Correva il mese di marzo 1968 quando Einaudi dava alle stampe nella collana “Il nuovo politecnico” il volume L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico curato da Franco Basaglia. Si trattava della seconda pubblicazione monografica dell’équipe di Gorizia, ma la prima, Che cos’è la psichiatria?[i], edita dall’Amm.ne Prov.le di Parma, non doveva fino ad allora aver avuto diffusione molto ampia. Sarebe stata poi riproposta da Einaudi. Invece questa volta l’impatto fu enorme: enorme sul mondo della psichiatria, enorme sulla società dove il vento del ’68 avrebbe incominciato di lì a qualche mese a soffiare impetuoso, e bene hanno fatto Valeria Paola Babini e John Foot, gli storici che si sono maggiormente interessati a quel periodo della psichiatria italiana, a sottolinearlo.
Che il libro si desse ampi orizzonti, ben al di là dell’ambito delle cose psichiatriche, Basaglia non lo nasconde fin dall’incipit: «la polemica al sistema istituzionale esce dalla sfera psichiatrica, per trasferirsi alle strutture sociali che lo sostengono, costringendoci a una critica della neutralità scientifica, che agisce a sostegno dei valori dominanti, per diventare critica e azione politica» (p. 7).
Ed esso ebbe infatti un impatto forte anche in questo senso; ma non voglio qui occuparmi di questo, rimandando invece ai due testi citati per l’impatto de L’istituzione negata sulla società italiana.
Per parte mia, mi interessa indagare invece su cosa questo libro oggi, 50 anni dopo, ha da dire all’operatore psichiatrico. E rileggendolo da questo punto di vista mi pare sorprendentemente molto; al punto che credo sia da lì che bisogna ancora partire, per lavorare in psichiatria oggi. E che, forse, occorrerebbe a tutti per lavorare nella psichiatria della 180 leggerlo almeno due volte. La prima, per prenderci confidenza, e subirne anche un po’ il fascino. La seconda, per cominciare a capirci qualcosa.
Perché per essere un libro facile, non lo è. E per essere strano, sì, è un libro strano, a cominciare da come è costruito.
Si apre infatti con una serie di interviste e di verbali di riunioni ed assemblee. E i primi a prendere la parola sono loro, i matti. Quelli he prima non parlavano mai nei libri di psichiatria, se non come “casi clinici” per dimostrare quanto e come si poteva esser matti. Ed è già questa una rottura, un’eccezione. E si scopre che anche i matti hanno molte cose da dire, tra l’altro sulla dinamica dentro/fuori, la possibilità di uscire dai reparti e poi la contenzione fisica, il lenzuolo bagnato a togliere il respiro, le gabbie intorno ai letti, cose che venivano usate correntemente nei manicomi, ma delle quali si parlava poco nei congressi e sui libri, pur con qualche eccezione sì, degna di nota[ii]. E poi si interrogano su cosa cura davvero; se sono le medicine, orse l’elettroshok, o se a curare non è proprio anche questo nuovo senso di libertà che il nuovo metodo consente.
Segue una breve descrizione del nuovo metodo e poi, dopo i primi malati, l’intervista col direttore, Basaglia. Che, tra l’altro, chiarisce qui alcuni degli aspetti più originali e più noti del metodo. A partire da cosa significhi mettere tra parentesi la malattia, per confrontarsi con la persona come essa è. Il che non è, parrebbe, negare la malattia, come faceva in quegli anni tanta antipsichiatria alla Thomas Szasz, per intenderci; piuttosto, sembra qualcosa che ha a che fare con la riduzione fenomenologica, uno sforzo di andare al cuore delle persone come delle cose, di far sì che la diagnosi psichiatrica – ma anche il mandato sociale, il ruolo, e ogni schema rigido e predefinito – non occulti molto più che rivelare, come già Jaspers aveva sostenuto in un passaggio assai noto della Psicopatologia generale.
