Dei volumi che ci accingiamo a presentare nel ciclo di incontri Conoscere il passato per leggere il presente questo è l’unico a non essere stato edito l’anno scorso[i], ma lo abbiamo scelto perché ci pareva che non fosse possibile che in un evento dedicato alla Legge 180 da così tanti punti di vista non ci fosse uno spazio dedicato specificamente alla vita, all’opera e al pensiero di Basaglia. La sua biografia è ricostruita nel volume Franco Basaglia. Il dottore dei matti. La biografia di Oreste Pivetta, edito da Dalai nel 2012, che viene ultimo dopo altri, tra i quali quelli di Pierangelo Di Vittorio e Mario Colucci e poi il riuscitissimo film di Marco Turco trasmesso dalla RAI C’era una volta la città dei matti, la cui sceneggiatura con relativi DVD è stata pubblicata da Alhabeta Verlag di Merano. Molti altri ancora si sono occupati di aspetti particolari dell’opera e del pensiero di Basaglia, e il nostro testo riporta nel finale un’utilissima bibliografia di e su Basaglia. Tutto dovrebbe essere abbastanza noto, e lo affronterò quindi procedendo per spizzichi e bocconi cogliendo gli aspetti che mi hanno più stimolato.
Pivetta traccia la biografia di Basaglia intrecciandola con la riproposizione di alcune pagine centrali della psichiatria degli ultimi due secoli: dalla vicenda di Geel, all’opera di Pinel ed Esquirol, alle visite di importanti alienisti ai manicomi italiani nell’800, il lavoro di John Conolly contro la contenzione, la scoperta dell’elettroshock, ecc. Il libro si articola in sette capitoli e coglie gli aspetti centrali della biografia basagliana: il rapporto fondamentale con Franca, la breve carcerazione da studente per attività antifascista, il rapporto difficile da psichiatra/filosofo con un’università a forte orientamento biologista, e con i meccanismi istituzionali che ne regolano in ogni caso la vita: «avevo imparato molte cose della logica istituzionale, cioè avevo direttamente sperimentato come questa potesse distruggere una persona e come ci si potesse ammalare di sindrome universitaria» (cit. a p. 73). E’ quell’Università italiana che, nel decennio dalla metà degli anni ’60 alla metà degli anni ‘70, quando si costruirono le basi della Legge 180, sarebbe rimasta salvo rarissimi casi alla finestra (cfr. cit. a pp. 74-75). Quindi il ripiegamento su Gorizia e il rapporto con l’ospedale psichiatrico, un rapporto che è in primo luogo olfattivo, un odore di degrado delle persone e degli spazi (pp. 66-67). Ed è proprio vero: ricordo durante uno dei miei passaggi in manicomio l’abitudine di chiudere tutti i ricoverati per il tempo della pulizia delle stanze a chiave nel corridoio tra i due reparti uomo e donna. Alcuni erano incontinenti, lo spazio poco e l’odore diveniva in breve tempo irrespirabile. Ma chi li chiudeva era fuori, dentro solo i “malati”. E ricordo l’imbarazzo e lo scompiglio che portammo, nella visione elle cose di quegli infermieri, prendemmo l’abitudine con una giovane psicologa che lavorava lì con me di non interrompere i colloqui in quel momento, ma di chiedere di essere a nostra volta chiusi con i ricoverati con cui parlavamo per proseguirli. Ci accorgemmo che era un sistema antropologico, una visione del mondo a entrare in crisi; quello per cui ciò che era considerato ovvio per i malati, diventava di colpo inconcepibile se applicato a due persone “normali, anzi addirittura a due “dottori”. Poi ho fatto ancora in tempo a vedere malati messi, quasi abbaiando al loro indirizzo, in fila, come fa il cane pastore con la mandria, nudi per essere lavati con un getto d’acqua. Ho visto appaltare al malato più sano compiti di controllo dei malati meno autonomi che avrebbero dovuto essere dello staff, perché lo staff potesse passare qualche tempo tranquillo. Ho visto distribuire qualche sigaretta, senza parlarsi, alle ricoverate che da anni facevano le pulizie che avrebbe dovuto fare il personale. Con sconcerto, ripensavo alle pagine de L’istituzione negata, e scoprivo che, legge o non legge, dentro quei muri niente era cambiato. Una giovane OSS deve avermi letto, mio malgrado, quell’attimo di sconcerto sul viso, e ricordo il suo imbarazzo e dispiacere, la sorpresa: «Dottore, non dovevo farlo? Mi scusi, sa, qui abbiamo sempre fatto così». Nessuna malevolenza, assolutamente, nelle sue parole. Il manicomio, la routine che nasce quando un uomo non tanto si “crede” – ma influenzato dalla consuetudine piuttosto si “vive” – antropologicamente più uomo dell’altro