LA VOCE DELL'INDICIBILE
I suggerimenti della rêverie degli Artisti
di Sabino Nanni

La felicità malata ed il bisogno di soffrire: “La lettera scarlatta”

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9 luglio, 2018 - 11:01
di Sabino Nanni
Com’è possibile che una persona s’ammali per un successo? Non si tratta, di solito, di un successo qualsiasi, ma di un evento desiderato intensamente e a lungo: un matrimonio, l’arrivo di un figlio, un’affermazione sul lavoro, ecc. Questi casi non finiscono mai di stupire, eppure sono tutt’altro che infrequenti. Come sempre, l’Arte ci offre preziosi suggerimenti, utilizzabili nell’attività terapeutica, spesso con ampio anticipo rispetto a quanto arrivano a comprendere l’indagine clinica e la Psicopatologia. È il caso de “La lettera scarlatta”, capolavoro della letteratura americana dell’ottocento, scritto da Nathaniel Hawthorne.

 
I – Il romanzo

A Boston, nella prima metà del seicento, nel periodo in cui vige il Puritanesimo più rigido e intransigente, il giovane pastore Arthur Dimmesdale suscita l’ammirazione dei fedeli con la sua parola suadente e con la vita ascetica di cui offre l’esempio. Nessuno sospetta che il rigido puritano nutra in cuor suo, in contrasto con la sua esaltazione mistica, una mal repressa sensualità ed il bisogno dell’amore di una donna. Innamoratosi della giovane e bella Hester Prynne, egli ha tenuto nascosta una relazione adulterina con lei. Hester è la moglie del medico inglese, molto più anziano di lei, che comparirà con il falso nome Chillingworth. Questi l’ha mandata in America, proponendosi di raggiungerla entro breve. Tuttavia, nei due anni che seguirono l’arrivo della donna, egli non dette di sé alcuna notizia, e fu ritenuto vittima di uno dei tanti naufragi frequenti in quel tempo. Hester, rimasta incinta ed avendo partorito una bambina, non può mantenere nascosto il suo adulterio. Scoperta, viene punita secondo i costumi dell’epoca: viene condannata a portare sul petto la lettera scarlatta A, che la espone al pubblico disprezzo come adultera. Nonostante venga sollecitata con minacce e lusinghe, Hester non si piega a confessare chi è il suo amante: non vuole che l’uomo che ama perda il suo posto privilegiato nella comunità. Il marito Chillingworth, però, non è morto e, arrivato a Boston, viene a conoscenza di quanto accaduto. Uomo freddo, implacabile, vendicativo, vuole rimanere in incognito, e fa giurare alla moglie di non rivelare la sua presenza Hester acconsente per il timore che il marito rovini la reputazione dell’amante. Chillingworth, presentandosi come medico sollecito, impone la sua presenza a Dimmesdale, la cui salute è fragile, subdolamente lo tormenta, e lo spinge sull’orlo della pazzia. Alla fine Hester, più forte di Dimmesdale, ed essendosi interiormente emancipata dalla mentalità puritana grazie alla sua emarginazione, sente che la spietata espiazione, inflitta a lei e all’amante, non è né giusta, né umana. Ella propone al pastore di fuggire per iniziare altrove una nuova vita più libera e felice. Dimmesdale acconsente, tuttavia questo progetto lo sconvolge: sente emergere in se stesso un essere malvagio, trasgressivo, blasfemo. Il suo senso di colpa si acuisce, ed egli teme d’essere vittima di una tentazione del demonio. Dopo un ultimo episodio di esaltazione mistica, in cui offre il meglio di sé come sacerdote in un sermone, Dimmesdale crolla, e decide di confessare pubblicamente la sua colpa. Il suo organismo, già debilitato, non sopporta le forti emozioni che la situazione gli suscita, e muore tra le braccia dell’amata.

 
II – Citazioni e note a margine

Riporto, qui sotto, alcune citazioni testuali del romanzo, ed alcune note a margine riconoscibili perché tra parentesi quadre e scritte in corsivo. Ho sottolineato alcune parole particolarmente significative.
III - L’incontro pag. 74: Scoperto il suo adulterio, Hester viene posta sul palco della gogna, con una lettera scarlatta A appuntata al petto, per essere esposta al pubblico disprezzo. Dimmesdale, in quanto pastore della donna, viene incaricato di salire sul palco e convincere Hester a rivelare il nome dell’amante (in realtà è lui stesso!): “Per la pace della tua anima e perché. questo castigo sia pegno di salvezza eterna, ti ingiungo di rivelare il nome di colui che con te ha peccato ed ora con te soffre. Non tacere per falsa pietà e per tenerezza verso di lui, perché, credimi Hester, se anche egli dovesse scendere da un’alta posizione sociale e stare al tuo fianco su questo piedistallo di vergogna, meglio questo per lui che nascondere per tutta  la vita un cuore macchiato dalla colpa! A che servirà il tuo silenzio se non a tentarlo, a spingerlo ad aggiungere l’ipocrisia al peccato? Il Cielo ti ha concesso una pubblica espiazione che tu puoi mutare in un aperto trionfo sul male che è in te e sul dolore che ti opprime. Non negare a lui il calice amaro, ma salutare, che è stato offerto alle tue labbra e che forse egli non ha la forza di afferrare con le sue mani!” [Il rigido Superio puritano (individuale e condiviso) non ammette riparazione e risposte razionali alla colpa, infligge solo una perenne espiazione (il cuore “resta tutta la vita macchiato dalla colpa”); le alternative possibili, quindi, sono una sofferenza di tipo depressivo non superabile, oppure la negazione ipocrita della colpa. Ed è proprio per lottare contro l’ipocrisia che Dimmesdale chiede ad Hester di dargli in prestito la sua forza. Egli, pur soffrendo le pene che gli sono inflitte dalle sue istanze autopunitive, teme sopra ogni cosa la riprovazione della comunità puritana, per affrontare la quale gli mancano la forza e l’autonomia interiore. Nel contempo, con le sue parole, egli pare volersi rivelare come il colpevole: dice che l’amante “soffre”, occupa “un’alta posizione sociale”, lo ritiene tormentato dalla colpa, incline all’ipocrisia e con scarsa forza di volontà: come può sapere tutto questo? Solo la sua insospettabilità lo preserva dai rischi della confessione e della condanna.]
