talvolta anche contro la possibilità di avere irreparabilmente commesso l’errore, che è il rischio che inevitabilmente accompagna ogni opera umana. E’ un’esperienza che turba e rimane dentro, inevitabilmente; e mi ha fatto piacere constatare come Borgna non si faccia problemi a esprimere dubbi, con il garbo consueto, su un atteggiamento forse troppo fatalista (inconsapevolmente autoprotettivo? viene quasi automatico pensare) di Binswanger – un autore che pure rappresenta uno dei suoi riferimenti più costanti – sul suicidio di Ellen West. Perché la perplessità di Borgna è la stessa che ricordo di avere provato anch’io, di fronte a quel passaggio dell’esposizione del celebre caso.
Viviamo comunque, a volte, situazioni nelle quali teniamo lungamente (mesi, a volte anni) l’altro per mano – senza la possibilità di lasciar cadere la tensione, distrarci – sul ciglio dell’abisso: «forse mai in vita ho trascorso mesi e mesi simili, sulla scia dell’angoscia che l’indomani, o nella notte, Francesca non sfuggisse al fascino stregato della morte possibile» (p. 143). Come non ritrovarsi in questa esperienza!
La storia professionale di ciascuno di noi, voltandoci indietro negli anni, è fatta dunque anche di abissi di tristezza come è stato per il nostro collega quello vissuto in occasione del suicidio di Margherita, sul quale generosamente ha scelto qui di ritornare rendendo così pubblici – ed è sempre difficile farlo – il proprio sgomento e i propri sentimenti inevitabilmente in relazione con la colpa; e insieme, per fortuna, di momenti di assoluta luminosità e di gioia immensa come è stato, in questo caso, l’essere testimone e partecipe del riaprirsi e rinascere alla vita e alla speranza di Maria Teresa.
Tali, sembra dirci quindi Borgna, sono le ombre e le luci di un lavoro che, comunque, mi pare che continui ad appassionarlo.
L’altra esigenza alla base del libro mi sembra un passaggio preoccupato, ma anche fiducioso infondo, di testimone a noi che proseguiamo, come ne siamo capaci, il lavoro millenario della cura.
Quasi l’Autore ci stesse affidando, idealmente, le vite di questi pazienti (i suoi, i nostri) che si rivolgono alla psichiatria: verso i quali ci raccomanda, e lo ribadisce infinite volte in queste pagine come se proprio volesse essere certo che il messaggio arrivi, soprattutto un ascolto gentile, appunto. Un ascolto fraterno, azzarderei, se deve essere consapevole del fatto che «il dolore, il dolore che si accompagna a ferite sanguinanti, non sempre visibili, dell’anima, fa parte della vita di chi è curato, ma non dovrebbe nemmeno essere estraneo alla vita di chi cura» (p. 125). E così essere accanto, in ascolto, di fronte al dolore che curiamo, significa anche essere in contatto con la nostra esperienza del dolore, senza esserne del tutto sopraffatti ma senza, neppure, sfuggirla.
Io non so se questo ascolto gentile, sulla cui importanza tanto insiste Borgna, possa essere correlato alla guarigione, o alla riabilitazione, con quelle modalità evidence based dalle quali sono così affascinati, di questi tempi, alcuni di noi. Che altro non vedono e ad esse severamente richiamano. Così come non so se possa esserlo l’”essere insieme” che costituisce l’obiettivo modesto e semplice di tante delle nostre pratiche riabilitative o – orribile a dirsi – anche d’intrattenimento. Credo però che  l’uno e l’altro – l’ascolto gentile e l’essere insieme – possano a volte attenuare i morsi di quella condizione desertica di solitudine nella quale non dobbiamo dimenticare che vivono molti dei nostri pazienti, migliorando così la loro vita (la qualità della vita, se vogliamo). E anche di fare sentire e vivere meglio comunque le persone, oltre che di guarirle – e si potrebbe discutere a lungo su cosa ciò significhi – credo che noi dobbiamo occuparci.
Se davvero, dunque, l’Autore intende trasmettere in questo libro la traccia di vicende umane e non solo cliniche che «dicano qualcosa della psichiatria, dei suoi problemi, delle sue possibilità e delle sue impossibilità, dei suoi ideali e delle sue illusioni, delle sue attese e delle sue speranze» (p. 104); beh, mi pare che ci sia riuscito senz’altro. E sì, mi piace che ricordi qui anche le illusioni, perché anche le illusioni – proprio quelle illusioni delle quali considero pericoloso decretare con disincanto la fine, perché una psichiatria che non sia capace di coltivarle con amore e tenerle vive rischia di essere triste e sterile – animano le nostre pratiche. Che avvertiamo a tratti così straordinariamente potenti e a tratti così delicate e fragili; a volte così cariche di soddisfazione e a volte di amarezza.
Questa straordinaria lezione di pratica della psichiatria, noto in conclusione, è com’era da aspettarsi impreziosita da infinite suggestioni tratte – come ci ha abituato quest’autore quando abbiamo la fortuna di poter ascoltare o leggere le sue parole – dalle pagine umanamente più belle che la psichiatria abbia scritto lungo la sua storia; e cito per tutti il Caso Ellen West  di Binswnger, o il Caso di Elena di G.E. Morselli. E anche da quelle che l’uomo in generale ha saputo scrivere sulla propria esperienza del dolore, da poesie e testi cioè di Emily Dickinson, Giacomo Leopardi, Friedrich Holderlin, Hugo von Hoffmansthal, Soren Kirkegaard, Cesare Pavese, Rainer Maria Rilke, Nelly Sahs, Georg Trakl, Simone Weil. E anche di Margherita poi, una delle protagoniste di questi racconti clinici tanto palpitanti di umanità che alla fine ci pare di averle anche noi realmente incontrate. O la cui vicenda ci ricorda alla lettura altre vicende, volti, emozioni che ci appartengono.
Mi sono reso conto che, nei giorni nei quali leggevo L’ascolto gentile, mi è capitato di mettere più attenzione, disponibilità e pazienza nel lavoro; di ascoltare cioè di più e con più gentilezza le parole che l’altro (il paziente) mi rivolgeva. E, fosse anche solo a questo, evidentemente questa lettura a me è servita, e qualcosa in più del fare psichiatria è riuscita a trasmettermi.
Sarà poi forse necessario, periodicamente, qualche richiamo.
 
 

 

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