E non si tratta di un problema di parole, e vengono in mente taluni che, con anglosassone semplicità, oggi vorrebbero abolire il termine schizofrenia, ad esempio, per sostituirlo con un altro meno carico di aspetti e aspettative negativi. Ma che rimanderebbe pur sempre a una diagnosi che, se non si muta l’atteggiamento di fondo, finirà ugualmente per occultare. No, mi pare che qui si tratti d’altro. Si tratta di evitare che la definizione diagnostica della persona, qualunque sia il termine usato, porti a considerare a priori ogni sua parola priva di valore e di senso perché comunque è considerata ineludibilmente condizionata, distorta, falsificata dalla malattia. A ritenere che la parola di una persona affetta dalla malattia cessi di poter essere parola della persona e sia sempre e comunque parola della malattia, cioè parola da buttare o da assumere, al più, come sintomo d’interesse esclusivo per la psicopatologia. Si tratta di evitare, insomma, che la persona sia ammutolita dalla/nella diagnosi, che fa sì che la sua parola non trovi ascolto se non per essere classificata, a prescindere, come sintomo: «è necessario avvicinarsi a lui mettendo tra parentesi la malattia, perché la definizione della sindrome ha assunto ormai il peso di un giudizio di valore, di un etichettamento che va oltre il significato reale della malattia stessa. La diagnosi ha il valore di un giudizio discriminante, senza che con ciò si neghi che il malato sia in qualche modo malato (…). Ciò che importa è prendere coscienza di ciò che è questo individuo per me, qual è la realtà sociale in cui vive, qual è il suo rapporto con questa realtà» (p. 32). Per fare questo, la malattia deve essere messa tra parentesi.
Anche perché l’individuo, così ammutolito, è «una persona senza diritti, nei confronti della quale tutto è possibile» (p. 33). E tutto, in effetti, ci si permessi nella storia.
Di qui si passa al verbale di un’assemblea che vede presenti pazienti e membri dello staff, e a questo proposito mi pare necessaria un’osservazione. I verbali di assemblee e riunioni sono presenti tanto in Che cos’è la psichiatria? che in questo testo; e non è, se ci pensiamo, una cosa comune. Ma perché Basaglia riteneva tanto importante rendere pubblici brani di assemblee e di riunioni, e non si accontentava, come si a per lo più, di pubblicarne l’esito. Beh io credo che questo gusto per il momento della discussione sia rivelatore di una questione di metodo; perché se ci si limitasse, come di solito accade, a riportare ciò che l’assemblea ha concluso, si perderebbe tutto quello che le singole persone hanno detto, vedendo ciascuno dal suo punto di vista la questione; ed è proprio questa pluralità di voci, invece, che a Basaglia interessa – la pluralità dei punti di vista e delle possibili soluzioni immaginate ai problemi – molto più che non la decisione che alla fine sarà stata adottata, decisione che riguarda quel momento e quella particolare situazione e non ha, perciò, interesse generale.
In quest’assemblea, vediamo emergere le questioni che in quel momento agitano la comunità che sta conducendo quell’esperimento di apertura. Come la dialettica tra aspirazione all’autonomia e desiderio di protezione, le questioni specifiche legate al controllo dell’alcoolismo, alla disponibilità di denaro, alle gite che si vorrebbero fare, al problema dei furti che tormenta sempre la vita di ogni grande o piccolo gruppo umano. E a seguire la riunione che vede presenti soltanto medici e infermieri a discutere i problemi di chi, dimesso con soddisfazione un gruppo di malati, vive ora con frustrazione i risultati meno brillanti della presa in carico di altri, più a rischio di cronicità dei primi. Il momento eroico delle dimissioni facili dell’inizio è passato, insomma; e quanto più la costruzione dei risultati è lenta, tanto più è facile perdersi d’animo e rassegnarsi alla cronicità. E si parla poi del lavoro dei malati, del suo significato dentro e fuori l’asilo (pp. 58-69).
