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Arturo Donaggio e la forma mentis della romanità

30 Giu 18

A cura di Luigi Benevelli

Arturo Donaggio (1868-1942) era il più anziano dei dieci scienziati italiani che sottoscrissero per primi cosiddetto Manifesto della Razza pubblicato il 14 luglio 1938 su Il Giornale d’Italia. Medico neuropsichiatra, lavorò nel manicomio S. Lazzaro di Reggio Emilia, professore all’Università di Modena, poi a Cagliari, infine a Bologna. 
Il 21 aprile 1925 aveva sottoscritto il Manifesto intellettuale del fascismo redatto da Giovanni Gentile
Mise a punto 4 metodi per la colorazione del reticolo fibrillare endocellulare delle cellule nervose; studiò l’epilessia e la corteccia frontale nel parkinsonismo postencefalitico. Nel 1924 fu candidato al Nobel per la Medicina. Si occupò anche di lavoro, sostenendo la grande positività di quello artigianale a fronte della nocività di quello nella fabbrica industriale. Fu contrario alla misura della sterilizzazione dei pazienti psichiatrici in considerazione dell’insufficienza degli statuti scientifici dell’ eugenetica negativa. Fu presidente della Società Italiana di Psichiatria (SIP) dal 1935 al 1942.

Nel 1939, sul n. 1, anno II della rivista La Difesa della razza diretta da Telesio Interlandi, con il titolo Caratteri della Romanità, furono pubblicati ampi stralci della parte conclusiva del discorso tenuto da Donaggio all’apertura del XXI Congresso della Società Italiana di psichiatria,   Napoli, aprile 1937. Di seguito l’articolo:

