...Eppur sublimo (Recensione a: “La morte dentro la vita. Riflessioni psicoanalitiche sulla pulsione muta” di R. Valdrè)

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21 luglio, 2018 - 19:21
Autore: Rossella Valdrè
Editore: Rosenberg & Sellier
Anno: 2016
Pagine: 248
Costo: €16.15
A prima vista, la questione della pulsione di morte sembrerebbe replicare l’irrisolvibile scissione che attraversa, da un lato, la sponda più conservatrice della psicoanalisi (secondo cui solo una corretta sistematizzazione della pulsione di morte può salvare la metapsicologia e la teoria pulsionale) e, dall’altro, la sponda illuministico-progressista (che ritiene che la metapsicologia sia ormai cosa “vecchia” e debba essere sostituita da un approccio più “personale”, centrato sui vissuti attuali dell’individuo). Ma, d’altro canto, affinché l’opposizione tra le due parti mantenga una certa coerenza interna, bisogna capovolgere i rispettivi punti di vista: in questo senso, gli stessi sostenitori della pulsione di morte finirebbero per essere i suoi più grandi sabotatori. Questo perché l’assunzione aprioristica della pulsione di morte, per come essa ci viene presentata da Freud, può avvenire solo per via dogmatica, secondo la legge del tutto-o-nulla. Notiamo tale salto di fede in quei sostenitori della letteratura psicoanalitica di matrice conservatrice che, assumendo a tutti i costi l’intricato concetto freudiano, passano dall’essere strenui partigiani della fedele lettura del padre della psicoanalisi a dei quasi-moralisti impegnati a tutti i costi nel mantenimento delle apparenze. Insomma, la pulsione di morte, per loro, andrebbe assunta senza esitazioni, perché il suo rigetto come concetto “impossibile” vorrebbe dire la disintegrazione dell’intero corpus psicoanalitico.



Volendo prolungare il ragionamento, potremmo avanzare l’ipotesi controversa (ma non eretica) che nello scrivere Al di là del principio di piacere Freud non abbia trovato un punto di stallo epistemologico, ma che si sia anzi spinto sino al fondo della questione e ne sia tornato indietro inorridito, come dopo il confronto abissale con la morte nell’ombelico del sogno di Irma.
Al di là si apre postulando l’esigenza che non tutto rientri nel dominio del principio di piacere, ci sarebbero dei fenomeni che sfuggono alla sua logica intrinseca. La conclusione di Freud proporrebbe allora l’esistenza di un principio supplementare, non esaustivamente identificato, che lavorerebbe, per così dire, contro Eros o a prescindere da esso. Ma, portando avanti il divertissement speculativo, possiamo rivoltare, con un azzardo, la situazione di partenza. In questo modo, il paradosso di Al di là sarebbe solo apparente: il groviglio logico di Thanatos (la pulsione di morte come verità supplementare e non sistematizzabile di Eros), il punto di stallo su cui Freud sarà tentato di ritornare solo in pochissimi, infuocati testi (Il problema economico del masochismo in particolare), non è la conclusione dello scritto, ma il suo stesso incipit, il modo in cui esso ci lascia intendere che è il principio di piacere, la metapsicologia stessa, a non funzionare, ad essere bucata.
Assumere l’esistenza della pulsione di morte senza affidarsi ad essa adesivamente, come semplice pezza della metapsicologia, ma quale vero e proprio buco nero, vuole dire vincere la stessa illusione radicale che, non troppo diversamente, ritroviamo nella critica di Hegel a Kant. Per farla breve, per l’autore della Critica, l’incontro con il punto paradossale in cui l’apparenza, senza saperlo, tocca la verità è impensabile. Le nostre categorie mancherebbero il noumeno non tanto per una preclusione reale, ma perché esse agirebbero come un paranoico sistema d’allarme che scatta alla minima possibilità di rischio. O per lo meno, questa è la versione che ne dà Hegel, per il quale sistema kantiano non solo si riduce ad una forma di diffidenza, ma viene a coincidere esso stesso con l’errore. In poche parole, ciò che Hegel recrimina a Kant è il timore di non sbagliarsi, la paura che le categorie possano non “scattare” e lasciarci vedere la verità (traumatica). La paura di incontrare la Cosa, insomma, condurrebbe alla fuga da essa o, viceversa, alla sua aprioristica adozione a distanza, adozione cui anche i dogmatisti della pulsione di morte risultano avvezzi. La loro paura, in tal caso, non è che la verità di Thanatos (e della stessa metapsicologia) sia in se stessa troppo piena, abbagliante, ma che nel suo cuore più intimo vi sia il vuoto. L’affidamento incondizionato a Thanatos fa dei conservatori della psicoanalisi dei veri e propri perversi che, corteggiando la pulsione di morte con le parole, alla fine “non ci vanno mai a letto”, ma si limitano a godere dello loro stesso vuoto eloquio.[i] Essere freudiani dunque vuole dire preservare l’ambiguità dopo aver toccato il fondo di essa, dopo essersi confrontati con Thanatos quale manifestazione di un incontro (anche teoreticamente) traumatico.
