Fuori dall’inconscio esiste il tempo?
Si può dire di sì e si può dire di no. Si può dire di sì, perché le stelle continuerebbero con certezza matematica il loro percorso celeste, che ci sia o meno un soggetto che si interroghi per saperne qualcosa.
Ma si può dire di no. Non c’è tempo al di fuori dell’inconscio. Almeno per un soggetto che parla e, di conseguenza, desidera. Non c’è, per l’uomo, che il tempo del desiderio. Del desiderio indistruttibile.
Mi si obietterà che Freud aveva detto il contrario, che l’inconscio non conosce il tempo, che è atemporale, fuori tempo, zeitlos. Obiezione che diventa paradossale quando si considera la necessità del tempo nella cura, che poteva, a dire di Freud, diventare addirittura interminabile.
Il paradosso freudiano – l’inconscio è atemporale ma la cura esige il tempo – rimane tale in Freud.
Non così in Lacan.
Per Lacan una cosa è la durata e un’altra cosa il tempo logico. E la cura avviene in una durata di tempo che esige la messa in atto del tempo logico. Per questo l’inconscio è isolato da Lacan in una struttura temporale mai articolata prima di lui.
La chiave di questa strutturazione è, ancora una volta, l’assioma “l’inconscio strutturato come un linguaggio”. In esso la temporalità si fonda sulla catena significante che rappresenta il soggetto e la atemporalità si fonda sulla perennità di quel reale che è causa, causa della catena significante, causa del desiderio indistruttibile.
Lacan modula questa articolazione tra temporalità e atemporalità non solo nell’inedita definizione che egli dà all’inconscio, ma sottolinea la valenza del tempo nelle diverse strutture cliniche e nella direzione della cura stessa. Non è stata forse questa la pietra dello scandalo all’origine della scomunica di cui fu oggetto da parte dell’Internazionale freudiana?
C’è quindi, per il soggetto, il tempo del sintomo, il tempo che fa sintomo, il tempo che costituisce l’essere stesso del sintomo. Del nevrotico, per esempio, sempre pronto a esserci dove non c’è: troppo presto, troppo tardi, proiettato nel tempo dell’ideale o del simile e, a volte, anche se vivo, ormai già morto. Oppure del perverso, dove si dispiega il tempo che è pura ripetizione dello scenario che egli mette in atto nella realtà, infinite volte. O ancora dello psicotico, dove il tempo o non c’è o è il tempo di un delirio che organizza l’intero sistema planetario.
Così, per il soggetto che vive solo il tempo scandito dal sintomo, “occorre il tempo”, ricorda Lacan, per “assuefarsi a essere”[1]. In altre parole, ci vuole tempo per saperci fare con l’essere pulsionale che si è. Qui è l’appuntamento del soggetto con un altro tempo: il tempo del lavoro di transfert.
Si può dire di sì e si può dire di no. Si può dire di sì, perché le stelle continuerebbero con certezza matematica il loro percorso celeste, che ci sia o meno un soggetto che si interroghi per saperne qualcosa.
Ma si può dire di no. Non c’è tempo al di fuori dell’inconscio. Almeno per un soggetto che parla e, di conseguenza, desidera. Non c’è, per l’uomo, che il tempo del desiderio. Del desiderio indistruttibile.
Mi si obietterà che Freud aveva detto il contrario, che l’inconscio non conosce il tempo, che è atemporale, fuori tempo, zeitlos. Obiezione che diventa paradossale quando si considera la necessità del tempo nella cura, che poteva, a dire di Freud, diventare addirittura interminabile.
Il paradosso freudiano – l’inconscio è atemporale ma la cura esige il tempo – rimane tale in Freud.
Non così in Lacan.
Per Lacan una cosa è la durata e un’altra cosa il tempo logico. E la cura avviene in una durata di tempo che esige la messa in atto del tempo logico. Per questo l’inconscio è isolato da Lacan in una struttura temporale mai articolata prima di lui.
La chiave di questa strutturazione è, ancora una volta, l’assioma “l’inconscio strutturato come un linguaggio”. In esso la temporalità si fonda sulla catena significante che rappresenta il soggetto e la atemporalità si fonda sulla perennità di quel reale che è causa, causa della catena significante, causa del desiderio indistruttibile.
Lacan modula questa articolazione tra temporalità e atemporalità non solo nell’inedita definizione che egli dà all’inconscio, ma sottolinea la valenza del tempo nelle diverse strutture cliniche e nella direzione della cura stessa. Non è stata forse questa la pietra dello scandalo all’origine della scomunica di cui fu oggetto da parte dell’Internazionale freudiana?
C’è quindi, per il soggetto, il tempo del sintomo, il tempo che fa sintomo, il tempo che costituisce l’essere stesso del sintomo. Del nevrotico, per esempio, sempre pronto a esserci dove non c’è: troppo presto, troppo tardi, proiettato nel tempo dell’ideale o del simile e, a volte, anche se vivo, ormai già morto. Oppure del perverso, dove si dispiega il tempo che è pura ripetizione dello scenario che egli mette in atto nella realtà, infinite volte. O ancora dello psicotico, dove il tempo o non c’è o è il tempo di un delirio che organizza l’intero sistema planetario.
Così, per il soggetto che vive solo il tempo scandito dal sintomo, “occorre il tempo”, ricorda Lacan, per “assuefarsi a essere”[1]. In altre parole, ci vuole tempo per saperci fare con l’essere pulsionale che si è. Qui è l’appuntamento del soggetto con un altro tempo: il tempo del lavoro di transfert.
"Tempo Statico" Giulio Paci
[1] J. Lacan, “Radiofonia”, in Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 423.