"La nazione artigiana e guerriera ben si è rivelata a affermata ancora una volta nella impresa ormai leggendaria d’Etiopia con i suoi inimitabili caratteri psicologici.  Noi, anche come psicologi, vogliamo celebrare qui codesti caratteri psicologici, codesta forma mentis incomparabile. Tutto il mondo, dopo le strane quanto consuete perplessità e incomprensioni, ha dovuto ammirare nuovamente il pensiero onnipresente, lungimirante del Duce: la fulminea azione dei generali; e, insieme, oltre all’indomito coraggio, la straordinaria resistenza fisico-psichica dei soldati e dei lavoratori italiani; la rapidità di esecuzione; la possibilità di adattamento alle più impensate necessità del moment: i più gravi ostacoli hanno ceduto alla tenacia e alla plasticità di codesti soldati e artigiani, di codesti artieri di ogni arte. I libri del Maresciallo Badoglio, del Maresciallo De Bono-  che fanno pensare nella loro solenne sobrietà, alle classiche pagine degli scrittori latini- precisano codesta psicologia d’eccezione, e tutta quanta nostra. La campagna dì Etiopia, grande pagina del pensiero e della volontà del Duce, capolavoro bellico, documento ulteriore dell’eroismo italiano, potrebbe, in più, chiamarsi sotto questi aspetto psicologici anche un capolavoro “artigianale”-
Ci piace qui riaffermare nel dato psicologico, a celebrazione della grande gesta, che in codesti caratteri psichici, in codesta forma mentale, riconosciamo contro ogni teoria unilaterale che vorrebbe ricondurci a propaggini o a  presunte sovrapposizioni straniere, il documento ulteriore della continuità, oltre che della tipicità, dei caratteri psicologici della stirpe, palesi non solo nelle più alte manifestazioni, ma sì anche nelle linee psichiche della massa del popolo italiano.
Nel 1914, celebrando la memoria del grande Giulio Vassale[1], chi vi parla celebrò anche la nostrana forma mentale, dicendo fra l’altro: «questa energia e questa bellezza insieme del pensiero italiano, che non hanno mai ceduto attraverso i secoli, di fronte alle più grandi sventure; che sono come una necessità, una fatalità meravigliosa che scorre nel sangue di nostra gente: questa energia e questa bellezza del pensiero dovranno condurre l’Italia al suo più alto destino».
Anche quando il nostro paese era vilipeso, anche quando le tristi condizioni del paese obbligarono il popolo ad emigrare e si andava favoleggiando dagli stranieri, e da pessimi scienziati, oltre che pessimi italiani, di degenerazione, esso, il popolo, portava con sé questo antico indissolubile tesoro psicologico. Sia consentito ricordare che codesti attributi psichici del popolo, chi vi parla esaltò, anche e nella persona stessa degli emigranti, in un discorso pronunciato nel 1916 in celebrazione di Cesare Battisti e pubblicato dai volontari di guerra. Così dissi: «Questo slancio vitale del popolo italiano è stato sempre affermato appunto da coloro che vennero indicati a prova di decadenza e di degenerazione; appunto dalle masse innumerevoli di italiani che lasciarono la patria, che attraversarono gli oceani, che dilagarono per ogni dove. Ciechi coloro che, o emigranti,  attraverso la vostra miseria, attraverso gli affanni vostri non hanno visto il vostro eroismo; ciechi coloro che in terra straniera vi han coperto di ogni insulto, perché non poterono vedere il tesoro raccolto nel vostro pensiero lucido e armonico, pronto e plastico: lavoratori della terra e del mare, pionieri, costruttori delle più grandi vie aperte agli umani, presenti ovunque in lotta contro le forze naturali, con i vostri muscoli possenti e con il vostro pensiero geniale; artieri di ogni arte; voi avete ancora una volta affermata la perenne giovinezza d’Italia».
Ieri, Natale di Roma, codesti lavoratori hanno sfilato nella via dell’Impero insieme alle truppe vittoriose della guerra di Africa: rivendicazione stupenda che potrebbe avere anche il sentore d’uno schiaffo sul viso dei denigratori esterni ed interni del nostro popolo, se valesse la pena di fermarsi su codeste passate miserie di fronte alla grandezza dell’evento.
I caratteri della Romanità hanno attraversato i secoli, intatti. Noi teniamo presenti le ricerche antropologiche, gli studi craniometrici sui quali si sono imbastite teorie e dottrine discordanti, e anche hanno permesso assurde affermazioni di autori stranieri e di qualche italiano. Ma dobbiamo constatare che esiste, al di sopra del dato frammentario, unilaterale – ad esempio, della dolicocefalia e della brachicefalia – sui quali si pretenderebbe  costruire vaste dottrine; al di sopra e al di là delle discordanze nei particolari, nelle contingenze, che non possono renderci conto della globale personalità umana: esiste, diciamo, una manifestazione che rappresenta la vera somma della personalità, e la designa, che è la sintesi di fronte alla quale cedono i particolari craniometrici o d’altro ordine; che è il segno riconoscibile e differenziale per eccellenza: e questa è precisamente non la forma capitis, sì come dicemmo, la manifestazione psichica, la forma mentis.