uomo, o uomo in modo diverso, vinceva sulla legge. E’ per questi particolari della vita istituzionale al suo interno che non è azzardato paragonare, come fa Basaglia, il manicomio al lager con le caratteristiche di rapporti tra internati e tra guardie e internati che Primo Levi ha descritto. E’ ancora per essi che è possibile individuare in tutte le istituzioni della violenza, le istituzioni che nel loro essere totali umiliano la singolarità della persona – con Goffman e anche, per quanto riguarda l’universo coloniale, con Fanon – meccanismi comuni. Basaglia paragona quindi il manicomio al lager per come nel lager si vive; non intende certo, e sarebbe ingenuità davvero grande, accostare il manicomio ai lager per come in alcuni di essi soprattutto, i campi di sterminio, si muore. Crederlo sarebbe sì svalutare l’unicità di Auschwitz nella storia; e insieme invece perdere l’importanza che l’insegnamento di Primo Levi ha per l’analisi istituzionale del gruppo goriziano, sul quale insiste spesso Valeria Babini.
Così, Basaglia comincia il suo confronto con l’istituzione per negarla, e una delle sue capacità più straordinarie è quella di trovare alleati. A quegli infermieri, abituati da sempre a gestire masse umane come si trattasse di mandrie animali, riesce a restituire l’orgoglio e la dignità di cominciare a fare davvero gli infermieri. A quei malati, abituati a essere trattati da anni come corpi spogliati di ogni soggettività, oggetti sui quali è lecita qualsiasi sperimentazione, Basaglia riesce a restituire l’orgoglio e la dignità di essere persone. Di poter contare, di poter esprimere il punto di vista in assemblea; per questo l’assemblea è un momento tanto centrale in quei processi di riumanizzazione. Per questo la pratica che Basaglia inaugura si chiamerà “psichiatria” – il che è il contrario, mi pare, di antipsichiatria – “democratica”, il che rimanda insieme al suo stretto rapporto con la costruzione della psichiatria in Italia, e al fatto che in questa psichiatria deve pesare, molto, la voce del paziente. E a un lettore de Il piccolo che fa della facile e un po’ sciocca (mi permetto) ironia (cit. a p. 260), chiedendo se esista la “psichiatria antidemocratica” credo che potremmo rispondere sì, la storia della psichiatria è piena di esempi che lo dimostrano. E quando si chiede se esista una chirurgia alternativa che opera l’appendice a sinistra potremmo rispondergli che no, l’appendice è sempre a destra mentre alla malattia mentale la storia dimostra che ci sono tanti modi possibili di avvicinarsi.
Per Basaglia poi, insieme alla scoperta della questione antropologica dell’istituzione, c’è quella della povertà e dell’appartenenza di classe della maggioranza dei ricoverati. Così, anche la possibilità di possedere un comodino, di personalizzare la biancheria e gli abiti, di mangiare con la tovaglia, di chiudersi in bagno in quel luogo diventa terapia (pp. 135-136). E così la critica del manicomio diventa inevitabilmente, come anticipano le prime pagine de L’istituzione negata, critica del mondo fuori che il manicomio, insieme a tante altre cose ingiuste e disumane, produce. E’ di qui, dalla relazione ineludibile tra psichiatria e miseria – la miseria che il manicomio accoglie e quella che il manicomio produce – che nasce il rapporto fecondo tra Basaglia e i movimenti degli anni ’60 e ’70. E sono movimenti generosi, ai quali il dottore dei matti dimostra di volere profondamente bene e di guardare forse, pur nella differenza delle posizioni, con speranza. E lì, del resto, si formarono molti che poi diedero con il proprio lavoro corpo ai suoi progetti. Basaglia è consapevole di avere la responsabilità di una battaglia difficile dal cui successo o meno sarà il destino di migliaia di internati e intenandi a dipendere; per questo, il suo atteggiamento sul tema della tattica è a volte intransigente, e lo dimostra l’energia con la quale opera per far rientrare lo strappo in avanti di un’avanguardia del suo gruppo nel caso dell’occupazione illegale della Casa del marinaio a Trieste. Ma sa anche essere generoso e perdonare quando si tratta della sua persona e, nel loro convulso dibattersi nella ricerca della buona strada, accade che un gruppo di giovani dell’area di Autonomia intervenuti a contestarlo gli provochino accidentalmente l’incrinatura di qualche costola. In anni nei quali il grado d’isolamento e criminalizzazione dei movimenti era altissimo, sarà ben attento a non farne un dramma.