IV - Il colloquio pag. 79, 80: Chillingworth (il marito in incognito di Hester) raggiunge la donna in prigione, e così le parla: “…io non ti chiedo come e quando tu sia caduta così in basso (…). È troppo facile scoprirne le ragioni: la mia follia e la tua debolezza. Che cosa avevo in comune con la tua giovinezza e la tua bellezza…? Deforme dalla nascita [e molto più anziano di lei], come ho potuto illudermi che le mie doti intellettuali bastassero a nascondere questa deformità agli occhi di una fanciulla? (…) io avrei dovuto prevedere tutto quanto è accaduto (…) sin dal momento in cui, sposati, scendemmo i gradini della vecchia chiesa, avrei dovuto scorgere in fondo alla nostra strada il rosseggiare di questa lettera scarlatta! (…) Il primo torto fu il mio, quando volli unire la tua fiorente giovinezza al mio declinare” [Chillingworth, nel profondo, si è macchiato della colpa incestuosa edipica non meno di Hester e Dimmesdale: ha violato i confini che separano le generazioni. Forse in rapporto a tale colpa, egli ha orchestrato le cose in modo da far cadere Hester nello sbaglio, e liberarsi dei propri sentimenti provocandoli in lei: l’ha mandata da sola in America, senza dare più notizia di sé per due anni. Forse lo stesso insieme di atti ha anche il significato di un’autopunizione che egli s’infligge come una sorta di contrappasso]
V - Hester al lavoro pag. 84: Hester, dopo la liberazione dalla prigione: “È strano come – col mondo aperto dinanzi a sé, poiché nessuna clausola restrittiva della condanna la tratteneva entro i limiti di quella colonia puritana remota ed oscura (…) – è strano come questa donna persistesse nel chiamare suo asilo l’unico luogo dove la sua vergogna fosse nota. Ma una fatalità, una forza irresistibile che sembra una condanna, spinge gli esseri umani ad aggirarsi come fantasmi attorno ai luoghi dove qualche avvenimento ha lasciato una traccia profonda nella loro vita (…) era come se un’altra nascita, più forte della prima, avesse tramutato per lei quella foresta inospitale e selvaggia in una seconda patria. Al contrario, le era divenuto estraneo persino quel villaggio della vecchia Inghilterra dove sua madre sembrava ancora conservare per lei i ricordi della sua infanzia felice (…) Forse un altro sentimento la tratteneva in quel luogo (…) lì viveva l’uomo al quale essa si sentiva avvinta…” [Quest’ultima sembra la spiegazione più evidente. Tuttavia Hawthorne ne aggiunge un’altra, più profonda. Hester, con la sua condanna, ha vissuto nella colonia un evento traumatico. Una coazione a ripetere la spinge a perpetuare e a rinnovare il trauma subìto, fino a quando la sua emancipazione interiore, legata (come si vedrà più sotto) all’essere stata bandita, le permetterà di decidere di partire] – pag. 90, 91: Hester “le accadeva talvolta di credere… che la lettera scarlatta l’avesse dotata di un senso… quel simbolo le dava la facoltà di scorgere i peccati nascosti nel segreto dei cuori umani. Quelle rivelazioni la spaventavano… Erano forse insidiosi sussurri del Maligno che, per farla sua, cercava di persuaderla che ogni aspetto di purezza non è che menzogna e che, se la verità fosse palese, la lettera scarlatta avrebbe dovuto fiammeggiare su molti petti, oltre che sul suo? E queste insinuazioni… erano vere? (…) Questa perdita di fede è certo una delle conseguenze più gravi del peccato, e il fatto che Hester Prynne si rifiutasse di credere che qualcuno potesse essere più colpevole di lei prova che qualcosa di buono viveva ancora in questa povera vittima…” [Inizia, qui, l’emancipazione interiore di Hester: comincia a rendersi conto della menzogna ipocrita che regna nel mondo puritano. Tuttavia è ancora abbastanza legata alla rigida mentalità religiosa da pensare che le sue critiche siano ispirate dal Maligno]
IX - Il medico pag. 121: Dimmesdale nel suo rapporto col rivale-curante Chillingworth: “Un uomo che ha da celare qualcosa deve evitare l’amicizia del suo medico. Se questi ha un’innata sagacia, … intuito, se non si mostra importuno e indiscreto, se possiede il potere… di creare fra il suo spirito e quello del suo paziente una tale affinità che questo si trova a dire, senza rendersene conto, ciò che credeva solo di avere pensato; se tali confidenze sono ricevute con silenziosa simpatia, senza la più piccola esclamazione, solo con qualche sospiro e qualche parola qua e là per indicare che si è capito; se a queste qualità di confidente si uniscono i vantaggi della reputazione professionale, allora presto o tardi l’anima sofferente finirà coll’abbandonarsi, e da essa, come in un incubo, scaturiranno tutti i suoi più riposti segreti” [attrazione irresistibile della figura paterna protettiva, benevola ed empatica, che Dimmesdale, lasciandosi ingannare, vuole vedere nel nemico]
XI - Il segreto di un cuore pag. 136: Dimmesdale confrontato coi santi puritani: “A tutti questi mancava il dono che discende sugli apostoli eletti il giorno della Pentecoste sotto forma di una lingua di fuoco, che simbolizza non la capacità di parlar dialetti stranieri o sconosciuti, ma quella di rivolgersi all’umanità col linguaggio del cuore. Questi confratelli (…) se anche l’avessero tentato, non sarebbero riusciti a spiegare le verità più alte con umili e povere parole e immagini disadorne: la loro voce giungeva fioca e indistinta dalle alte vette dove essi erano soliti dimorare” [Il contatto (benché per lui angosciante e colpevolizzato) con una parte autentica del suo essere facilita, in Dimmesdale, il compito di mettersi in contatto con quanto è altrettanto autentico nei suoi interlocutori, gli consente di comprenderlo empaticamente, e di comunicare per il tramite di esso: il “linguaggio del cuore”] – pag. 137: Dimmesdale: “La sua natura lo portava ad