Anche la nostra posizione di partenza, allora, rischia di trovarsi capovolta: il vero radicalismo progressista non starebbe tanto in chi proclama l’abbandono dell’obsoleta metapsicologia in favore di un approccio più “attuale”, ma in chi richiede un attento scrutinio dei suoi segreti, segreti che Freud stesso, riflettendo sul futuro della sua “strega”, si era accorto fosse meglio lasciare in ombra. In questo senso allora, non avrebbe forse ragione Lacan quando manifesta la sua preferenza per il primo Freud, quella della prima topica? Non è forse questa campagna dell’andare alle cose stesse, anche a costo della loro disintegrazione ultima, il vero motto del Freud de Linterpretazione dei sogni? Quello per cui solo un’analisi intransigente dei contenuti rimossi può portare all’effetto catartico e liberatorio dell’abreazione?
La pulsione di morte allora, per dirla con Pascal, non è semplicemente l’innominabile che striscia al fondo della metapsicologia, ma la verità noumenica che giace al di là delle apparenze e della credibilità della stessa psicoanalisi, il suo stesso segreto che Freud, con un gesto controfobico, ci avrebbe esposto per dirci, inconsciamente, di starne alla larga.
Un atteggiamento simile è rintracciabile in altri due testi capitali dell’opera freudiana. Il primo è certamente l’Entwurf (1895), il Progetto pubblicato postumo proprio perché ripudiato, le cui relazioni metapsicologiche occorrono come una sorta di “prequel”. Ma il culmine dell’atteggiamento controfobico freudiano giace a livello del secondo testo di questa – mi permetto di definirla così - “trilogia dell’abiura”: Zur Einführung des Narzissmus (1914). Forse, proprio per essere stato un testo semi-ripudiato, scritto ma rigettato, emerso sotto forma di negazione, questo breve capolavoro è la soluzione più sintomatica dei tentennamenti di Freud (di cui è celebre la discussione epistolare avvenuta con Abraham: “il fatto che lei accetti persino Narcisismo mi tocca nel profondo e costruisce tra noi due un legame più intimo”[ii]). Non a caso, Benvenuto specifica che l’attuale traduzione italiana del titolo del testo, Introduzione al narcisismo, sia formalmente errata e propende a favore di un più idoneo Per introdurre il narcisismo. Per quale motivo questa precisazione? Perché, diversamente da come fa sembrare la soluzione adottata dalle Opere, non è il lettore ad essere introdotto al concetto di narcisismo, come se il saggio costituisse un compendio oppure un manualetto[iii] per assorbire tale nuova nozione psicoanalitica. È esattamente il contrario: è il narcisismo che abbisogna di essere introdotto “nel club dei concetti psicoanalitici”.[iv] La differenza è cruciale: nel primo caso infatti, avremmo a che fare con un concetto auto-sufficiente e completo, che non necessita di essere chiarito, quanto piuttosto di chiarire, di allacciare l’autoerotismo all’investimento oggettuale (una sorta di deus ex machina). Il secondo caso invece ci permette di cogliere il carattere di costitutiva incompletezza, il ventaglio di problematiche che un simile concetto offre, rischiando di sgretolare la stessa architettura teorica da cui emerge. Questo breve excursus ci riporta al bivio di Thanatos, alla sua natura bifida, per cui esso costituirebbe allo stesso tempo un deus ex machina di Eros (che rammenda l’impasse logica del principio di piacere) e, contemporaneamente, il segno della sua caduta, la crepa che deturpa il capolavoro metapsicologico. Da qui la sua natura logicamente imbarazzante, che ne fa, prendendo a prestito un ulteriore passaggio di Benvenuto sul narcisismo, “uno spiedo che arpiona a sé nozioni che non si sovrappongono perfettamente tra loro”.[v] Notiamo come dunque si vengano a delineare due versioni di Thanatos. Una standard, per cui esso sarebbe la pulsione di morte come criterio differenziale di Eros, ed un’altra più controversa, che ne fa il buco nero della psicoanalisi.
Ma allora è lecito chiedersi: esiste un modo per conciliare questa separazione? O saremo sempre costretti a riferirci alla pulsione di morte attraverso questo strabico binarismo? Una lettura filo-hegeliana proporrebbe di ridurre entrambe le posizioni a delle premesse antitetiche e di trovare tra di esse un punto di estrema sintesi che ne preservi la contraddizione. Si tratterebbe insomma, di conciliare entrambe le posizioni mantenendone viva la reciproca tensione. Ma la verità, a mio avviso, è che il solo modo per rendere freudianamente giustizia alla pulsione di morte sia di mettere da parte l’edonismo teoretico e preferire ad esso la via che Ernesto Laclau definisce come il Reale dell’antagonismo. Sarebbe a dire: la differenza tra queste due posizioni di Thanatos non designerebbe, di riflesso, i due destini della pulsione di vita e della pulsione di morte, ma la vera, eterna differenza tra Thanatos e se stesso, il solco interno che, separando le due derive teoretiche della pulsione di morte, lascia aperta questa ferita come differenza interna, sola e unica origine della speculazione freudiana. La verità della pulsione di morte, se ce n’è una, prescinde da ogni tematizzazione possibile e si impone come scomodamente reale.