Ma, tornando indietro, nel frattempo Basaglia è stato nel 1964 a Londra, al I Congresso internazionale di psichiatria sociale; è un viaggio fecondo per diverse ragioni, che gli rivela la figura di John Conolly e la sua opera contro la contenzione nell’800 e gli consente di approfondire la conoscenza della comunità terapeutica, ma soprattutto perché è lì, di fronte al mondo, che espone la sua idea originale e pazzesca, un’idea che nessuno psichiatra aveva manifestato prima di lui, in una relazione che suona convinta e dirompente fin dal titolo: La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione (pp. 132-133). Non basta rimpicciolirlo, riformarlo, umanizzarlo come molti già avevano sostenuto: occorre distruggerlo. Poi in molti convergeranno, negli anni ’60 e soprattutto negli anni ’70 sulla sua posizione, dopo che ne avrà dimostrato la concreta realizzabilità a Gorizia e a Trieste, ma in quel momento è l’unico ad avere intravisto il fatto che una psichiatria senza manicomio è possibile, ed è anche necessaria perché il manicomio è l’ostacolo, e non lo strumento, della cura. L’esempio degli Stati Uniti aveva contribuito a convincerlo: non può crescere una nuova psichiatria, se dietro le sue spalle sopravvive il manicomio (pp. 202-203). Da allora non ammetterà deroghe: la distruzione del mostro diventa il suo primo obiettivo. Né potrà capire chi, come Giovanni Jervis, preferirebbe la scorciatoia di costruire il nuovo ignorando il vecchio e lasciando che il manicomio si esaurisca da sé con il suo carico di vite spogliate e sottratte. No: una psichiatria che nascesse da una tale rimozione non prometterebbe nulla di buono, e la costruzione del nuovo, Basaglia ne è convinto e Slavich e Pirella con lui, non può che percorrere la faticosa strada della distruzione, prima, del vecchio.
Per queste ragioni la legge con la quale per la prima volta una nazione chiude i suoi manicomi – e che per questa ragione è famosa nel mondo e viene celebrata per i 40 anni – porta il suo nome; e lo porta per chi intende con ciò rendergli onore e anche per chi, contrario alla Legge Basaglia, intende con ciò denunciarne il responsabile principale, che è lui nell’un caso e nell’altro. Certo, Basaglia non se ne disse pienamente soddisfatto, e credo che non lo sarebbe stato di nessuna legge perché, semplicemente, una legge per lui poteva non impedire le buone pratiche, al più creare alcuni presupposti per facilitarle, ed è ciò che in piccola misura fece il decreto Mariotti e in misura decisamente maggiore la Legge 180. Ma quanto alle buone pratiche esse possono nascere soltanto nell’incontro/scontro tra le persone.