A Gorizia i medici abitano l’ospedale entrando nei reparti, che non sono più interamente delegati agli infermieri (p. 184), e lì si immergono quotidianamente nella loro realtà, il rumore, l’odore. Non era scontato, questo: esisteva per lo più una prossemica precisa negli asili, che ebbi modo ancora di osservare durante una delle mie esperienze nell’ex OP, fine anni ’90. I medici che si raccoglievano in genere negli spazi amministrativi, lontano dal disordine e dalla puzza dei reparti, e vi intervenivano solo a chiamata; gli infermieri che stavano sì nei reparti, ma spesso si ritiravano in spazi loro riservati lasciando la custodia dei malati più gravi a quelli più affidabili e limitandosi a brusche e (chissà poi perché?) sempre accelerate e affannate irruzioni in corrispondenza della sveglia, i pasti, le distribuzioni dei farmaci, la messa a letto oppure di qualche incidente.
Il fatto che il medico scegliesse di passare lungo tempo nel reparto era già in sé un fatto eversivo dell’ordine dato. Era destinato a destava negli infermieri e nei ricoverati meraviglia, spesso una sensazione di piacere e di sentirsi importanti, li metteva a loro volta in moto. A volte, da parte di qualcuno nello staff, veniva avvertito anche come fastidiosa e quasi offensiva ingerenza.
Ed è frutto di questa osservazione da vicino, nel campo, di quei medici, ad esempio, l’osservazione di Pirella che quando si fa uno sforzo particolare per concentrare l’attenzione su un reparto, i risultati arrivano. (p. 62). Che l’investimento di tempo e attenzione, insomma paga, anche nelle situazioni che paiono destinate a farsi croniche. O anche la pagina interessantissima nella quale ancora Pirella espone un fenomeno tipicamente manicomiale, del quale sono stato a mia volta testimone, l’esistenza di una gerarchia tra i ricoverati che si esprime nel raccogliere la cicca, via via verso quello che ha meno risorse e meno potere, e la raccoglie quando è diventata più breve. O ancora le tante osservazioni sul lavoro, un tema che, legato alla distribuzione del reddito, ritorna in continuazione. .
Poi riprendono le interviste; con Jervis si discute del significato delle riunioni e della posizione, sempre troppo ingombrante rispetto a quanto sarebbe opportuno, del medico. E sarà un caso, ma nel reparto dove oggi lavoro mi scontro ad ogni riunione con questo problema: se c’è il medico, occupa di per sé spazio, condiziona e tutti tendono a rivolgersi a lui. Letizia Jervis racconta del suo sforzo di costruire come in un laboratorio sperimentale un ruolo dello psicologo nell’istituzione, che non ceda alla tentazione di sposare una tecnica diversa certo da quella del medico ma non necessariamente meno oggettivante (p. 69). E credo che molti colleghi psicologi oggi, nei servizi, dovrebbero riflettere sul senso di questa sfida. La differenza tra il vecchio e il nuovo al momento dell’accoglienza all’ingresso è chiara nelle parole dell’infermiere Troncar (p. 75) e non c’è tanto più fatica, ma più responsabilità nel reparto aperto rispetto a quello chiuso nelle parole della suora, perché adesso che i malati sono più liberi bisogna “starci molto più dietro” (p. 77). E poi adesso che oltre che più denaro oltre che più libertà sono meno volenterosi, si godono il bar, la compagnia, le gite ed è più faticoso convincerli a lavorare e non bighellonare (p. 80). Tutti sono chiamati a dire la loro, insomma; e anche questa è una delle cose che rendono singolare questo testo. Così riprendono le interviste a loro, ai malati[iii]: con Furio che coglie la gradualità con la quale l’esperimento è stato condotto: «io credo che il direttore, anche se aveva la convinzione scientifica che andavano tolti certi ceppi di carattere istituzionale dall’ospedale, però anche per lui era un’esperienza nuova e doveva sperimentare il metodo se andava; visto che i risultati erano stati positivi allora si è incominciato proprio a liberalizzare» (p. 89). Un esperimento da verificare giorno per giorno: di questo, dunque, si tratta.