adorare la verità e a considerare come ombra priva di significato tutto ciò che non fosse compenetrato dall’essenza divina. Che cos’era egli allora? Semplice materia? Un’ombra vana? (…) io, vostro pastore in cui voi riponete fede e reverenza, io non sono che menzogna e putredine!” [considera disgustosa (“putredine”) e, paradossalmente, priva di significato quella che, in realtà, è la parte più autentica di lui, quella che lo caratterizza come individuo; ossia il suo essere capace di un amore spontaneo e sincero, a dispetto delle leggi che vorrebbero proibirlo. Pur negandone il significato e il valore, egli, intanto, ne è cosciente e ne è condizionato.] – pag. 138: Dimmesdale si accusa, dal pulpito, d’essere “il più vile dei vili”, ma non viene preso alla lettera; al contrario, le sue autoaccuse, considerate come eccessive, vengono ritenute segno di santità: “Il pastore – che sottile e impenitente ipocrita era mai! – sapeva in qual luce lo mettessero quelle mezze confessioni. Aveva cercato d’ingannarsi, accusandosi, ma non aveva fatto che macchiarsi di un altro peccato, da cui non aveva avuto sollievo, ma vergogna. Aveva detto la verità, ma l’aveva trasformata in menzogna!” [nell’alternativa tra negazione ipocrita della colpa ed espiazione (vedi nota di pag. 74), ossia tra menzogna e autodenuncia, Dimmesdale non può fare a meno di scegliere la prima. Il suo Superio spietato non gli concede neppure di riscattarsi con un atto di coraggio, e lo induce ad espiare le colpe commettendo altre colpe.] – pag. 139: Dimmesdale: “Per colui che mente, tutto l’universo è falso, si trasforma in un mondo fantasmagorico che sfugge a qualsiasi tentativo di comprensione, ed il mentitore stesso, che si mostra sotto una falsa luce, diventa un’ombra, o meglio, cessa di esistere” [Il soggetto individuale (lo “io”) esiste solo, originariamente, in un rapporto dialettico con un oggetto esterno (il “tu”). I desideri, i sentimenti, i pensieri suscitati da tale rapporto (se esso è sincero) costituiscono la base della consapevolezza di quel che si è. Se tale rapporto originario (e quelli che ne prendono il posto) è falso, il soggetto perde la possibilità di autodefinirsi, perde se stesso. In una comunità dove la menzogna rappresenta una scelta pressoché obbligata, gli individui come soggetti sono condannati a non esistere.]
XII - La veglia del pastore pag. 140, 141: Dimmesdale sale nottetempo sul palco della gogna. Egli, “povera anima sensibile e affranta, combattuta dalle forze contrastanti del rimorso e della paura”, pur sentendone il desiderio, non è mai riuscito a confessare pubblicamente il suo “delitto”. Ma ora “tutta la città dormiva e non vi era pericolo d’essere scoperti”, e quindi, venendo meno la paura, egli si pone sul palco dei colpevoli – pag. 143: Passando di lì il reverendo Wilson, Dimmesdale a stento si trattiene dal parlare: “…“Buona sera a voi, venerabile fratello Wilson! Venite qua, vi prego, e passeremo assieme un’ora piacevole!...”. Buon Dio! Aveva veramente Dimmesdale pronunciato queste parole? Per un istante egli lo credette, ma era stata solo la sua immaginazione a proferirle” – pag. 144: dopo aver immaginato d’essere scoperto, la mattina dopo, sul palco della gogna, “travolto dal grottesco orrore di questo quadro, il pastore – senza accorgersene e sgomentandosene egli stesso – proruppe in una gran risata…” [La confessione di Dimmesdale è espressione di un compromesso tra le sue istanze autopunitive e la sfida alle istanze stesse (e, con esse, all’autorità morale della comunità). L’emergere di un aspetto grandioso arcaico del suo mondo interno (ossia di una parte della sua mente che, rimossa e isolata dalla realtà, è rimasta allo stato primitivo, priva di scrupoli morali e di realismo) comporta un indebolimento della barriera della rimozione (il saluto beffardo all’anziano sacerdote e la risata che sfida la riprovazione) e dell’esame di realtà (non sa più distinguere le parole pronunciate da quelle solo pensate)]
XVII - Il pastore e la parrocchiana pag. 177, 178:  s’incontrano nel bosco. Hester al pastore: “tu fai del bene… Non ti è di conforto questo?” – Dimmesdale: “Non fa che accrescere la mia pena, Hester… – rispose il pastore con un amaro sorriso…” (…) Hester: “Non è dunque vera questa penitenza contrassegnata da tante opere buone? Perché non dovresti trovare la pace?” – “No, Hester, no – replicò Dimmesdale – Non è vero quello che dici! Freddo e morte: ecco quello che c’è in me! Non è pentimento questo, non è mai stato pentimento! Da molto tempo avrei dovuto gettare questa maschera di santità e mostrarmi agli uomini quale veramente io sono, come mi vedranno il giorno del Giudizio…” [sente emergere in lui, in rapporto alle lodi e all’ammirazione che riceve, una dimensione grandiosa arcaica, per la quale tutto è possibile e lecito, e che non conosce pentimento] (…) “… ah! Se avessi un amico, o anche il peggiore dei miei nemici, a cui, quando più m’investono le  lodi degli uomini potessi ricorrere, e che vedesse in me il più vile di tutti i peccatori, credo che la mia anima troverebbe ancora la forza di vivere. Anche questo barlume di verità basterebbe a salvarmi! Ma così, ora tutto è menzogna… falsità… morte!” [Solo frustrando e umiliando le pretese non realistiche del suo Sé grandioso arcaico, egli ritiene di trovare la verità su se stesso. Come si è visto più sopra, la sua morale puritana, rigida e spietata, non ammette la possibilità di riparazione, ma solo di espiazione; tuttavia, per Dimmesdale, non è sufficiente una “penitenza contrassegnata da tante opere buone”, egli ha bisogno d’essere umiliato anche e soprattutto per “ritrovare la forza di vivere”, per “salvarsi” (“non perdersi” nella follia] – pag. 180: Hester: “Ciò che abbiamo fatto aveva in sé la sua consacrazione. Noi lo sentimmo e ce lo siamo detto. Lo hai dimenticato?” – “Taci Hester! – disse Dimmesdale levandosi in piedi – No, non l’ho dimenticato!” [Attribuire un carattere “sacro” all’amore e alla felicità di lui come individuo significa, per Dimmesdale, porsi al di fuori della morale puritana e uscir di senno]