Già, incontro ma anche scontro perché Basaglia non ha timore della dialettica, anche quando diventa scontro animoso, appassionato. E’ lì, anzi, che individua l’energia necessaria a negare, e rinegare ogni volta, l’istituzionalizzazione. E’ lì he individua lo strumento perché davvero il principio di libertà possa scalzare quello di autorità, e attraverso questa restituzione di soggettività l’istituzione statica della violenza può trasformarsi nell’istituzione dinamica e contraddittoria della cura. Così, oltre Gorizia, Basaglia incontra sulla sua strada Mario Tommasini, un amministratore comunista atipico e inquieto come lui; i due si piacciono, e il trasferimento di Basaglia, per il quale Gorizia era ormai priva di possibilità di evoluzione a Parma è presto fatto. Di Tommasini Pivetta riporta una testimonianza importante: «ricordo quanto si infuriasse quando sentiva dichiarare, magari da compagi di battaglia, che la malattia mentale non esiste. Il suo discorso, articolato e complesso, è stato spesso appiattito e banalizzato come se la sofferenza psichica fosse un’invenzione» (p. 175). Poi Parma non sarà un’esperienza fortunata come Gorizia complice anche, secondo Slavich, la insufficiente presenza di Basaglia nei reparti, perché è divenuto ormai un personaggio famoso e impegnato ormai nell’ipotesi di chiusura per legge del manicomio. Commenta Tommasini il suo passaggio a Trieste, chiamato dal giovane presidente democristiano Michele Zanetti: «Se ne andò. E fece bene., perché un tecnico non dovrebbe essere sottomesso a un amministratore. Se è un bravo tecnico e se ha dignità» (cit. a p. 210). Sante parole! Poi Pivetta prosegue prendendo in esame i testi centrali del gruppo goriziano: Che cos’è la psichiatria[ii] e L’istituzione negata[iii]. Ce ne siamo occupati, e ce ne stiamo occupando, per Pol. it. Quindi Trieste, del quale al suo arrivo Peppe Dell’acqua traccia un vivido ritratto in Non ho l’arma che uccise il leone: «Lo spazio, le architetture dei reparti sembrarono a me giovane inesperto di un ordine e di una pulizia spropositati. Il proposito di quell'ordine lo avrei capito negli anni a venire. La finestra del soggiorno del reparto offriva quella vista. Al di qua dei vetri il puzzo penetrante di piscio, di cibo, di disinfettante; tanti giovani uomini bavosi, urlanti, lamentosi. Occhi grandi tristi, immobili. Camici bianchi, rumori di chiavi. Un dialetto incomprensibile…» (cit. a p. 225).
Ne emerge, dunque, il quadro di Basaglia come un intellettuale mai convenzionale, rigoroso e coraggioso degli anni a cavallo tra i ’60 e i ’70, che sono anche gli anni di corruzione nei quali è maturata la crisi della Prima repubblica, e anche i servizi deviati e il terrorismo rosso, gli anni dei movimenti e della repressione dei movimenti; e di qui il frequente parallelo, colto da Pivetta, con Pier Paolo Pasolini. E’ stato, caso infondo non frequente, un intellettuale della pratica, per il quale il reciproco rimando tra prassi e teoria è un elemento etico e politico assolutamente imprescindibile. E’ stato, certo, il dottore dei matti, e questo non va mai dimenticato, ma è stato certamente anche molto di più. Ed è dunque, per chiunque lavori oggi in una psichiatria che qualcuno ha voluto chiamare, con un neologismo di dubbio gusto ma efficace, “basagliata”, un riferimento dal quale comunque non è possibile prescindere.
Pivetta traccia la biografia di Basaglia intrecciandola con la riproposizione di alcune pagine centrali della psichiatria degli ultimi due secoli: dalla vicenda di Geel, all’opera di Pinel ed Esquirol, alle visite di importanti alienisti ai manicomi italiani nell’800, il lavoro di John Conolly contro la contenzione, la scoperta dell’elettroshock, ecc. Il libro si articola in sette capitoli e coglie gli aspetti centrali della biografia basagliana: il rapporto fondamentale con Franca, la breve carcerazione da studente per attività antifascista, il rapporto difficile da psichiatra/filosofo con un’università a forte orientamento biologista, e con i meccanismi istituzionali che ne regolano in ogni caso la vita: «avevo imparato molte cose della logica istituzionale, cioè avevo direttamente sperimentato come questa potesse distruggere una persona e come ci si potesse ammalare di sindrome universitaria» (cit. a p. 73). E’ quell’Università italiana che, nel decennio dalla metà degli anni ’60 alla metà degli anni ‘70, quando si costruirono le basi della Legge 180, sarebbe rimasta salvo rarissimi casi alla finestra (cfr. cit. a pp. 74-75). Quindi il ripiegamento su Gorizia e il rapporto con l’ospedale psichiatrico, un rapporto che è in primo