E non è proprio strano, per un libro di psichiatria, che sia il malato a proporre ipotesi sui processi mentali seguiti dal direttore?
Emerge ancora, nelle parole di Fulvio, la questione della differenza di fondo nel modo fare parte della comunità tra ricoverati e staff, e dell’invidia che inevitabilmente questo genera nei primi verso i secondi, ed è un tema importante sul quale, forse, oggi troppo spesso sorvoliamo: «per il malato sia il medico, sia gli infermieri vengono ritenuti sempre delle persone privilegiate per il solo fatto che finito il loro turno e il loro lavoro possono uscire, andare a casa, andare fuori, perché quasi sempre questo è il sottofondo e viene a galla. Lei è qui praticamente otto ore dopo se ne va; c’è questa differenza di situazione che crea questo senso d’inferiorità» (p. 106). Parole saggissime, trovo, perché è questo dato di fatto che concorre a rendere l’appartenere alla comunità dell’operatore sempre in sé inevitabilmente incompleto, non del tutto autentico, e a generare inevitabilmente un’invidia che “sta nel sottofondo”, ed è imbarazzo per chi la prova e fardello pesante e scotomizzato per chi ne è oggetto. Noi operatori siamo, infondo, avamposti della ”società” nei luoghi della malattia e della miseria; siamo in questi, ma continuiamo ad appartenere a quella. E questo confronto, a rifletterci, non può non giocare, nel momento in cui cominciamo a considerarci tutti esseri umani, inevitabilmente nella relazione. Credo che occorrerebbe tenerlo più presente, con la chiarezza con la quale questo malato ce lo espone; anche perché a volte credo che questo elemento abbia giocato più di quanto si pensi nell’evolvere della relazione tra operatore e malato in modo tragico.
Nella critica alla comunità terapeutica di Franca Basaglia, poi ancora, appare chiara la consapevolezza del rischio che corre in quel momento Gorizia; trasformarsi in una istituzione psichiatrica bella, pulita, anche libera abbastanza, senza prospettive reali di evoluzione per i suoi malati. E qui mi fermerei per ora; ce n’è abbastanza mi pare su cui riflettere, in questo cinquantenario. L'articolo riprende il ragionamento sui saggi con i quali il volume prosegue: clicca qui per il link.
Che il libro si desse ampi orizzonti, ben al di là dell’ambito delle cose psichiatriche, Basaglia non lo nasconde fin dall’incipit: «la polemica al sistema istituzionale esce dalla sfera psichiatrica, per trasferirsi alle strutture sociali che lo sostengono, costringendoci a una critica della neutralità scientifica, che agisce a sostegno dei valori dominanti, per diventare critica e azione politica» (p. 7).
Ed esso ebbe infatti un impatto forte anche in questo senso; ma non voglio qui occuparmi di questo, rimandando invece ai due testi citati per l’impatto de L’istituzione negata sulla società italiana.
Per parte mia, mi interessa indagare invece su cosa questo libro oggi, 50 anni dopo, ha da dire all’operatore psichiatrico. E rileggendolo da questo punto di vista mi pare sorprendentemente molto; al punto che credo sia da lì che bisogna ancora partire, per lavorare in psichiatria oggi. E che, forse, occorrerebbe a tutti per lavorare nella psichiatria della 180 leggerlo almeno due volte. La prima, per prenderci confidenza, e subirne anche un po’ il fascino. La seconda, per cominciare a capirci qualcosa.
Perché per essere un libro facile, non lo è. E per essere strano, sì, è un libro strano, a cominciare da come è costruito.
Si apre infatti con una serie di interviste e di verbali di riunioni ed assemblee. E i primi a prendere la parola sono loro, i matti. Quelli he prima non parlavano mai nei libri di psichiatria, se non come “casi clinici” per dimostrare quanto e come si poteva esser matti. Ed è già questa una rottura, un’eccezione. E si scopre che anche i matti hanno molte cose da dire, tra l’altro sulla dinamica dentro/fuori, la possibilità di uscire dai reparti e poi la contenzione fisica, il lenzuolo bagnato a togliere il respiro, le gabbie intorno ai letti, cose che venivano usate correntemente nei manicomi, ma delle quali si parlava poco nei congressi e sui libri, pur con qualche eccezione sì, degna di nota[ii]. E poi si interrogano su cosa cura davvero; se sono le medicine, orse l’elettroshok, o se a curare non è proprio anche questo nuovo senso di libertà che il nuovo metodo consente.