XVIII - Un’ondata di sole pag. 184, 185: Dopo il colloquio nel bosco, in cui Hester e Dimmesdale hanno deciso la loro fuga: “Arthur Dimmesdale fissò Hester con uno sguardo in cui gioia e speranza si mescolavano al timore, all’orrore quasi, per il coraggio di quella donna che aveva detto ciò che egli pensava, ma non osava dire. Ma quel lungo periodo in cui era vissuta non come un’estranea, ma al bando del consorzio umano, aveva abituato Hester Prynne, già energica per sua natura, a una libertà di pensiero che il pastore era ben lungi dal possedere. Essa si era aggirata senza guida alcuna in un deserto morale vasto, aspro e tetro (…) Per anni aveva guardato, come spettatrice, con distacco, alle istituzioni degli uomini (…) Il suo destino e le sue sventure l’avevano resa libera (…) Il pastore invece non aveva mai sopportato una prova che lo ponesse al di sopra delle comuni leggi umane, sebbene una volta egli avesse trasgredito alla più sacra delle leggi. Ma quello era stato un peccato di passione, non un peccato compiuto con lo scopo determinato di peccare (…) Posto al vertice della scala sociale, come tutti i preti a quell’epoca, più di ogni altro era legato alle leggi, ai princìpi, ai pregiudizi del mondo. Come sacerdote era imprigionato nelle regole del suo ordine; come uomo che una volta ha peccato… doveva imporsi una vita della più rigida virtù, quasi che ogni colpa gli fosse ignota. [Il Superio (individuale e condiviso) impregnato di cultura puritana non si limita ad esigere la repressione dei desideri colpevoli, pretende anche che essi siano scacciati dalla coscienza, che siano soppressi e non siano mai esistiti. L’appartenenza ad un gruppo dominato da tale Superio condiviso rappresenta una prigione che impone, di fatto, la menzogna e l’ipocrisia, e dalla quale si può sfuggire (interiormente) solo se si è messi al bando.] Così quei sette anni d’infamia non erano stati per Hester Prynne che una lunga preparazione a quell’ora decisiva [quella della decisione di fuggire]. Ma per Dimmesdale la cosa era diversa. Se un uomo come lui fosse ancora caduto nel peccato, che scusa avrebbe potuto provare? Nessuna, se non che egli era stato prostrato da una troppo lunga sofferenza (…) che infine, sulla strada cupa e solitaria di questo povero pellegrino stanco e malato era apparso un raggio d’affetto e di simpatia che gli prometteva una nuova vita e una nuova verità in cambio di quella tremenda condanna che stava espiando” [L’unica giustificazione possibile del suo peccato può essere solo frutto di umana comprensione e carità, aspetti del tutto sconosciuti alla morale puritana]
XX - Il pastore nel labirinto pag. 197: Dimmesdale, euforico, dopo aver deciso la fuga con Hester: “…non gli sembrava possibile che tutto quanto era avvenuto fosse davvero una realtà”– pag. 198: “Al termine del colloquio con Hester il tumulto dei pensieri accese un nuovo vigore di vita a Dimmesdale, il quale si avviò a passo rapido verso la città (…) superò ogni ostacolo con una baldanza che lo meravigliava. Si stupiva al pensiero che solo due giorni prima la stessa strada lo aveva stancato al punto da costringerlo a fermarsi più di una volta per riprendere fiato” [Il riemergere dalla rimozione del Sé grandioso arcaico e la temporanea cessazione del conflitto con le sue istanze autopunitive provocano uno sprigionarsi di energie ed uno stato euforico: Dimmesdale sta entrando in uno stato ipomaniacale] – pag. 199: “man mano che si avvicinava alla città, molte cose che gli erano familiari cominciarono ad assumere un aspetto insolito (…) Lo stesso gli accadeva con coloro che incontrava (…) era impossibile definire in che cosa quegli esseri differissero da quelli che aveva conosciuto, ma pure il pastore sentiva che un qualche cambiamento era avvenuto in loro. Uno stupore più profondo lo colpì quando passò davanti alla propria chiesa: l’edificio aveva un aspetto così strano eppur così familiare, che Dimmesdale si domandò se sino ad allora l’avesse visto solo in sogno, o se, per caso, non sognasse in quel momento. Tale fenomeno… dimostrava che tutti questi mutamenti erano avvenuti, non nel mondo esteriore, ma in lui (…) La città era la stessa di prima, ma non era più lo stesso pastore quello che era uscito dalla foresta. Egli avrebbe potuto dire a coloro che lo salutavano: “Io non sono l’uomo che credete: quell’uomo l’ho lasciato nella foresta, sepolto in una forra” (…) Gli amici avrebbero certo insistito: “Tu sei ancora lo stesso!”, ma l’errore sarebbe stato loro, non suo” [Dimmesdale sta vivendo un’esperienza di derealizzazione. Sente che il Sé grandioso arcaico, emerso dalla rimozione, rappresenta la parte più viva ed autentica di lui stesso. Tutto ciò (cose e persone) con cui era entrato in contatto nella sua precedente vita gli pare  appartenere ad un sogno, un brutto sogno, da cui ora si è risvegliato. La fantasia gli pare realtà e la realtà fantasia: l’esame di realtà è compromesso] – pag. 199, 200, 201, 202: “Ad ogni passo lo prendeva il desiderio di far qualcosa di strano, di mostruoso, di cattivo, qualcosa che era allo stesso tempo nei limiti e al di fuori della sua volontà; e solo con un grande sforzo egli riusciva a vincere questi impulsi”. Incontra, dapprima, un vecchio diacono, e qui si trattiene a stento dal pronunciare parole blasfeme. Poi incrocia un’anziana vedova, la cui unica consolazione è la fede nell’al di là, e gli verrebbe spontaneo