luogo olfattivo, un odore di degrado delle persone e degli spazi (pp. 66-67). Ed è proprio vero: ricordo durante uno dei miei passaggi in manicomio l’abitudine di chiudere tutti i ricoverati per il tempo della pulizia delle stanze a chiave nel corridoio tra i due reparti uomo e donna. Alcuni erano incontinenti, lo spazio poco e l’odore diveniva in breve tempo irrespirabile. Ma chi li chiudeva era fuori, dentro solo i “malati”. E ricordo l’imbarazzo e lo scompiglio che portammo, nella visione elle cose di quegli infermieri, prendemmo l’abitudine con una giovane psicologa che lavorava lì con me di non interrompere i colloqui in quel momento, ma di chiedere di essere a nostra volta chiusi con i ricoverati con cui parlavamo per proseguirli. Ci accorgemmo che era un sistema antropologico, una visione del mondo a entrare in crisi; quello per cui ciò che era considerato ovvio per i malati, diventava di colpo inconcepibile se applicato a due persone “normali, anzi addirittura a due “dottori”. Poi ho fatto ancora in tempo a vedere malati messi, quasi abbaiando al loro indirizzo, in fila, come fa il cane pastore con la mandria, nudi per essere lavati con un getto d’acqua. Ho visto appaltare al malato più sano compiti di controllo dei malati meno autonomi che avrebbero dovuto essere dello staff, perché lo staff potesse passare qualche tempo tranquillo. Ho visto distribuire qualche sigaretta, senza parlarsi, alle ricoverate che da anni facevano le pulizie che avrebbe dovuto fare il personale. Con sconcerto, ripensavo alle pagine de L’istituzione negata, e scoprivo che, legge o non legge, dentro quei muri niente era cambiato. Una giovane OSS deve avermi letto, mio malgrado, quell’attimo di sconcerto sul viso, e ricordo il suo imbarazzo e dispiacere, la sorpresa: «Dottore, non dovevo farlo? Mi scusi, sa, qui abbiamo sempre fatto così». Nessuna malevolenza, assolutamente, nelle sue parole. Il manicomio, la routine che nasce quando un uomo non tanto si “crede” – ma influenzato dalla consuetudine piuttosto si “vive” – antropologicamente più uomo dell’altro uomo, o uomo in modo diverso, vinceva sulla legge. E’ per questi particolari della vita istituzionale al suo interno che non è azzardato paragonare, come fa Basaglia, il manicomio al lager con le caratteristiche di rapporti tra internati e tra guardie e internati che Primo Levi ha descritto. E’ ancora per essi che è possibile individuare in tutte le istituzioni della violenza, le istituzioni che nel loro essere totali umiliano la singolarità della persona – con Goffman e anche, per quanto riguarda l’universo coloniale, con Fanon – meccanismi comuni. Basaglia paragona quindi il manicomio al lager per come nel lager si vive; non intende certo, e sarebbe ingenuità davvero grande, accostare il manicomio ai lager per come in alcuni di essi soprattutto, i campi di sterminio, si muore. Crederlo sarebbe sì svalutare l’unicità di Auschwitz nella storia; e insieme invece perdere l’importanza che l’insegnamento di Primo Levi ha per l’analisi istituzionale del gruppo goriziano, sul quale insiste spesso Valeria Babini.
Così, Basaglia comincia il suo confronto con l’istituzione per negarla, e una delle sue capacità più straordinarie è quella di trovare alleati. A quegli infermieri, abituati da sempre a gestire masse umane come si trattasse di mandrie animali, riesce a restituire l’orgoglio e la dignità di cominciare a fare davvero gli infermieri. A quei malati, abituati a essere trattati da anni come corpi spogliati di ogni soggettività, oggetti sui quali è lecita qualsiasi sperimentazione, Basaglia riesce a restituire l’orgoglio e la dignità di essere persone. Di poter contare, di poter esprimere il punto di vista in assemblea; per questo l’assemblea è un momento tanto centrale in quei processi di riumanizzazione. Per questo la pratica che Basaglia inaugura si chiamerà “psichiatria” – il che è il contrario, mi pare, di antipsichiatria – “democratica”, il che rimanda insieme al suo stretto rapporto con la costruzione della psichiatria in Italia, e al fatto che in questa psichiatria deve pesare, molto, la voce del paziente. E a un lettore de Il piccolo che fa della facile e un po’ sciocca (mi permetto) ironia (cit. a p. 260), chiedendo se esista la “psichiatria antidemocratica” credo che potremmo rispondere sì, la storia della psichiatria è piena di esempi che lo dimostrano. E quando si chiede se esista una chirurgia alternativa che opera l’appendice a sinistra potremmo rispondergli che no, l’appendice è sempre a destra mentre alla malattia mentale la storia dimostra che ci sono tanti modi possibili di avvicinarsi.