Segue una breve descrizione del nuovo metodo e poi, dopo i primi malati, l’intervista col direttore, Basaglia. Che, tra l’altro, chiarisce qui alcuni degli aspetti più originali e più noti del metodo. A partire da cosa significhi mettere tra parentesi la malattia, per confrontarsi con la persona come essa è. Il che non è, parrebbe, negare la malattia, come faceva in quegli anni tanta antipsichiatria alla Thomas Szasz, per intenderci; piuttosto, sembra qualcosa che ha a che fare con la riduzione fenomenologica, uno sforzo di andare al cuore delle persone come delle cose, di far sì che la diagnosi psichiatrica – ma anche il mandato sociale, il ruolo, e ogni schema rigido e predefinito – non occulti molto più che rivelare, come già Jaspers aveva sostenuto in un passaggio assai noto della Psicopatologia generale.
E non si tratta di un problema di parole, e vengono in mente taluni che, con anglosassone semplicità, oggi vorrebbero abolire il termine schizofrenia, ad esempio, per sostituirlo con un altro meno carico di aspetti e aspettative negativi. Ma che rimanderebbe pur sempre a una diagnosi che, se non si muta l’atteggiamento di fondo, finirà ugualmente per occultare. No, mi pare che qui si tratti d’altro. Si tratta di evitare che la definizione diagnostica della persona, qualunque sia il termine usato, porti a considerare a priori ogni sua parola priva di valore e di senso perché comunque è considerata ineludibilmente condizionata, distorta, falsificata dalla malattia. A ritenere che la parola di una persona affetta dalla malattia cessi di poter essere parola della persona e sia sempre e comunque parola della malattia, cioè parola da buttare o da assumere, al più, come sintomo d’interesse esclusivo per la psicopatologia. Si tratta di evitare, insomma, che la persona sia ammutolita dalla/nella diagnosi, che fa sì che la sua parola non trovi ascolto se non per essere classificata, a prescindere, come sintomo: «è necessario avvicinarsi a lui mettendo tra parentesi la malattia, perché la definizione della sindrome ha assunto ormai il peso di un giudizio di valore, di un etichettamento che va oltre il significato reale della malattia stessa. La diagnosi ha il valore di un giudizio discriminante, senza che con ciò si neghi che il malato sia in qualche modo malato (…). Ciò che importa è prendere coscienza di ciò che è questo individuo per me, qual è la realtà sociale in cui vive, qual è il suo rapporto con questa realtà» (p. 32). Per fare questo, la malattia deve essere messa tra parentesi.
Anche perché l’individuo, così ammutolito, è «una persona senza diritti, nei confronti della quale tutto è possibile» (p. 33). E tutto, in effetti, ci si permessi nella storia.
Di qui si passa al verbale di un’assemblea che vede presenti pazienti e membri dello staff, e a questo proposito mi pare necessaria un’osservazione. I verbali di assemblee e riunioni sono presenti tanto in Che cos’è la psichiatria? che in questo testo; e non è, se ci pensiamo, una cosa comune. Ma perché Basaglia riteneva tanto importante rendere pubblici brani di assemblee e di riunioni, e non si accontentava, come si a per lo più, di pubblicarne l’esito. Beh io credo che questo gusto per il momento della discussione sia rivelatore di una questione di metodo; perché se ci si limitasse, come di solito accade, a riportare ciò che l’assemblea ha concluso, si perderebbe tutto quello che le singole persone hanno detto, vedendo ciascuno dal suo punto di vista la questione; ed è proprio questa pluralità di voci, invece, che a Basaglia interessa – la pluralità dei punti di vista e delle possibili soluzioni immaginate ai problemi – molto più che non la decisione che alla fine sarà stata adottata, decisione che riguarda quel momento e quella particolare situazione e non ha, perciò, interesse generale.