dimostrarle che l’anima non è immortale. Ancora, si sente tentato di corrompere una sua giovane parrocchiana, d’insegnare parole sconce a dei bambini, di fraternizzare con dei marinai ubriachi e di ridere alle loro sporche facezie. “… “Che cos’è che mi tenta e mi perseguita così?”, si chiese alla fine il pastore… “Sono forse pazzo? Sono già completamente in balia di Satana? Ho forse fatto un contratto con lui nella foresta, e l’ho firmato col mio sangue?...” [Nel suo stato ipomaniacale, emerge in Dimmesdale un modo d’essere, caratterizzato da onnipotenza, per cui tutto diviene lecito e possibile: la barriera della rimozione è infranta] – pag. 204: “Mentre era in preda a queste dolorose riflessioni qualcuno bussò alla porta dello studio – Avanti – disse il pastore, e gli balenò in mente il pensiero che dovesse entrare uno spirito del male. E la sua previsione si avverò: il vecchio Roger Chillingworth apparve sulla soglia. Dimmesdale rimase immobile, pallido e muto, con una mano sulla Scrittura ebraica e l’altra appoggiata al petto” [Chillingworth è il marito tradito di Hester, comparso con intenti vendicativi sotto falso nome e sotto le mentite spoglie di medico curante del pastore. Egli rappresenta una figura paterna persecutoria. Nel momento in cui compare, il pastore si appoggia alla Scrittura, ossia al verbo del Padre idealizzato (scisso dall’oggetto persecutorio), che egli contrappone all’altra figura paterna. Dopodiché Dimmesdale s’immerge nella scrittura del suo sermone. La comparsa di Chillingworth distoglie il pastore dal pensiero di Hester (della donna desiderata e contesa) e dal Sé grandioso arcaico che con lei si è risvegliato, e sposta il suo investimento affettivo verso il suo oggetto arcaico idealizzato, ossia Dio] – pag. 206: “… gettati nel fuoco i fogli in cui aveva incominciato a scrivere il sermone dell’Elezione, ne incominciò un altro; e gli venne di scriverlo con tanta intensità di emozione e tanta facilità d’espressione che si credette veramente ispirato, e si stupì solo che il Cielo, per far conoscere la musica grande e solenne dei suoi oracoli, si servisse di un intermediario corrotto come lui” [Ora, recuperato un rapporto privilegiato con l’oggetto arcaico idealizzato (“ispirato da Dio”) il suo stato ipomaniacale persiste, infondendogli energie e capacità, ma la sua qualità è cambiata: vengono ripristinate la barriera della rimozione e l’esame di realtà]
XXII - Il corteo pag. 217: mentre procede col corteo diretto al palazzo dove avverrà l’elezione del governatore ed egli pronuncerà il suo sermone: “… dal giorno in cui era sbarcato nella Nuova Inghilterra, il pastore non aveva mai avuto il passo così fermo, la figura così eretta, il portamento così sicuro (…) ciò non era effetto di una forza materiale, ma di qualche cosa di spirituale, di origine divina (…) il suo sguardo era assente… Qui era il suo corpo che si muoveva con inusitata energia, ma il suo spirito dov’era? Lontano, nell’intimità più segreta del suo essere, tutto intento a riordinare quei gravi pensieri che fra poco si sarebbero tradotti in parole [il sermone che stava per pronunciare]; egli non vedeva nulla, non udiva nulla, non percepiva ciò che lo circondava, ma era il fervore dello spirito che lo sorreggeva e lo spingeva innanzi, inconscio del peso della carne. Gli uomini superiori riescono spesso con uno sforzo eroico a vincere la prostrazione in cui sono vissuti per tanto tempo, anche se dopo li attende un abbattimento più profondo di quello che già li teneva” [Sentendosi partecipe della grandezza dell’oggetto arcaico idealizzato (è in rapporto con Dio “nell’intimità più segreta del suo essere”), Dimmesdale trae la sua forza anche dal suo essere “inconscio del peso della carne”: il suo stato di esaltazione ipomaniacale è fondato anche sulla negazione della fatica, della sofferenza, e dei limiti del suo corpo. Il risultato è che, all’esaltazione, segue un crollo, un “abbattimento più profondo di quello che già lo teneva”]
XXIII - La rivelazione della lettera scarlatta pag. 224: Dimmesdale, riguardo al suo sermone: “… mai la divina ispirazione si era espressa in modo più evidente attraverso labbra mortali. Questa era discesa in lui, si era impadronita di lui…, lo aveva riempito di idee che stupivano lui non meno di chi lo ascoltava” [Fusione con l’oggetto arcaico idealizzato] – pag. 228: Dimmesdale, dopo il sermone, sale sul palco della gogna, deciso a rivelare a tutti la sua colpa; rivolgendosi ad Hester: “Non è meglio questo di ciò che abbiamo sognato nella foresta?” – pag. 229, 230: rivolto alla folla: “…in mezzo a voi vi era un uomo, il cui peccato e la cui infamia non vi facevano fremere! (…) Il marchio era su di lui! – gridò quasi con fierezza, deciso ormai ad arrivare in fondo alla propria confessione – (…) Con un moto convulso si strappò sul petto le vesti sacerdotali e la rivelazione fu completa [scopre la lettera scarlatta che egli si è impressa sula pelle] (…) il pastore rimaneva diritto, col volto acceso da una luce di trionfo, come chi è giunto alla vittoria attraverso una crisi del più acuto dolore”. Ora il pastore, esausto, si accascia in uno stato di agonia: “Roger Chillingworth si inginocchiò accanto a lui – Mi sei fuggito, – continuava a ripetere – mi sei fuggito!” – pag. 231: Hester, rivolgendosi al pastore morente: “Ci rivedremo ancora?... Saremo uniti nella nostra vita immortale? Certo il nostro dolore ci ha redenti…” (…) Dimmesdale: “Taci, Hester, taci! – rispose il pastore, con voce incerta, ma solenne – La legge che abbiamo infranto… il terribile peccato che si è oggi rivelato: questi soli devono essere ora i tuoi pensieri! (…) Dio… ha dato segni palesi della sua bontà, soprattutto con i dolori che mi ha inflitto, con questa tortura rovente che mi ha straziato il petto (…) conducendomi qui, a morire questa morte di trionfante ignominia dinanzi al popolo… Se una sola di queste angosce mi fosse mancata, sarei stato dannato [“lost”: perduto] per sempre…” [L’espressione “trionfante ignominia” riassume bene lo stato d’animo di Dimmesdale nei suoi ultimi momenti. Il suo Sé grandioso (non realistico, amorale, ma anche la parte più autentica di lui stesso) è tenuto a bada dalla auto-mortificazione e dalla ignominia che devono protrarsi anche nella vita ultraterrena. Tuttavia, il suo manifestarsi è “trionfante”: palesandosi, afferma la propria esistenza, in contrasto con quanto vorrebbe la morale puritana; si afferma vittorioso anche sul suo nemico Chillingworth, figura paterna punitiva e personificazione del suo Superio persecutorio.]

 