Per Basaglia poi, insieme alla scoperta della questione antropologica dell’istituzione, c’è quella della povertà e dell’appartenenza di classe della maggioranza dei ricoverati. Così, anche la possibilità di possedere un comodino, di personalizzare la biancheria e gli abiti, di mangiare con la tovaglia, di chiudersi in bagno in quel luogo diventa terapia (pp. 135-136). E così la critica del manicomio diventa inevitabilmente, come anticipano le prime pagine de L’istituzione negata, critica del mondo fuori che il manicomio, insieme a tante altre cose ingiuste e disumane, produce. E’ di qui, dalla relazione ineludibile tra psichiatria e miseria – la miseria che il manicomio accoglie e quella che il manicomio produce – che nasce il rapporto fecondo tra Basaglia e i movimenti degli anni ’60 e ’70. E sono movimenti generosi, ai quali il dottore dei matti dimostra di volere profondamente bene e di guardare forse, pur nella differenza delle posizioni, con speranza. E lì, del resto, si formarono molti che poi diedero con il proprio lavoro corpo ai suoi progetti. Basaglia è consapevole di avere la responsabilità di una battaglia difficile dal cui successo o meno sarà il destino di migliaia di internati e intenandi a dipendere; per questo, il suo atteggiamento sul tema della tattica è a volte intransigente, e lo dimostra l’energia con la quale opera per far rientrare lo strappo in avanti di un’avanguardia del suo gruppo nel caso dell’occupazione illegale della Casa del marinaio a Trieste. Ma sa anche essere generoso e perdonare quando si tratta della sua persona e, nel loro convulso dibattersi nella ricerca della buona strada, accade che un gruppo di giovani dell’area di Autonomia intervenuti a contestarlo gli provochino accidentalmente l’incrinatura di qualche costola. In anni nei quali il grado d’isolamento e criminalizzazione dei movimenti era altissimo, sarà ben attento a non farne un dramma.
Ma, tornando indietro, nel frattempo Basaglia è stato nel 1964 a Londra, al I Congresso internazionale di psichiatria sociale; è un viaggio fecondo per diverse ragioni, che gli rivela la figura di John Conolly e la sua opera contro la contenzione nell’800 e gli consente di approfondire la conoscenza della comunità terapeutica, ma soprattutto perché è lì, di fronte al mondo, che espone la sua idea originale e pazzesca, un’idea che nessuno psichiatra aveva manifestato prima di lui, in una relazione che suona convinta e dirompente fin dal titolo: La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione (pp. 132-133). Non basta rimpicciolirlo, riformarlo, umanizzarlo come molti già avevano sostenuto: occorre distruggerlo. Poi in molti convergeranno, negli anni ’60 e soprattutto negli anni ’70 sulla sua posizione, dopo che ne avrà dimostrato la concreta realizzabilità a Gorizia e a Trieste, ma in quel momento è l’unico ad avere intravisto il fatto che una psichiatria senza manicomio è possibile, ed è anche necessaria perché il manicomio è l’ostacolo, e non lo strumento, della cura. L’esempio degli Stati Uniti aveva contribuito a convincerlo: non può crescere una nuova psichiatria, se dietro le sue spalle sopravvive il manicomio (pp. 202-203). Da allora non ammetterà deroghe: la distruzione del mostro diventa il suo primo obiettivo. Né potrà capire chi, come Giovanni Jervis, preferirebbe la scorciatoia di costruire il nuovo ignorando il vecchio e lasciando che il manicomio si esaurisca da sé con il suo carico di vite spogliate e sottratte. No: una psichiatria che nascesse da una tale rimozione non prometterebbe nulla di buono, e la costruzione del nuovo, Basaglia ne è convinto e Slavich e Pirella con lui, non può che percorrere la faticosa strada della distruzione, prima, del vecchio.
Per queste ragioni la legge con la quale per la prima volta una nazione chiude i suoi manicomi – e che per questa ragione è famosa nel mondo e viene celebrata per i 40 anni – porta il suo nome; e lo porta per chi intende con ciò rendergli onore e anche per chi, contrario alla Legge Basaglia, intende con ciò denunciarne il responsabile principale, che è lui nell’un caso e nell’altro. Certo, Basaglia non se ne disse pienamente soddisfatto, e credo che non lo sarebbe stato di nessuna legge perché, semplicemente, una legge per lui poteva non impedire le buone pratiche, al più creare alcuni presupposti per facilitarle, ed è ciò che in piccola misura fece il decreto Mariotti e in misura decisamente maggiore la Legge 180. Ma quanto alle buone pratiche esse possono nascere soltanto nell’incontro/scontro tra le persone.
