Lacan parla[1] di Lewis Carroll alla radio francese il 31 dicembre 1966. E' il breve testo che abbiamo riservato ai lettori de La Psicoanalisi e che abbiamo tradotto dall'originale pubblicato da Jacques-Alain Miller sulla rivista del Campo freudiano Ornicar? n. 50.
L'opera di Lewis Carroll, dice Lacan, è l'illustrazione e la prova di tante verità. Verità certe, sebbene non evidenti.
Di queste verità solo la psicoanalisi, anzi, solo una certa psicoanalisi, è all'altezza di render conto. Per esempio del valore di oggetto assoluto che può prendere la bambina, quando incarna non tanto l'oggetto del desiderio, ma quell'oggetto mancante – entità negativa, dice Lacan – che causa il desiderio, oppure di una teoria del soggetto, inteso come il risultato della rete simbolica, distinta da ogni concezione immaginaria sebbene unitaria di ciò che chiamiamo l'io.
Queste verità non possono emergere da quelle concezioni psicoanalitiche che analizzerebbero l'opera di Lewis Carroll partendo dai suoi fantasmi o dai suoi disturbi psichici, veri o presunti, oppure prendendo spunto dall'incidenza di quest'opera sulle giovani menti da educare. Incidenza considerata in modo negativo, evidentemente.
No, Lacan procede diversamente. Come procede dunque?
In primo luogo l'opera d'arte e l'autore devono essere letti separatamente. Per esempio, è penoso e ridicolo voler interpretare l'opera con i dati storici di Charles Lutwidge Dodgson. Alice non è da leggersi come un sintomo della mente malata di un professore, scisso fra l'amore per le ragazzine e il suo studio della matematica. No, l'opera d'arte deve essere interrogata non tanto in riferimento alla verità storica dell'autore quanto piuttosto in riferimento alla struttura che essa arriva a dire. L'Edipo re, per esempio, e tutte le grandi opere parlano a tutti noi perché riescono a dire elementi di struttura, di quella struttura che è l'ossatura di quello che chiamiamo inconscio.
Ma qual è la dimensione strutturale che ci presenta l'opera di Lewis Carroll? Non è la dimensione strutturale del mito, dimensione che, come dice Lacan in un suo seminario, solo Freud è stato capace di inventare nel tempo moderno con il padre della orda di Totem e Tabù. Non è neppure quella dimensione di struttura che ci rivelano il tormento di Amleto o la tragica fine di Antigone. Alice ci rivela invece quella triade strutturale che è essenziale nella condizione umana: l'immaginario, il simbolico e il reale.
E qui, secondo punto, Lacan illustra come leggere nell'opera di Lewis Carroll questa triade strutturale. Certo, si parte dalle immagini. Ma non si rimane nel puro immaginario, poiché le immagini si articolano in un gioco di combinazioni. Combinazioni che arrivano a costituire la nostra rete simbolica. Combinazioni che non riguardano tanto o unicamente i rapporti, le relazioni, le interferenze di tutto ciò che popola la nostra realtà che chiamiamo concreta, poiché riguardano tante dimensioni virtuali, che sono proprio quelle in cui ci si trova a volte a penare e sempre a vivere. Sono proprio esse a introdurre l'umano a una realtà che è veramente la più reale. A volte la conosciamo sotto il nome di morte, a volte sotto il nome di castrazione, spesso sotto il nome di sintomo. Lewis Carroll ce la presenta sotto forma dell'impossibile che diventa tutto d'un tratto familiare.
Parallelamente, infine, come l'opera d'arte non si legge con sicurezza se non tramite ciò che apporta come elemento tipico della struttura, così non si rende giustizia a un uomo, a Lewis Carroll come a un altro, se non riconoscendo quella necessità verso la quale vanno le cosiddette discordanze della sua personalità. In altre parole la genialità di Lewis Carroll non risiede nel suo debole per le bambine, né nel suo insegnamento della matematica, divertente ma pedestre. La sua genialità risiede nel fatto che le sue due posizioni, quella del sognatore e quella del matematico, si annodano come in una congiura che è purtuttavia anche uno scongiuro. (Nella traduzione abbiamo preferito l'arcaico termine congiurazione per tradurre il francese conjuration, termine che vuol dire congiura, ma anche scongiuro). Da questa conjuration scaturisce quell'oggetto meraviglioso non ancora decifrato e per sempre splendente, nota Lacan, che è la sua opera.
Alla realizzazione dell'opera Carroll, autore di Alice, e Dodgson, autore di Euclide e i suoi rivali moderni, sono entrambi necessari. Ma è solo nell'après coup che si rivela la necessità di queste due posizioni che hanno il loro esordio nella più pura contingenza.