III - “Coloro che soccombono al successo” e Dimmesdale

Freud illustrò due casi clinici di “coloro che soccombono al successo” in uno scritto, così intitolato, inserito in un saggio del 1916. Utilizzando il paradigma del personaggio ibseniano Rebecca Gamvik (co-protagonista di “Rosmesholm”), egli ricondusse la reazione paradossale di questi pazienti, di fronte alla realizzazione dei propri desideri, al risveglio di colpe antiche. Per l’inconscio non si tratta di una semplice rievocazione di situazioni passate (rievocazione che, se cosciente, potrebbe cogliere le analogie, ma anche le differenze con la situazione presente), ma di un vero e proprio ritorno ad un’epoca remota, con tutta l’immaturità affettiva che la caratterizzava: un comportamento che può evocare un desiderio incestuoso viene, perciò, vissuto come effettivo incesto.
Recentemente (2012), l’analista americana Diane Donnelly ha ripreso l’ipotesi freudiana, ampliandola e correggendola parzialmente. Ella, come fonte di suggerimenti utili alla comprensione dei casi da lei trattati, prese in considerazione la figura di Dimmesdale de “La lettera scarlatta” di Hawthorne. Riassumo, qui sotto, quanto scritto dall’Autrice.
I casi descritti da Freud presentavano un crollo mentale (dovuto al successo ed ai sentimenti di colpa che esso risvegliava) caratterizzato, per la sua stessa natura, da intensa e insistente angoscia e pena. Per la Donnelly, occorre distinguere tra la sofferenza implicita nel crollo mentale, da quella auto-imposta. Quest’ultima serve ad evitare l’ancor più intensa angoscia derivante dalla perdita delle funzioni mentali superiori. È questo, ad esempio, il pericolo dell’amore contraccambiato. Poiché trovare un oggetto d’amore significa per l’inconscio ritrovarlo, un’esperienza di amore corrisposto evoca una replica dell’esperienza infantile felice di una madre adorante e di un mondo magicamente docile ai propri comandi. Anche qui, per l’inconscio, questa non è una semplice rievocazione, ma un vero e proprio ritorno a quell’età dell’oro. Ciò provoca una regressione a quell’epoca in cui le funzioni mentali superiori erano inesistenti o rudimentali: crollano 1) la “barriera della rimozione” (la coscienza viene invasa da contenuti ordinariamente inammissibili), 2) l’esame di realtà (viene meno la distinzione tra fantasia e realtà), 3) la capacità di giudizio morale (la distinzione tra bene e male), 4) una stabile identità (la tendenziale identificazione con l’oggetto d’amore porta ad una perdita della distinzione tra ciò che si è e ciò che non si è). L’indebolimento di tutte queste barriere o distinzioni è ciò che rende pericoloso l’amore contraccambiato: il rischio è uscire di senno, quel che comunemente si definisce il “perdere la testa”. L’amore “felice”, non temperato da realismo, può tradursi in uno stato ipomaniacale, come pure i successi in altri settori della vita. Si tratta di esperienze che comportano il possesso di grandi poteri. Ciò può produrre la regressione ad una modalità di pensiero di tipo infantile. Se quel che più si desidera diviene realtà, ciò può intensificare il pensiero magico infantile e comportare la difficoltà a distinguere il proprio potere reale da quello magico immaginario. Per contro, le esperienze di frustrazione prodotte da sofferenza fisica o mentale, rinforzano la rimozione e le funzioni adattive dell’Io e del Superio. Le frustrazioni obbligano a prestare attenzione alla realtà e allontanano i pensieri suscitati dalla gioia. Esse controbilanciano il pensiero magico, perché se si soffre, si scopre che ciò che si desidera non diviene realtà. Le frustrazioni, inevitabili nel corso della vita, sono importanti per il mantenimento delle funzioni mentali superiori. Se esse non bastano, si rende necessario ricercare altre sofferenze allo scopo di proteggersi dal pericolo della regressione. Per la Donnelly, non è casuale che Dimmesdale, proprio nell’unico momento privo di sofferenza (quello dell’incontro con Hester nel bosco e della loro decisione di fuggire insieme), perda la rimozione e la sua coscienza sia occupata da contenuti disturbanti finora inconsci, con un pauroso affievolimento dell’esame di realtà. E neppure è casuale che egli solo imponendosi il lavoro e scacciando dalla mente i pensieri felici ripristini la rimozione, l’esame di realtà, e recuperi la propria identità “e la propria salute mentale”. Su quest’ultimo punto, dissento dall’Autrice: non ritengo che qui Dimmesdale esca dallo stato ipomaniacale: piuttosto, egli lo stabilizza spostando l’investimento narcisistico da un “Sé grandioso arcaico” amorale e onnipotente, all’oggetto arcaico idealizzato (Dio) e sentendosi partecipe (questa volta in modo meno conflittuale) della Sua grandezza e del Suo potere. Purtroppo, la sua sottomissione al Dio implacabile dei puritani lo porta ad espiare la sua colpa con la rinuncia definitiva alla felicità (persino nell’al di là) e con la morte.