Già, incontro ma anche scontro perché Basaglia non ha timore della dialettica, anche quando diventa scontro animoso, appassionato. E’ lì, anzi, che individua l’energia necessaria a negare, e rinegare ogni volta, l’istituzionalizzazione. E’ lì he individua lo strumento perché davvero il principio di libertà possa scalzare quello di autorità, e attraverso questa restituzione di soggettività l’istituzione statica della violenza può trasformarsi nell’istituzione dinamica e contraddittoria della cura. Così, oltre Gorizia, Basaglia incontra sulla sua strada Mario Tommasini, un amministratore comunista atipico e inquieto come lui; i due si piacciono, e il trasferimento di Basaglia, per il quale Gorizia era ormai priva di possibilità di evoluzione a Parma è presto fatto. Di Tommasini Pivetta riporta una testimonianza importante: «ricordo quanto si infuriasse quando sentiva dichiarare, magari da compagi di battaglia, che la malattia mentale non esiste. Il suo discorso, articolato e complesso, è stato spesso appiattito e banalizzato come se la sofferenza psichica fosse un’invenzione» (p. 175). Poi Parma non sarà un’esperienza fortunata come Gorizia complice anche, secondo Slavich, la insufficiente presenza di Basaglia nei reparti, perché è divenuto ormai un personaggio famoso e impegnato ormai nell’ipotesi di chiusura per legge del manicomio. Commenta Tommasini il suo passaggio a Trieste, chiamato dal giovane presidente democristiano Michele Zanetti: «Se ne andò. E fece bene., perché un tecnico non dovrebbe essere sottomesso a un amministratore. Se è un bravo tecnico e se ha dignità» (cit. a p. 210). Sante parole! Poi Pivetta prosegue prendendo in esame i testi centrali del gruppo goriziano: Che cos’è la psichiatria[ii] e L’istituzione negata[iii]. Ce ne siamo occupati, e ce ne stiamo occupando, per Pol. it. Quindi Trieste, del quale al suo arrivo Peppe Dell’acqua traccia un vivido ritratto in Non ho l’arma che uccise il leone: «Lo spazio, le architetture dei reparti sembrarono a me giovane inesperto di un ordine e di una pulizia spropositati. Il proposito di quell'ordine lo avrei capito negli anni a venire. La finestra del soggiorno del reparto offriva quella vista. Al di qua dei vetri il puzzo penetrante di piscio, di cibo, di disinfettante; tanti giovani uomini bavosi, urlanti, lamentosi. Occhi grandi tristi, immobili. Camici bianchi, rumori di chiavi. Un dialetto incomprensibile…» (cit. a p. 225).
Ne emerge, dunque, il quadro di Basaglia come un intellettuale mai convenzionale, rigoroso e coraggioso degli anni a cavallo tra i ’60 e i ’70, che sono anche gli anni di corruzione nei quali è maturata la crisi della Prima repubblica, e anche i servizi deviati e il terrorismo rosso, gli anni dei movimenti e della repressione dei movimenti; e di qui il frequente parallelo, colto da Pivetta, con Pier Paolo Pasolini. E’ stato, caso infondo non frequente, un intellettuale della pratica, per il quale il reciproco rimando tra prassi e teoria è un elemento etico e politico assolutamente imprescindibile. E’ stato, certo, il dottore dei matti, e questo non va mai dimenticato, ma è stato certamente anche molto di più. Ed è dunque, per chiunque lavori oggi in una psichiatria che qualcuno ha voluto chiamare, con un neologismo di dubbio gusto ma efficace, “basagliata”, un riferimento dal quale comunque non è possibile prescindere.
[i] Gli altri essendo: Gli asili della follia a cura di M. Baioni e M. Setaro (sarà pubblicata prossimamente la recensione), L’ascolto gentile di E. Borgna (clicca qui per il link alla recensione), Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista di A. Valeriano (clicca qui per il link alla recensione), La storia di Antonia di D.S. Dell’Aquila e A. Esposito (clicca qui per il link alla recensione). Clicca invece qui per l’intero programma di 180x40GENOVA.
aggiunto video con l’autore
aggiunto video con l’autore