In quest’assemblea, vediamo emergere le questioni che in quel momento agitano la comunità che sta conducendo quell’esperimento di apertura. Come la dialettica tra aspirazione all’autonomia e desiderio di protezione, le questioni specifiche legate al controllo dell’alcoolismo, alla disponibilità di denaro, alle gite che si vorrebbero fare, al problema dei furti che tormenta sempre la vita di ogni grande o piccolo gruppo umano. E a seguire la riunione che vede presenti soltanto medici e infermieri a discutere i problemi di chi, dimesso con soddisfazione un gruppo di malati, vive ora con frustrazione i risultati meno brillanti della presa in carico di altri, più a rischio di cronicità dei primi. Il momento eroico delle dimissioni facili dell’inizio è passato, insomma; e quanto più la costruzione dei risultati è lenta, tanto più è facile perdersi d’animo e rassegnarsi alla cronicità. E si parla poi del lavoro dei malati, del suo significato dentro e fuori l’asilo (pp. 58-69).
A Gorizia i medici abitano l’ospedale entrando nei reparti, che non sono più interamente delegati agli infermieri (p. 184), e lì si immergono quotidianamente nella loro realtà, il rumore, l’odore. Non era scontato, questo: esisteva per lo più una prossemica precisa negli asili, che ebbi modo ancora di osservare durante una delle mie esperienze nell’ex OP, fine anni ’90. I medici che si raccoglievano in genere negli spazi amministrativi, lontano dal disordine e dalla puzza dei reparti, e vi intervenivano solo a chiamata; gli infermieri che stavano sì nei reparti, ma spesso si ritiravano in spazi loro riservati lasciando la custodia dei malati più gravi a quelli più affidabili e limitandosi a brusche e (chissà poi perché?) sempre accelerate e affannate irruzioni in corrispondenza della sveglia, i pasti, le distribuzioni dei farmaci, la messa a letto oppure di qualche incidente.
Il fatto che il medico scegliesse di passare lungo tempo nel reparto era già in sé un fatto eversivo dell’ordine dato. Era destinato a destava negli infermieri e nei ricoverati meraviglia, spesso una sensazione di piacere e di sentirsi importanti, li metteva a loro volta in moto. A volte, da parte di qualcuno nello staff, veniva avvertito anche come fastidiosa e quasi offensiva ingerenza.
Ed è frutto di questa osservazione da vicino, nel campo, di quei medici, ad esempio, l’osservazione di Pirella che quando si fa uno sforzo particolare per concentrare l’attenzione su un reparto, i risultati arrivano. (p. 62). Che l’investimento di tempo e attenzione, insomma paga, anche nelle situazioni che paiono destinate a farsi croniche. O anche la pagina interessantissima nella quale ancora Pirella espone un fenomeno tipicamente manicomiale, del quale sono stato a mia volta testimone, l’esistenza di una gerarchia tra i ricoverati che si esprime nel raccogliere la cicca, via via verso quello che ha meno risorse e meno potere, e la raccoglie quando è diventata più breve. O ancora le tante osservazioni sul lavoro, un tema che, legato alla distribuzione del reddito, ritorna in continuazione. .