O meglio, la verità della pulsione di morte, per come essa ingombra il pensiero freudiano facendone vacillare i piani, è vera e propria Wirklichkeit, parimenti, l’insieme di ciò che effettivamente accade e ciò che implica in sé qualunque possibilità di effetto.[vi] Le due bucce teoriche che tentano di avvilupparsi attorno al vuoto emerso di Thanatos non possono che lasciare il tempo che trovano allo scoglio Reale della clinica e, per tornare a Pascal, al terso silenzio degli spazi infiniti.
Un ulteriore esempio potrebbe aiutare a chiarire la mia posizione. L’annoso binarismo tra la lettura standard, puntuale e quella meno docile della pulsione di morte viene raddoppiato, adeguatamente, dalla celebre analisi che Richard Maltby, nel suo brillante A brief romantic interlude, propone di Casablanca - contributo spesso citato da Žižek nei suoi lavori. Il famigerato film di Michael Curtiz, secondo Maltby, offrirebbe due differenti registri di lettura: uno naif-conservatore, l’altro più sofisticato e liberale, che trasgredirebbe il cosiddetto Codice Hays, il galateo cinematografico. L’epitome di tale doppio fondo è rappresentato dal passaggio da una scena all’altra, precisamente tra il momento in cui Ilsa si reca da Rick per chiedergli di lasciarle le carte d’imbarco per fuggire con Laszlo e il successivo stacco di telecamera, che ci riconsegna i due dopo una pausa anacronistica, che sarebbe potuta durare a lungo (il tempo dell’amplesso tra i due) o pochissimo (in tal caso, il tempo diegetico sarebbe semplicemente fedele a quello di montaggio, facendo coincidere il tempo tecnico dello stacco della telecamera con il tempo cronologico di scena). Ora, nella versione offerta dalla “trama ufficiale”, vi è una perfetta equivalenza tra ciò che la macchina da presa vede/riprende e ciò che effettivamente accade nel film. L’interruzione del piano sequenza e lo stacco di telecamera rappresentano un opportuno passaggio di macchina che sutura, senza controversia alcuna, le due scene e dona loro un effetto di continuità. Diversamente, la versione “latente” dell’interpretazione propone una visione alternativa che non si impone unicamente come negativa della precedente, ma quale vera e propria trasgressione del Codice.
Eppure, ciò che a mio avviso Maltby non coglie – e credo manchi di enfatizzare lo stesso Žižek – è come la seconda versione non si limiti a contenere esclusivamente un’alternativa immaginaria alla soluzione convenzionale (soluzione politically correct, per cui Isla e Rick non hanno un rapporto sessuale vs soluzione trasgressiva del “c’è rapporto sessuale”), ma serbi nel suo germe una vera e propria pluralità di trame. In questo modo non abbiamo più a che fare con la semplice opposizione di due elementi singolari discreti (trama A vs trama B), ma con il confronto stesso tra la singolarità e la pluralità, il molare e il molecolare, il campo dell’unità attuale e universale in opposizione alla dimensione esponenziale che contiene, virtualmente, ogni variabilità irriducibile.
Qui, la sintesi degli opposti offerta da Žižek coglie a pieno la scissione che attraversa le due scene come gap fondamentale entro cui lo spettatore può, con l’aiuto della sospensione del testo cinematografico, “indulgere [nei] piaceri proibiti”[vii] che gli sono più congeniali, ovvero rileggere il salto di montaggio secondo il suo desiderio. Ma riportando il nostro discorso alla pulsione di morte, notiamo come la stessa opposizione, anche in questo caso, non si consumi tra due posizioni discrete e concrete (la pulsione di morte formalizzata come supplemento di Eros vs la pulsione di morte come ambiguità metapsicologica), ma, ancora una volta, tra una singolarità (la formalizzazione apparentemente autosufficiente che traiamo dalla lettura del testo manifesto di Al di là) e l’insieme delle variabilità interpretative ad essa irriducibili (Thanatos come buco virtuale della metapsicologia). Bisogna però precisare che l’errore da evitare per non cadere nell’edonismo teoretico sopra menzionato, è quello di leggere il salto tra le due ipotesi come fessura relativista, gap entro cui far convergere l’anarchismo interpretativo (ovvero, l’idea che vi sarebbero “più” pulsioni di morte, come si tende a fare quando, ad esempio si taglia il concetto nei tre spicchi di coazione a ripetere, ricerca Nirvanica e tendenza alla distruttività).