Eppure al quadro d'insieme manca ancora qualcosa, qualcosa che viene come un'aggiunta in più, conferendo all'opera quell'equilibrio che gli accorda i colori di una sorta di felicità: è la sua religiosità, una religiosità da povero di spirito.
L'opera è colta così come l'annodamento e la risultante di più posizioni soggettive. E si rivela essere un luogo eletto per dimostrare la vera natura della sublimazione nell'opera d'arte.
L'opera di Lewis Carroll non è dunque da leggere come un sogno, come una formazione da interpretare, come un sintomo ordito dal fantasma di una persona disturbata, ma come qualcosa che funziona e funziona bene. Funzionamento che gli è, a lui, a Lewis Carroll, del tutto singolare.
Capisco in questo modo la frase che fa da esordio all'intervento di Lacan: nell'opera di Lewis Carroll "si scopre che senza uso di alcun disturbo si può produrre disagio, ma che da questo disagio scaturisce una gioia singolare". Non è necessario infatti ricorrere al disturbo psichico perché ci sia quel disagio che comunemente chiamiamo sintomo. Poiché il sintomo è quel disfunzionamento che è particolare a ogni essere che parla. E' un disfunzionamento che si caratterizza come un caso, particolare a ciascuno, di un disagio generalizzato: Disagio della civiltà, disse Freud. Ora, ciò che la psicoanalisi insegna è che da questo sintomo, da questo disagio, particolare a ciascuno, può scaturire qualcosa che non è più disfunzionante ma, al contrario, che è veramente ciò che funziona per un soggetto, e che gli è talmente singolare che Lacan, in un altro testo, arriva a connotarlo con il termine di destino. Il sintomo è elevato così a paradigma – a sinthomo, per usare una grafia cara a Lacan molti anni dopo – con la proprietà di annodare in modo inedito l'immaginario, il simbolico e il reale di un soggetto. Diversamente dal sintomo che è quel particolare che è disagio, il sinthomo è quel singolare che è gioia. Gioia per il soggetto, certo. Ma, a causa del suo annodamento singolare, esso produce un effetto di creazione, ed acquista così un valore universale.
Quest'opera si tocca tutti, dice Lacan. Tuttavia essa non ci tocca nell'universale del senso, ma ci tocca tutti, uno per uno. Il singolare non si generalizza nel mondo indistinto del tutto, ma si universalizza in un infinito aperto che è quello della creazione e dell'invenzione che è dell'ordine del non-tutto.
L'opera di Lewis Carroll, dice Lacan, è l'illustrazione e la prova di tante verità. Verità certe, sebbene non evidenti.
Di queste verità solo la psicoanalisi, anzi, solo una certa psicoanalisi, è all'altezza di render conto. Per esempio del valore di oggetto assoluto che può prendere la bambina, quando incarna non tanto l'oggetto del desiderio, ma quell'oggetto mancante – entità negativa, dice Lacan – che causa il desiderio, oppure di una teoria del soggetto, inteso come il risultato della rete simbolica, distinta da ogni concezione immaginaria sebbene unitaria di ciò che chiamiamo l'io.
Queste verità non possono emergere da quelle concezioni psicoanalitiche che analizzerebbero l'opera di Lewis Carroll partendo dai suoi fantasmi o dai suoi disturbi psichici, veri o presunti, oppure prendendo spunto dall'incidenza di quest'opera sulle giovani menti da educare. Incidenza considerata in modo negativo, evidentemente.
No, Lacan procede diversamente. Come procede dunque?
In primo luogo l'opera d'arte e l'autore devono essere letti separatamente. Per esempio, è penoso e ridicolo voler interpretare l'opera con i dati storici di Charles Lutwidge Dodgson. Alice non è da leggersi come un sintomo della mente malata di un professore, scisso fra l'amore per le ragazzine e il suo studio della matematica. No, l'opera d'arte deve essere interrogata non tanto in riferimento alla verità storica dell'autore quanto piuttosto in riferimento alla struttura che essa arriva a dire. L'Edipo re, per esempio, e tutte le grandi opere parlano a tutti noi perché riescono a dire elementi di struttura, di quella struttura che è l'ossatura di quello che chiamiamo inconscio.
Ma qual è la dimensione strutturale che ci presenta l'opera di Lewis Carroll? Non è la dimensione strutturale del mito, dimensione che, come dice Lacan in un suo seminario, solo Freud è stato capace di inventare nel tempo moderno con il padre della orda di Totem e Tabù. Non è neppure quella dimensione di struttura che ci rivelano il tormento di Amleto o la tragica fine di Antigone. Alice ci rivela invece quella triade strutturale che è essenziale nella condizione umana: l'immaginario, il simbolico e il reale.