Se anche discusso, senza confronto valevole più d’ogni indagine craniometrica è ad esempio il complesso degli studi archeologici nei loro riferimenti alle manifestazioni della vita primordiale, che son di contenuto psichico; studi moderni che per opera del Rellini – dopo che il Brizio trent’anni addietro aveva pur posto una conclusione identica, limitata nel carattere suo di ipotesi – forniscono il documento della antichissima presenza degli Appenninici, non terramaricoli; autoctoni; degli Appenninici fondatori, costruttori delle prime città fortificate, preludenti la fondazione di Roma.
Nell’elemento sintetico della struttura psicologica, nella forma mentis si afferma la stirpe. L’Italia ha conosciuto vicende trionfali, vicende tristi; ma sempre la sua particolare forma mentale ha brillato di una luce tutta sua. Il fatto psicologico della romanità ha emerso con decisa, autoctona costruzione, che ha sopraffatto e mendelianamente espulso infiltrazioni di elementi accessori, affermando la sua propria struttura, riconoscibile e inconfondibile.
Insieme, fra l’altro, alla lucidità, all’armonia, alla rapidità psichica, al senso artistico, all’amore alla terra, l’accennata aderenza alla realtà, onde chi vi parla ebbe altra volta a dire che “italiano è colui che guarda in alto, ma dopo aver ben piantato i piedi nel solido terreno”; questa aderenza che si manifestò fin dai primordi nell’arte, nelle leggi; questa particolarissima mentalità si segue sempre con caratteri indelebili. Perfino il santo italiano ha radici nella terra. Il più italiano dei Santi, fu chiamato san Francesco, che si mette in fraterna comunicazione con la terra e di questa comunicazione imbeve il proprio slancio mistico.
Appare come logica emanazione della nostra terra e riallacciato alla tradizione lo sbocciare, che sembrerebbe improvviso e inopinato, di una figura gigantesca, aderentissima alla realtà, come quella di Giotto […]. Non poteva fiorire se  non dal nostro terreno psicologico il solare Rinascimento, le cui caratteristiche nostrane si impongono al più disattento, o mal disposto, osservatore. Dal nostro terreno psicologico poteva sbocciare il metodo sperimentale, espressione ancora una volta di contatto con i fatti concreti e traccia luminosa per il cammino della scienza.
Per la continuità della forma mentale nostrana, nel tempo, la storia italiana, come Arrigo Solmi ha ribadito, è un blocco compatto senza soluzioni di continuità.
Fu opera di Roma la prima fondazione unitaria della penisola rafforzata dall’impero; e l’idea dell’Impero, pur in tempi oscuri, non cedette; la raccolse Dante, il quale riprendendo il pensiero virgiliano, affermò nel libro secondo di De Monarchia «essere necessario conservare quello che ordinò la natura, e il popolo romano dalla natura fu ordinato a imperare» ; Dante, che nell’unità d’Italia «giardino dell’Impero» riconobbe il fulcro per l’espansione della civiltà cristiana nel mondo; questa idea imperiale, come si esprime Alfredo Oriani, ricostituisce con Vittorio Emanuele II l’unità della penisola; questa stessa persistente idea imperiale trasmessa da Roma opera profondamente nel pensiero dell’eroe, dell’uomo rappresentativo – il Duce –  che ha sigillato il fatto psicologico della continuità con questo grido: «Noi non creiamo una Italia nuova, mettiamo l’Italia antica in marcia»; e sorge il Fascismo che è ancora romanità. E il 9 maggio dell’anno XVI, con la glorificazione di Vittorio Emanuele III Re ed Imperatore, i legionari del Duce, accanto al Campidoglio, levano in alto le insegne, il ferro, i cuori a salutare dopo quindici secoli la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma.
Chi potrà disconoscere codesta fatalità psicologica che nell’azione, nell’eloquio, nella prosa « tutta cose» del Duce raccoglie precisa espressione: codesta fatalità psicologica che è una fatalità biologica; chi potrà disconoscere il destino di Roma? […]
Per codesta fatalità meravigliosa il destino imperiale si è avverato spezzando i più tenaci ostacoli; l’Italia imperiale prosegue il suo cammino verso il più grande avvenire di Roma immortale".
Prof. Arturo Donaggio
Direttore della Clinica neurologica
nella R. Università di Bologna
 
Nella breve nota di presentazione, probabilmente stesa da Telesio Interlandi, lo stesso affermava l’”ispirazione nettamente razzista” dell’intervento di Donaggio.  Non condivido il giudizio di Interlandi  che mi pare strumentale,  perché Donaggio esalta, peraltro confusamente, la “romanità” degli italiani, ma non mostra disprezzo per altri popoli. A me pare invece che Donaggio sia da collocare fra i nazionalisti post-risorgimentali pre-prima guerra mondiale, cui comunque partecipò. Egli segue la svolta razzista del Regime con gli argomenti di “un razzismo ambiguo, astuto, opportunista, fatto di esaltazione in positivo della razza romano-italica”[2].
 



[1] Giulio Vassale (1862-1913), patologo dell’Università di Modena.
[2] Paolo Francesco Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (1922-1945), Ombre Corte, Verona, 2008, p. 151.

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