Una soluzione plausibile – per quanto rozza e parziale - allora, a mio avviso, potrebbe essere quella di non leggere il gap, di spegnere la macchina interpretativa e recepire quest’ultimo nella sua accezione materialistica: non come vuoto, interruzione tra due pieni, ma quale vera e propria positività, resto reale della formalizzazione che coincide, a seguito di questo movimento logico, con la pulsione stessa, ciò che, nonostante tutto e proprio per questo, continua a spingere. Insomma, bisogna vedere nello stacco di montaggio un resto reale, materiale che persiste al fondo di ogni possibile e mutevole scena. È ora lo spazio vuoto tra le due a farsi resto nefasto e inassimilabile e a far sì che la verità del film coincida, inesorabilmente, con l’effettivo e materialistico occorrere del gap, con la sua stoffa Reale, muta. La pulsione di morte allora, diradata ogni possibile e mutevole interpretazione (comprese quelle che la vedrebbero come “buco” metapsicologico), si ridurrebbe alla sua insistenza reale, alla positivizzazione dello stacco che insiste a prescindere dalle sue interpretazioni. Perché, come detto poc’anzi, per avvicinarci ad essa dobbiamo assumere logicamente l’esistenza delle interpretazioni? Perché è solo il marasma interpretativo, il suo brusio di fondo, a farci accorgere della presenza di Thanatos, che in quanto reale, di per sé, è muto.
Quest’ultima considerazione ci porta a La morte dentro la vita (Rosenberg & Sellier, 2016, 245 pp.), l’ultimo intenso lavoro di Rossella Valdré.
La pulsione di morte, abbiamo visto, si è sempre rivelata un concetto decisamente inconsueto e controverso ma, allo stesso tempo (e forse proprio per questo), “una delle aporie (…) più interessanti, sconvolgenti e intriganti in psicoanalisi.”[viii] Il punto di partenza di Valdrè, che aveva già corteggiato tangenzialmente il tema altrove[ix], è chiaro quanto impegnativo: “la vita non è data dalla sola pulsione di vita, ingenuità positivista abbandonata del tutto con la svolta del ’20.”[x] Ma se da un lato l’introduzione della pulsione di morte ha permesso, come anticipato in apertura del saggio, di guadagnare una migliore prospettiva sulla natura umana, dall’altro essa ha certamente problematizzato l’intero edificio freudiano, al punto non solo da mettere a repentaglio l’intera teoria pulsionale ma, a posteriori, da dare vita ad un vero e proprio cul de sac. Infatti, non è ben chiaro se il suo rigetto sia ascrivibile ad uno scadimento generale della metapsicologia tout court, la cui proposta genetico-pulsionale ha via via lasciato il campo a nuove forme di psicoanalisi sempre più intenzionate verso l’Altro reale (si può rileggere l’intera storia della psicoanalisi, quella da manuale, come una progressiva e cronologica de-pulsionalizzazione), oppure se sia stata, viceversa, essa stessa la causa del ritiro metapsicologico, la zavorra che ha affondato l’ortodossia analitica a vantaggio di programmi teoretici più accessibili (il cui parossismo sono gli approcci evidence-based) e meno marchiati da scomode aporie concettuali.[xi] Per di più, a detrimento della verginità concettuale del termine, alcuni grossolani salti di paradigma hanno finito, nel tempo, per adeguare la pulsione di morte – sconveniente ospite di qualsiasi programma teorico che miri ad arrotondare i propri bordi speculativi – al più mansueto istinto di morte. La prima conseguenza di questo abbassamento di concetto è la confusione che esso ingenera tra l’aggressività come bacino pulsionale irriducibile (evocata, nella teoria lacaniana, dall’impossibilità di far coincidere l’immagine di giubilante completezza che lo specchio rimanda del corpo con la sua percezione frammentata, morcelé) e la mera aggressione come manifestazione comportamentale (l’agito violento in quanto tale). L’esito di questa sconveniente mossa mostra come l’occuparsi di psicoanalisi, lungi dal ridursi alla coltura di un sapere nozionistico e strumentale, sia una pratica che maneggia costantemente concetti dalla fragile consistenza, che rischia di precipitare da un momento all’altro in una “psicologia dell’ovvio e del manifesto”.[xii] A tal proposito, le parole dell’autore sono di puntuale eloquenza: “non è la presenza dell’aggressività, della distruttività anche più cieca e devastante che ci è difficile riconoscere come istanza umana, ma la silenziosa tendenza alla morte psichica, il cedimento alla non vita, al non pensiero.”[xiii] Insomma, in un solo movimento possiamo cogliere da questa cruciale distinzione due esiti fondamentali:

  1. In primo luogo, che qualunque tentativo di ridurre Thanatos alla traccia fenomenica della condotta aggressiva tout court non rappresenta solamente una violazione della sua natura, una banalizzazione della complessità umana (anzi, se ne potrebbe mettere in discussione persino il valore epifenomenico), ma l’ennesima compromissione del Trieb freudiano con il più animalesco Instinct (celebre e controversa traduzione proposta dalla Standard Edition) di Strachey. Se sintetizziamo queste due conseguenze in un unico risultato, ci ritroveremmo ancora una volta preda del malinteso culturalista che concepisce l’inconscio come il baratro della belva umana, la palude non civilizzata della libidine.[xiv]
  2. In secondo luogo, si evince come la pulsione di morte non sia riduttivamente veicolata dalla condotta umana, dal suo comportamento manifesto, ma intrecciata strettamente con la vita stessa.