E qui, secondo punto, Lacan illustra come leggere nell'opera di Lewis Carroll questa triade strutturale. Certo, si parte dalle immagini. Ma non si rimane nel puro immaginario, poiché le immagini si articolano in un gioco di combinazioni. Combinazioni che arrivano a costituire la nostra rete simbolica. Combinazioni che non riguardano tanto o unicamente i rapporti, le relazioni, le interferenze di tutto ciò che popola la nostra realtà che chiamiamo concreta, poiché riguardano tante dimensioni virtuali, che sono proprio quelle in cui ci si trova a volte a penare e sempre a vivere. Sono proprio esse a introdurre l'umano a una realtà che è veramente la più reale. A volte la conosciamo sotto il nome di morte, a volte sotto il nome di castrazione, spesso sotto il nome di sintomo. Lewis Carroll ce la presenta sotto forma dell'impossibile che diventa tutto d'un tratto familiare.
Parallelamente, infine, come l'opera d'arte non si legge con sicurezza se non tramite ciò che apporta come elemento tipico della struttura, così non si rende giustizia a un uomo, a Lewis Carroll come a un altro, se non riconoscendo quella necessità verso la quale vanno le cosiddette discordanze della sua personalità. In altre parole la genialità di Lewis Carroll non risiede nel suo debole per le bambine, né nel suo insegnamento della matematica, divertente ma pedestre. La sua genialità risiede nel fatto che le sue due posizioni, quella del sognatore e quella del matematico, si annodano come in una congiura che è purtuttavia anche uno scongiuro. (Nella traduzione abbiamo preferito l'arcaico termine congiurazione per tradurre il francese conjuration, termine che vuol dire congiura, ma anche scongiuro). Da questa conjuration scaturisce quell'oggetto meraviglioso non ancora decifrato e per sempre splendente, nota Lacan, che è la sua opera.
Alla realizzazione dell'opera Carroll, autore di Alice, e Dodgson, autore di Euclide e i suoi rivali moderni, sono entrambi necessari. Ma è solo nell'après coup che si rivela la necessità di queste due posizioni che hanno il loro esordio nella più pura contingenza.
Eppure al quadro d'insieme manca ancora qualcosa, qualcosa che viene come un'aggiunta in più, conferendo all'opera quell'equilibrio che gli accorda i colori di una sorta di felicità: è la sua religiosità, una religiosità da povero di spirito.
L'opera è colta così come l'annodamento e la risultante di più posizioni soggettive. E si rivela essere un luogo eletto per dimostrare la vera natura della sublimazione nell'opera d'arte.
L'opera di Lewis Carroll non è dunque da leggere come un sogno, come una formazione da interpretare, come un sintomo ordito dal fantasma di una persona disturbata, ma come qualcosa che funziona e funziona bene. Funzionamento che gli è, a lui, a Lewis Carroll, del tutto singolare.
Capisco in questo modo la frase che fa da esordio all'intervento di Lacan: nell'opera di Lewis Carroll "si scopre che senza uso di alcun disturbo si può produrre disagio, ma che da questo disagio scaturisce una gioia singolare". Non è necessario infatti ricorrere al disturbo psichico perché ci sia quel disagio che comunemente chiamiamo sintomo. Poiché il sintomo è quel disfunzionamento che è particolare a ogni essere che parla. E' un disfunzionamento che si caratterizza come un caso, particolare a ciascuno, di un disagio generalizzato: Disagio della civiltà, disse Freud. Ora, ciò che la psicoanalisi insegna è che da questo sintomo, da questo disagio, particolare a ciascuno, può scaturire qualcosa che non è più disfunzionante ma, al contrario, che è veramente ciò che funziona per un soggetto, e che gli è talmente singolare che Lacan, in un altro testo, arriva a connotarlo con il termine di destino. Il sintomo è elevato così a paradigma – a sinthomo, per usare una grafia cara a Lacan molti anni dopo – con la proprietà di annodare in modo inedito l'immaginario, il simbolico e il reale di un soggetto. Diversamente dal sintomo che è quel particolare che è disagio, il sinthomo è quel singolare che è gioia. Gioia per il soggetto, certo. Ma, a causa del suo annodamento singolare, esso produce un effetto di creazione, ed acquista così un valore universale.
Quest'opera si tocca tutti, dice Lacan. Tuttavia essa non ci tocca nell'universale del senso, ma ci tocca tutti, uno per uno. Il singolare non si generalizza nel mondo indistinto del tutto, ma si universalizza in un infinito aperto che è quello della creazione e dell'invenzione che è dell'ordine del non-tutto.
"Vortice dimensionale" Giulio Paci
[1] Questo testo di Antonio Di Ciaccia è la nota editoriale al n° 37 de La psicoanalisi, Astrolabio, Roma, 2005, pp. 7-10.