Dimmesdale è dotato di molte qualità ammirevoli che manifesta nella sua missione pastorale: egli possiede una voce dolce e suadente, una grande forza espressiva, una valida capacità di manifestare e comunicare emozioni. Non solo, quindi, è consapevole dell’amore di Hester (la donna sopporta le sofferenze di lui, oltre che quelle di lei), ma anche della venerazione dei suoi fedeli. Tutto questo gli procura sentimenti di colpa e di vergogna; gli procura, però, anche difficoltà a mantenere integri l’esame di realtà e la barriera della rimozione, ossia le basi della stabilità mentale. Lotta contro la difficoltà a distinguere il suo potere reale dai poteri magici che una parte di lui crede di possedere; fatto, questo, che tende a compromettere l’esame di realtà. I suoi pensieri angosciosi e le sofferenze che egli s’infligge (si auto-flagella, s’impone digiuni ed estenuanti notti di veglia) sono “l’unica cosa che gli conferisce un’esistenza reale in questo mondo”. La felicità è per lui pericolosa: evitarla, infliggendosi sofferenze e frustrazioni, è ciò che gli consente di non uscire di senno.

 
IV – Considerazioni conclusive

Riporto, qui sotto, alcune riflessioni (già esposte in post su Facebook), frutto delle  letture confrontate con la mia esperienza clinica sui casi di “coloro che soccombono al successo”.
- Che cosa distingue una persona interiormente libera e autonoma da una dipendente? O una persona positiva da una disfattista? Da un punto di vista clinico, la contrapposizione che più interessa (quella più vera) non è tra il pessimista e l’ottimista, ma tra la persona permanentemente frustrata e quella capace di affermarsi in modo realistico. Lo capiamo ricostruendo la storia di queste persone. All’origine, la vita interiore è dominata, nella quasi totalità dei casi, da un sentimento di grandiosità: le sollecite cure materne, il particolare riguardo che si tributa al bambino piccolo, creano l’illusione di un perfetto dominio sul mondo (la “illusione primaria” di Winnicott, il “Sé grandioso arcaico” di Kohut). Da qui hanno inizio due possibili evoluzioni: in quella più sana, la grandiosità originaria è progressivamente ridimensionata e trasformata tramite “frustrazioni ottimali”, ossia commisurate a quanto il piccolo può tollerare alla sua età e temperate dalla comprensione empatica dei genitori. L’individuo diviene progressivamente cosciente della realtà (degli ostacoli che essa oppone alle ambizioni grandiose, ma anche delle opportunità che essa offre), senza perdere la sicurezza di sé, anzi rafforzandola tramite le nuove acquisizioni. Nel secondo tipo di evoluzione (quella più malata ma anche, purtroppo, la più comune), le frustrazioni che si oppongono alla grandiosità originaria sono brutali. Da sottolineare è che esse possono essere il frutto di un’educazione eccessivamente severa, ma anche di una eccessivamente permissiva: se non ci pensano i genitori a far presente che “non si può avere tutto”, ci penserà la realtà (ad esempio quella delle difficoltà scolastiche, o quella dei “bulli” tra i compagni di scuola) di fronte alla quale l’individuo si troverà del tutto impreparato. In questa evoluzione patologica, la grandiosità originaria, brutalmente repressa, rimarrà immodificata nelle profondità della mente, ed il suo riaffiorare costituirà, per l’individuo, non una risorsa, ma un pericolo. Essa, infatti, non riconoscendo limiti, può porre la persona al di fuori della realtà e della moralità: ne può derivare uno stato maniacale. Per evitare il riemergere di questa pericolosa tendenza, l’individuo può accettare passivamente le frustrazioni, o anche ricercarle più o meno consapevolmente. Una delle numerose implicazioni di questo modo d’essere è che l’individuo, costretto a rinunciare “obtorto collo” ad ogni forma di grandiosità, tenderà a goderne “per procura” proiettandosi in quella di un “idolo”, o di un leader, o di un’ideologia, o di un’istituzione. Di qui quelle prese di posizione acritiche, emotive, impossibili da confutare con la logica, o con l’evidenza dei fatti. Esse soddisfano un’esigenza emotiva irrinunciabile: quella di “prendere a prestito” la grandezza di un’entità superiore, nell’impossibilità di averne una autonoma. Wilhelm Reich, con il suo concetto di “narcisismo nazionale” spiegò a questo modo la psicologia del piccolo borghese frustrato che appoggiò il nazismo.