Poi riprendono le interviste; con Jervis si discute del significato delle riunioni e della posizione, sempre troppo ingombrante rispetto a quanto sarebbe opportuno, del medico. E sarà un caso, ma nel reparto dove oggi lavoro mi scontro ad ogni riunione con questo problema: se c’è il medico, occupa di per sé spazio, condiziona e tutti tendono a rivolgersi a lui. Letizia Jervis racconta del suo sforzo di costruire come in un laboratorio sperimentale un ruolo dello psicologo nell’istituzione, che non ceda alla tentazione di sposare una tecnica diversa certo da quella del medico ma non necessariamente meno oggettivante (p. 69). E credo che molti colleghi psicologi oggi, nei servizi, dovrebbero riflettere sul senso di questa sfida. La differenza tra il vecchio e il nuovo al momento dell’accoglienza all’ingresso è chiara nelle parole dell’infermiere Troncar (p. 75) e non c’è tanto più fatica, ma più responsabilità nel reparto aperto rispetto a quello chiuso nelle parole della suora, perché adesso che i malati sono più liberi bisogna “starci molto più dietro” (p. 77). E poi adesso che oltre che più denaro oltre che più libertà sono meno volenterosi, si godono il bar, la compagnia, le gite ed è più faticoso convincerli a lavorare e non bighellonare (p. 80). Tutti sono chiamati a dire la loro, insomma; e anche questa è una delle cose che rendono singolare questo testo. Così riprendono le interviste a loro, ai malati[iii]: con Furio che coglie la gradualità con la quale l’esperimento è stato condotto: «io credo che il direttore, anche se aveva la convinzione scientifica che andavano tolti certi ceppi di carattere istituzionale dall’ospedale, però anche per lui era un’esperienza nuova e doveva sperimentare il metodo se andava; visto che i risultati erano stati positivi allora si è incominciato proprio a liberalizzare» (p. 89). Un esperimento da verificare giorno per giorno: di questo, dunque, si tratta.
E non è proprio strano, per un libro di psichiatria, che sia il malato a proporre ipotesi sui processi mentali seguiti dal direttore?
Emerge ancora, nelle parole di Fulvio, la questione della differenza di fondo nel modo fare parte della comunità tra ricoverati e staff, e dell’invidia che inevitabilmente questo genera nei primi verso i secondi, ed è un tema importante sul quale, forse, oggi troppo spesso sorvoliamo: «per il malato sia il medico, sia gli infermieri vengono ritenuti sempre delle persone privilegiate per il solo fatto che finito il loro turno e il loro lavoro possono uscire, andare a casa, andare fuori, perché quasi sempre questo è il sottofondo e viene a galla. Lei è qui praticamente otto ore dopo se ne va; c’è questa differenza di situazione che crea questo senso d’inferiorità» (p. 106). Parole saggissime, trovo, perché è questo dato di fatto che concorre a rendere l’appartenere alla comunità dell’operatore sempre in sé inevitabilmente incompleto, non del tutto autentico, e a generare inevitabilmente un’invidia che “sta nel sottofondo”, ed è imbarazzo per chi la prova e fardello pesante e scotomizzato per chi ne è oggetto. Noi operatori siamo, infondo, avamposti della ”società” nei luoghi della malattia e della miseria; siamo in questi, ma continuiamo ad appartenere a quella. E questo confronto, a rifletterci, non può non giocare, nel momento in cui cominciamo a considerarci tutti esseri umani, inevitabilmente nella relazione. Credo che occorrerebbe tenerlo più presente, con la chiarezza con la quale questo malato ce lo espone; anche perché a volte credo che questo elemento abbia giocato più di quanto si pensi nell’evolvere della relazione tra operatore e malato in modo tragico.
Nella critica alla comunità terapeutica di Franca Basaglia, poi ancora, appare chiara la consapevolezza del rischio che corre in quel momento Gorizia; trasformarsi in una istituzione psichiatrica bella, pulita, anche libera abbastanza, senza prospettive reali di evoluzione per i suoi malati. E qui mi fermerei per ora; ce n’è abbastanza mi pare su cui riflettere, in questo cinquantenario. L'articolo riprende il ragionamento sui saggi con i quali il volume prosegue: clicca qui per il link.
[ii] E’ il caso, ad esempio, dello psichiatra genovese Ernesto Belmondo, attivo a Padova, e del dibattito cui diede luogo la sua proposta di abolire la contenzione nei manicomi formulata al XII congresso della Società Freniatrica del 1904.
[iii] Per la ricostruzione della biografia dei malati che compaiono ne L’istituzione negata rimando al libro di John Foot, La repubblica dei matti.
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