Infatti, non è sufficiente dire che Eros e Thanatos siano le polarità risolutive e complementari di un tutto-Unico, che siano impastati l’uno nell’altro come due opposti destinati a ricostituire un’esaustiva totalità (come vorrebbero invece certe correnti New Age - basti pensare all’armonia plenaria dello yin e dello yang - o le più classiche dicotomie manichee). Diversamente dalle logiche totalizzanti delle opposizioni binarie, il loro rapporto è anzi tale che, ad un aumento della loro correlazione, si associa una perdita di totalizzazione. Al crescere della loro interdipendenza corrisponde una perdita netta di conoscenza (il bioniano – K), un’esasperazione del buco del sapere, di modo che l’insieme possa essere rammendato
  1. o separando i due a detrimento della pulsione di morte: è la soluzione adottata da chi nega Thanatos per preservare la metapsicologia
  2. oppure negando il paradosso e ricorrendo ad una formalizzazione adesiva della loro interdipendenza: in tal modo, tentando di preservare entrambi senza assumere il peso della loro contraddizione, ad essere sacrificata è la metapsicologia stessa, che si riduce ad un costrutto aforistico devitalizzato.
Valdrè invece, nel suo studio, ci indica una terza direzione che si staglia al di là dei più intuitivi dualismi. Una direzione in cui, attraverso una sciarada di capovolgimenti continui, le funzioni di pulsione di vita e di morte intrattengono un vero e proprio gioco valvolare, sottomettendo la prevalenza egemonica dell’una al reciproco porsi in rilievo dell’una e dell’altra (è il caso-limite, ad esempio, di quando “alla pulsione di morte è affidato il compito paradossale di difendere la vita”[xv]).
Ma come abbiamo detto poc’anzi, è proprio per il fatto che “morte e vita non sono più polarità opposte e antinomiche ma necessari, ambigui e conflittuali conviventi[xvi] che non si dà più analisi della pulsione di morte che sia clamorosa, esplosiva e reboante (come vorrebbe, ad esempio, una certa impostazione kleiniana). Il confronto con essa, con il disimpasto “puro”, sarà possibile solo nella desertica dispersione di un panorama perturbante dove tutto tace. In The Weird and the Eerie (di cui una possibile traduzione potrebbe essere Il bizzarro e l’inquietante), Mark Fisher delinea un programma scenografico che, sebbene sia destinato ad un esito differente, rende a mio avviso adeguatamente l’idea dell’oppressione muta della pulsione di morte. Nella seconda parte del libro, dopo aver introdotto il bizzarro e le sue esemplificazioni, Fisher affronta l’inquietante:
“Come abbiamo visto, il bizzarro è costituito dalla presenza – la presenza di ciò che non ci dovrebbe essere. (. . .) Il bizzarro è marchiato da una presenza esorbitante, una pienezza che eccede la nostra capacità di rappresentazione. L’inquietante, al contrario, si distingue per un fallimento dell’assenza o per un fallimento della presenza. La sensazione dell’inquietante sopraggiunge o quando c’è qualcosa là dove ci dovrebbe essere il nulla, o quando abbiamo il nulla là dove ci dovrebbe essere qualcosa.”[xvii]
Apparentemente, le parole di Fisher possono sembrare distanti dalla nostra analisi, specie se consideriamo che il suo programma sembra andare in cerca di una spazializzazione disperata, un tentativo poeticamente angoscioso di venire a patti con un esterno opprimente o, al contrario, prosciugato all’osso. Anzi, leggendo queste parole rischiamo di ricadere nel rischio sopra trattato, ovvero di evacuare Thanatos all’esterno, di farne la proiezione percettiva di un tumulto interiore. Ma il paragone acquista tutt’altra validità se consideriamo le intenzioni di partenza del libro: lo scopo di The Weird and the Eerie è quello di abolire l’arcinota tendenza, frutto anch’essa della psicoanalisi freudiana, “ad elaborare l’esterno attraverso le impasse e le lacune dell’interno”.[xviii] In tal senso, il bizzarro e l’inquietante compierebbero il movimento opposto dell’Unheimliche, “permettendo[ci] di cogliere l’interiore dalla prospettiva di ciò che è esteriore”.[xix]
In questo caso, il bizzarro e l’inquietante vengono a coincidere perfettamente con il perturbante, con la sola differenza che quest’ultimo è frutto di un ripiegamento (ideologico e frutto del proprio Zeitgeist) verso l’interno, una clausura interpretativa che fa dell’ambiente un’attualizzazione dei tumulti pulsionali interiori.[xx] Ma in che modo in particolare l’inquietante descrittoci da Fisher si riallaccerebbe al mutismo di Thanatos? Nella misura in cui ne rintracciamo la presenza in quei “paesaggi parzialmente evacuati dalla presenza umana”, in un clima di “rovine” e “sparizioni”.