- Sostituire un moralismo con un altro moralismo di segno opposto non ci libera dalla prigione del conformismo acritico e dell’ipocrisia. Nel corso degli anni, la mentalità bacchettona degli anni ‘50 è stata sostituita dall’odierno mainstream politically correct: sempre di moralismo si tratta. Per uscire da questa gabbia, che c’impedisce di pensare con la nostra testa, è necessario capire che cosa ci lega al pensiero dominante, e aiutare a capirlo coloro che lo vogliono. Sfuggire al moralismo conformista significa, per molti, sottrarsi all’azione protettiva del “gregge”, ossia dover contare sulle proprie forze. Significa essere pienamente coscienti di quel che si è, di quel che veramente si sente e si pensa come individui, e questo a molti fa paura. Costoro, i cui pensieri e sentimenti spontanei sono stati brutalmente repressi, e sostituiti da quel che si “deve” pensare e sentire, hanno mantenuto, in profondità, un modo di essere primitivo, “ineducato” alla realtà e alla morale. Il realismo ed i princìpi morali non sono stati gradualmente assimilati, compresi, sottoposti a critica e fatti propri, sono stati soltanto imposti ed auto-imposti. Ecco perché il moralista (di qualsiasi tipo) è anche ipocrita; ecco perché tanto facilmente il moralista si rivela profondamente immorale.
- Quando si dice che “basta che ci sia l’amore, e tutto si risolve” (come se ciò giustificasse qualsiasi tipo di rapporto), si commette un errore madornale. Certamente l’amore è indispensabile, è un aspetto essenziale della nostra vita, ma non è affatto una panacea che risolve tutti i mali. Al contrario, se non è accompagnato e temperato dalle facoltà mentali che consentono di cogliere la realtà dei nostri simili, l’amore può diventare un veleno. L’amore più intenso e contraccambiato, se non è temperato da un’adeguata dose di realismo, evoca quella che per la maggior parte di noi è stata l’età più felice della vita: quella in cui, bambini piccoli, avevamo a nostra completa disposizione una madre sollecita e adorante, ed il mondo ci appariva magicamente docile ai nostri comandi. Per l’inconscio, tutto questo non è una semplice rievocazione, è un vero e proprio ritorno a quell’età dell’oro. Ciò significa una regressione a quell’epoca della vita in cui le facoltà mentali superiori erano ancora inesistenti o rudimentali: s’indebolisce, o viene meno del tutto, l’esame di realtà (si perde la distinzione tra fantasia e realtà); viene a mancare, tendenzialmente, una stabile identità (il sentirsi “tutt’uno” con l’oggetto d’amore porta ad una perdita della distinzione tra ciò che si è e ciò che non si è); possono essere compromessi anche la capacità di comprensione empatica ed il giudizio morale: se il mondo esiste soltanto per soddisfare i nostri desideri (come esso ci appare all’inizio della vita), non si sa più riconoscere, tra quanto si vorrebbe, quel che può nuocere alla persona che si ama, tutto diventa lecito. L’indebolimento di queste facoltà mentali è ciò che rende pericoloso l’amore contraccambiato non temperato da realismo: il rischio è quel che il senso comune definisce il “perdere la testa” per qualcuno. Se ciò vale per le persone adulte, a maggior ragione vale quando uno dei partner è un bambino o un adolescente: qui i danni apportati alle facoltà mentali superiori possono essere di estrema gravità, permanenti o irreversibili.
- Più l’individuo è succube del moralismo, più gli diviene difficile o impossibile essere fedele a se stesso. Questa fedeltà è l’aspetto essenziale della salute mentale. Riconoscere se stessi per quel che si è realmente significa, per la maggior parte delle persone, dover fare i conti con le proprie colpe, anche con quelle che la morale corrente ritiene inammissibili. Per il moralista è impossibile trattare i propri sentimenti di colpa nel modo più positivo e sano: rimediare, per quanto possibile, e non ricadere più nello stesso errore. La sua “morale” è implacabile: non ammette riparazione, ma solo espiazione. Ecco perché, al moralista restano solo due scelte: o la negazione ipocrita delle colpe, oppure la depressione.
- Ognuno di noi, per sentirsi pienamente un soggetto (l’autore dei propri sentimenti, della propria volontà, delle proprie opinioni) ha bisogno di almeno un rapporto sincero. Solo in questo può autodefinirsi: capire chi egli stesso è in base ai sentimenti, ai desideri, ai pensieri che tale rapporto suscita. Chi mente sistematicamente, finisce per perdere la propria identità e la propria autentica soggettività; finisce, come l’ibseniano Peer Gynt, per “morire senza mai essere effettivamente nato”. Esistono culture dove la menzogna rappresenta una scelta pressoché obbligata: laddove la morale è talmente rigida e spietata (priva di “carità”) da non ammettere possibilità di riparazione delle colpe, ma solo espiazione, l’unica scelta per poter sopravvivere è la negazione ipocrita delle colpe stesse; è la menzogna che pervade persino i rapporti più intimi. In tali culture, gli individui, come autentici soggetti, sono condannati a non poter esistere.

 
Bibliografia
1.     Autori Vari (2005) Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi - Vol. 4 (RCS Quotidiani 2006 - RCS Libri 2005 - Il Corriere della Sera)
2.     Donnelly Diane (2012) The function of suffering as portrayed in 'The scarlet letter' and reflected in clinical work (Journal Amer. Psychoanal. Assn. Vol. 60, N° 6, pag. 1139)
3.     Freud Sigmund (1916) Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico (O.S.F Vol. 8 – Boringhieri – 1976)
4.     Hawthorne Nathaniel (1850) La lettera scarlatta (RCS Editori – 2002)
5.     Kohut Heinz (1971) Narcisismo e analisi del sé (Boringhieri 1976)

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