La democrazia incapace di espandersi (dopo le grandi illusioni della caduta del muro di Berlino e della primavera araba) si contrae progressivamente nei suoi aspetti formali, impotente a dare risposte adeguate alle grandi questioni sociali che la mettono in crisi. Convinta della sua superiorità culturale, pensa di cavarsela per grazia ricevuta (dalla storia che non le insegna nulla).
La democrazia non esiste senza una cultura di vita che la sorregga, necessariamente di sinistra, cioè in difesa dei valori fondamentali: la libertà fondata sulla parità delle differenze dei soggetti desideranti, la fraternità fondata sulla giustizia sociale. Quando tale cultura, da sempre più aperta, libertaria delle istituzioni e dell’apparato gestionale della Polis, diventa retorica, declamazione di principi costruiti esteticamente, riflessi narcisisticamente in se stessi e senza presa reale nella vita dei cittadini, è necessario riformarla. Non riesce più a leggere bene le situazioni, si è fatta infiltrare da ciò che dovrebbe contrastare, combattere. Tra i vari punti di infiltrazione, nei quali la democrazia si trova, senza accorgersi, a predicare un discorso che la invalida, quattro sono i più significativi sul piano psicologico: il richiamo all’autorità del Padre; la sovrapposizione della figura del cittadino e del diritto di cittadinanza; il “genere” come strumento di uniformazione ortopedica degli esseri umani a schemi asessuati; la trasformazione dei desideri in bisogni.
L’invocazione del Padre, garante di una Legge “giusta”, non aspira in realtà al ripristino di un potere paterno precario, malfermo che destabilizza un equilibrio sociale millenario fondato sul privilegio dell’uomo nei confronti della donna. Tende, di ciò non si ha consapevolezza, a mantenere come spada di Damocle la sua temuta scomparsa e garantire un potere normativo più invisibile ma ben più inflessibile di quello storicamente associato alla sua presenza.
La civiltà democratica può vivere (invece di sopravvivere, spegnersi poco a poco), allontanandosi dalla società padri-centrica (che involve sinistramente verso un mondo di relazioni falliche, indifferenzianti) per affrontare la sua contraddizione originaria: la distinzione tra cittadini e non cittadini fondata in apparenza nella separazione tra nativi e meteci, ma in realtà nella divisione discriminante tra uomini e donne. Il mondo non sarà mai pacificato e libero senza l’abolizione del privilegio di cittadinanza (che le democrazie devono abolire dentro i loro confini se vogliono espanderli). Ciò significa, innanzitutto, parità universale sul piano dell’espressione erotica per uomini e donne, libertà per entrambi di disporre pienamente della materia viva della loro esistenza psicocorporea. Il che non è affatto parità sul piano del potere socioeconomico ottenuta con la rinuncia della donna alla sua profondità femminile.
Sotto il richiamo al padre avanza silenziosamente un ideale unisessuale, che nega il corpo (anche manipolandolo, trasformandolo in un artefatto) e la congiunzione erotica degli amanti. La differenza cancellata sul piano dello scambio vero, viene dipinta sulla superficie della materia psicocorporea inerte come differenza di “generi”, costruzione linguistica delle identità, totalmente vulnerabile ai rapporti di potere sociali.
La democrazia è la mediazione tra i desideri (l’amore delle trasformazioni) e i bisogni (la ricerca della stabilità). Non avrà lungo destino se il campo del desiderio (la parità degli scambi) continuerà a essere uniformato alla logica del bisogno (gli scambi ineguali). Nell’ambito di questa logica la tirannia barbarica è più convincente della civiltà democratica che deve riformare la sua cultura se non vuole perire.
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