[xxi] A produrre questa opprimente sensazione non sarebbe allora la totale desolazione, ma quel resto (di umanità) “parziale” esperito sotto forma di assenza, un meno di niente che, proprio per eccedere negativamente lo zero, la totale assenza, acquista un perturbante carattere di contro-presenza. Insomma, non è tanto l’assenza della presenza a produrre l’inquietudine, né la presenza dell’assenza, ma una presenza inopportuna che produce effetti in forma di assenza (e viceversa). Si pensi ad una casa disabitata: non è la sua desolazione a inquietarci, né la possibilità che d’improvviso qualcuno sopraggiunga, ma è, a partire da un minimo residuo di umano – gli effetti personali abbandonati delle persone che vi vivevano -, il caldeggiare questa possibilità come presenza virtuale ad essere sconveniente, la consapevolezza che è proprio perché non c’è nessuno che potrebbe esserci da qualche parte nascosto qualcuno (che ci guarda). È, se vogliamo, anche la logica del panopticon - postulato da Bentham e reso celebre dall’analisi che ne fa Foucault in Sorvegliare e punire. Il progetto del panopticon consiste di una torre a specchi opachi che si innalza al centro di una struttura carceraria semi-circolare. La sua progettazione permette di “guardare” ai detenuti senza che questi siano in grado di capire se siano in quel momento oggetto dello sguardo del carceriere oppure no. L’effetto che ne deriva è fortemente paranoico, e permette di far sì che gli inquilini del carcere si sentano sempre osservati. L’effetto inquietante sta nel fatto che i carcerati sanno benissimo che la torre non può guardare ognuno di loro contemporaneamente, ma nonostante tutto si sentono costantemente oggetto del suo sguardo: è proprio l’assenza (dei mille occhi) a produrre effetti (il sentimento paranoico di essere continuamente osservati) in forma di presenza (del singolo e non-ubiquo occhio del carceriere). Anche qui, è esattamente il resto inassimilabile di umano a rendere la torre inquietante.
Ma un esempio di ancor più raffinata consonanza col mutismo della pulsione di morte ci viene fornito dallo stesso Fisher, quando ci dice che l’effetto inquietante non si riduce alla sola psicoanalisi, ma coinvolge anche “le forze che governano la società capitalistica”.[xxii] Il Capitale infatti è “da ogni punto di vista un’entità inquietante: pur venendo fuori dal nulla, il capitale esercita più influenza di qualsiasi altra presunta sostanza materiale.”[xxiii] L’associazione tra pulsione di morte e Capitale è molto stretta e meriterebbe una trattazione più estensiva, ma per quel che riguarda gli obiettivi del presente saggio, possiamo dire che siano almeno due le caratteristiche che imparentano il Capitale con Thanatos: 1) il fatto che esso sia un’entità irriducibile, che si autoalimenta tautologicamente 2) il fatto che, più nello specifico, esso sia una non-entità, o meglio, qualcosa di assente che sortisce effetti di perturbante presenza, qualcosa di essenzialmente muto.
Un’altra immagine che si avvicina molto alla raffinatissima nozione di pulsione muta evocata da Valdrè è la lessness di Beckett, di cui una delle traduzioni più plausibili potrebbe essere senzaità.[xxiv] La lessness potrebbe essere anch’essa ascritta alla categoria del muto e dell’inquietante, in quanto essenzialmente assenza ricavata non al modo ordinario della negazione o della sottrazione, ma attraverso un surplus di presenza: così come la luce bianca è tale in quanto sommatoria (e non assenza) di tutti i colori, allo stesso modo la lessness di Beckett designa il massimo della coloritura là dove sembrerebbe non esserci alcun colore.[xxv] Per concludere il nostro excursus, la natura muta di Thanatos è il modo in cui “la morte impregna la vita (. . .), la scolpisce, la governa” per ridurla infine ad “una fortuita e casuale eccezione.”[xxvi]
Ma il programma di Valdrè non punta solamente ad una riabilitazione tout court della pulsione di morte come pulsione parallela allo stesso mestiere del sopravvivere, per storpiare il titolo del capovaloro di Pavese. L’obiettivo dell’autore, da pellegrinaggio teoretico attraverso gli esiti di Thanatos nella storia della psicoanalisi (la prima parte del libro può essere letta come vero e proprio saggio sulla storia della pulsione di morte attraverso il susseguirsi dei vari paradigmi), si tramuta in impresa etica non appena il ricorso ad esso mira ad esaltarne la funzione “soggettivizzante”. Nell’ultimo paragrafo del primo capitolo, si chiede l’autore, “può la pulsione muta contribuire alla soggettivazione?”[xxvii] Prima di rispondere a questa domanda è necessario apportare un chiarimento terminologico, che passa per la distinzione tra slegamento e disinvestimento. Difatti, la natura parzialmente positiva e vitale del primo termine, precisa l’autore, si stacca e differenzia dal secondo in quanto, anziché imperversare mortifero alla stregua di una pulsione slegata (o come occlusione cieca e incestuale nell’oggetto primario), esaudisce la propria funzione dissolutrice in virtù di un investimento ulteriore: l’esempio paradigmatico adottato da Valdrè è proprio quello dello slegamento dall’oggetto madre per investire il padre come “terzo”, rappresentante del mondo esterno rispetto all’interno claustrale alla diade simbiotica e garante della Legge simbolica quale proclamazione della presenza discreta (linguistica) nel mondo. Insomma, lo slegamento concerne “lo slegare per legare a nuovi investimenti”[xxviii] e, facendo largo alla possibilità di re-investimento pulsionale, costituisce la conditio sine qua non per stabilire le identificazioni necessariamente soggiacenti alla soggettivazione. 
