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IL SELFIE CON IL MORTO

14 Mag 18

A cura di degaetani

Fotografarsi sul luogo della disgrazia o con il morto, sembra essere l’ultima imbarazzante trovata delle generazioni tecnologiche. Oramai cellulari alla mano, abbiamo raggiunto ogni limite; la fotografia non mostra più solo cosa stiamo mangiando o cosa stiamo facendo, ma diviene portavoce dell’orrido portando alla luce il schadenfreud, quel sentimento di naturale compiacimento davanti alla catastrofe altrui.

Tuttavia, non abbiamo inventato nulla, le fotografie scattate dopo la morte sono una pratica sviluppatasi nell’epoca vittoriana. Prima del Dagherrotipo, 1839, l’unico modo per poter tramandare la propria immagine era farsi fare un ritratto.
Moltissimi non potendo permettersi il costo dell’opera, la gente iniziò a farsi fotografare con i defunti, per averne un ricordo indelebile. Inizialmente si ritraeva solo il viso o il busto, raramente includevano la bara.
Nel periodo tra 1840 e il 1860, il cadavere si posizionava sul divano con la testa appoggiata ad un cuscino, per sembrare come addormentato in sonno profondo.

In molte immagini i defunti venivano rappresentati insieme ai famigliari, fratelli, genitori, o addirittura tutta la famiglia riunita: un’abitudine, questa, che mostrava come la continuità degli affetti non fosse toccata dal lutto. La foto col defunto diventava l’occasione per ritrarre anche i vivi.

Successivamente, i soggetti venivano ritratti come fossero ancora in vita, con gli occhi aperti, o impegnati in attività quotidiane. I bambini molto piccoli venivano sovente fotografati nelle braccia della madre. L'effetto della vita a volte è stato rafforzato aprendo gli occhi o dipingendoli sulle palpebre e le guance del cadavere venivano talvolta dipinte di rosa in seguito.
Ancora oggi nei cimiteri è possibile vedere questo genere di foto: esse ritraggono generalmente bambini morti pochi giorni dopo il parto.

Cercando con attenzione nei vecchi album di famiglia, non è per niente raro trovare questo tipo di immagini. Quest’ultima,  ad esempio,  è di una famiglia ugentina, nel profondo sud Italia.

Certamente la pratica era legata all’idea della morte, intesa come viaggio a cui bisognava prepararsi apparendo comunque di bell’aspetto e in buona salute, e da accompagnare con gli oggetti più cari, sepolti con la salma. Riprendendo Barthes in “La camera Chiara” direi che la smania del “rendere vivo” non può essere che la negazione di un’ansia di morte, aggiungerei, visti i tempi che corrono, la paura ancestrale di non essere, il dubbio amletico che accompagna da sempre l'esistenza.
 

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