Già in un precedente lavoro, che ne La morte dentro la vita viene ampiamente ripreso, Valdrè aveva messo in evidenza come vi sia un ulteriore concetto freudiano che, sebbene meno citato rispetto alle altre nozioni tabù (masochismo morale, sessualità femminile e, appunto, pulsione di morte), abbia guadagnato negli anni l’oblio: la sublimazione. A riguardo, c’è un passaggio nel suo Sulla sublimazione che esalta molto sinteticamente quanto sto qui dicendo: “con la sublimazione assistiamo a un analogo paradosso. Se ne denuncia la scomparsa, se ne attesta il calo d’interesse: eppure sublimiamo.”[xxix]
Anche la sublimazione, convenzionalmente, può essere ricondotta a due prospettive centrali. Per la prima essa è nientemeno che uno tra i possibili meccanismi di difesa “maturi”, frutto del trionfo della civiltà sulla natura acefalica del processo primario (un simile approccio è problematico in diversi punti, che qui non posso trattare estesamente). Il secondo approccio alla sublimazione la vede invece come un elemento integrante e discrimine della soggettività, uno spartiacque che, abolendo definitivamente la circolarità chiusa e impersonale del bisogno e promuovendo una politica sempre orientata verso un desiderio inesaudibile, separa l’animale parlante dal resto della natura. Ciò fa della sublimazione non più il contenuto discreto di un particolare meccanismo di difesa (generalizzandone di conseguenza l’attuazione), ma la forma propria della logica desiderane, il modo esclusivamente umano di fallire inesorabilmente la propria mira al piacere. A riguardo però, Valdrè rimarca prontamente la spinosità di questa versione antropologico-filosofica della sublimazione ed apre una breccia tra i due versanti, situando la sua propria idea di sublimazione in uno spazio in-between: “vedo nella sublimazione un processo sì sempre parziale e difficoltoso, ma prevalentemente vitale.”[xxx]
Ora, se ho ben inteso l’originale prospettiva dell’autore (frutto dell’assennato assemblaggio e della rielaborazione di precedenti teorie e contributi), la sublimazione non si appiattirebbe, in questo supplemento, né sulla funzione sovrastrutturale del primo tipo (un meccanismo di difesa cui il soggetto dell’inconscio ricorrerebbe per desessualizzare esteticamente la pulsione), né su quella strutturale del secondo (la sublimazione quale esoscheletro del soggetto pulsionale, intaccatura inaugurale del godimento sempre-già perduto), ma si affermerebbe come vera e propria – mi permetto di definirla così per rilanciare il gioco linguistico – infrastruttura: un processo in grado di trascendere l’ordinario arsenale delle difese psicoanalitiche, di sganciarsi da questa riduttiva immanenza e costituirsi come ennesimo meccanismo valvolare, in grado non solo di cogliere l’intreccio e la continua variabilità dei destini pulsionali ma anche, in pari tempo, di complicarla, rilanciando nuovamente il concetto nello spazio opaco dove si gioca la contraddizione freudiana (vero cuore etico della psicoanalisi è preservare questa contraddizione o, come afferma Lorenzo Chiesa rispetto al suo soggetto partigiano: “il modello etico è quello dell’impasse”).[xxxi] Allora, notiamo come, inevitabilmente, l’attribuzione alla sublimazione dell’onere di uno statuto privilegiato, che desessualizza e cambia di meta le pulsioni, espone in controluce la faccia feroce della morte: “ogni qualvolta entri in campo, nella vita psichica, una desessualizzazione, ci troviamo pericolosamente à coté, contigui e vicini alla pulsione di morte.”[xxxii] Il momento puramente virtuale della sublimazione – virtuale perché tengo a preservarne comunque la caratteristica di molla universale del soddisfacimento umano: nel senso che abbiamo conoscenza del principio di piacere, della purezza atemporale, illogica e contraddittoria del processo primario solo e sempre a partire dal cono di luce del principio di realtà  – corrisponde all’emersione logica dell’intreccio tra vita e morte, marchio inaugurale che soggiace al fondo della natura umana e ne alimenta il destino. Insomma, il focus sulla sublimazione permette di cogliere quell’amalgama profondamente contraddittorio per cui dentro la vita c’è, come sua spinta disperata, la morte (“ogni sublimazione [è
] per natura parziale e fragile, e [può] sempre ribaltarsi in pulsione di morte.”)[xxxiii] Ma in che modo, esattamente, dovrebbe avvenire che ad ogni sublimazione si accompagni l’esposizione della “morte dentro la vita”? Condizione necessaria affinché vi sia sublimazione, specifica Valdrè, è che la pulsione abbia la capacità plastica, negativa, di sottrarsi in certo qual modo alla rimozione e, quindi, di deviare il proprio destino.[xxxiv] Questa necessità strutturale apre, al tempo stesso, una divaricazione temporale nel processo sublimatorio, che si trova ora polarizzato in due momenti logici differenti. Ad essere cruciale, per Valdrè, è proprio il processo desessualizzante, il primo momento logico atto a rendere disponibile la libido sessuale per altre mete. È in tale fase che si corre il maggior rischio di inciampare tra i fili di Thanatos: “l’uomo lotta per vivere ma ha in sé la morte [e] durante questo passaggio, dall’oggetto all’Io, è a rischio di slegare pulsioni aggressive che, una volta disimpastate, operino contro Eors.”[xxxv] O meglio, per riprendere la terminologia propostaci dall’autore, sarebbe una sostituzione del disinvestimento allo slegamento a far divampare la pulsione di morte, a sprigionarne l’oscuro potenziale. Mi permetto qui di interpretare ulteriormente il suggestivo ragionamento dell’autore, evidenziando un ennesimo, invitante paradosso: mi viene da suggerire che è proprio ciò che emancipa positivamente la sublimazione dai suoi due approcci convenzionali – perfezionandoli in flessibilità – ad essere, nel suo intrico più profondo, la potenziale passerella verso Thanatos. Ossia, ritengo che un merito non secondario dell’autore non sia stato semplicemente quello di riaprire le due questioni antonimiche della pulsione di morte e della sublimazione, ma di riconoscere l’implicito vitale-letale (vita morte, in Derrida) collegamento, un venir fuori dalla banalizzazione dell’una, problematizzando l’altra, e viceversa. Infatti, se da un lato l’assoluta parzialità della sublimazione serve a svincolarla dal primo approccio (che la vedrebbe come un meccanismo di difesa immanente a tutti gli altri), facendone una realtà sempre-già incompiuta, sempre da ricominciare e sostenere, che non si chiude mai nella perfetta sfericità di una difesa riuscita – perché la sua estinzione implicherebbe l’afanisi -, dall’altro, la sua spinta vitale, attributo chiave che la assolve dal “romantico “pessimismo” lacaniano dell’oggetto perduto la àncora, irrimediabilmente, a Thanatos. È proprio quest’ultimo suo eccesso, la troppa vitalità, a farla sconfinare nel deleterio: una vita che usura e brucia se stessa. Insomma, per Valdrè è proprio il gesto vitale dello slegarsi delle pulsioni aggressive a ritorcersi contro Eros, ma come? L’esempio, tra i vari, che adduce l’autore e che ho trovato maggiormente interessante è quello di, con le sue stesse parole, un’eccessiva tirannia dell’Ideale dell’Io. In sintesi: è un eccesso di dipendenza dall’Ideale dell’Io a produrre lo sconfinamento della sublimazione. Ma è bene fare attenzione: difatti, messa così, potrebbe sembrare che essa si limiti a divenire preda dell’Ideale dell’Io, sua ancella che opererebbe per ingrassarne il “mutilante rigorismo”.[xxxvi] Invece, l’aspetto più interessane della correlazione tra sublimazione e Ideale dell’Io è insito nella loro reciproca stratificazione, nel profondo intreccio che impedisce di discernere chiaramente dove inizi l’uno e dove finisca l’altra. È vero infatti che l’Ideale dell’Io si afferma sul soggetto come puro contenuto (lo specifico modello cui esso cerca di conformarsi), ma tale imposizione può affermarsi solo attraverso la sua manipolazione formale ad opera della sublimazione (“la sublimazione è in effetti sempre collegata all’idealizzazione e a una certa riorganizzazione dell’Ideale dell’Io”).[xxxvii]
Se apriamo l’Enciclopedia della psicoanalisi alla voce Sublimazione, notiamo subito come questa termini con una frase piuttosto eloquente: “la mancanza di una teoria coerente della sublimazione rimane una delle lacune del pensiero psicoanalitico.”[xxxviii] È interessante notare come la doppia natura del termine – quella di essere teoricamente incompleta e contemporaneamente presupposto costitutivo della pratica psicoanalitica – si esalti con crescente evidenza man mano che accostiamo quest’ultimo a Thanatos: a riguardo, credo che il grande merito di Valdrè sia stato proprio quello di radicalizzare tale avvicinamento.
Desidero concludere il mio contributo affrontando un’ultima questione. Nel denso capitolo dedicato all’arte e alla pulsione di morte come fame di vita, Valdrè comincia, a mio avviso, a sbarazzarsi dell’impalcatura teoretica costruita con perizia nelle pagine precedenti. Questa progressiva riduzione le permette di cominciare a dare spazio espressivo al supplemento muto e irrappresentabile di Thanatos nel registro artistico. Ma, verrebbe da chiedersi, per quale motivo è necessario compiere questa spoliazione teoretica prima di entrare nel mausoleo delle arti? Perché – e, a rischio di contraddizione, è proprio con un concetto ateoretico che lo voglio esprimere – i contributi teorici, a questo punto, non fanno che precipitare nel vuoto. Per quale motivo? Perché il supplemento muto e irrappresentabile di Thanatos, applicato all’opera d’arte, diviene qualcosa di insostanziale e inafferrabile, il non tematizzabile per antonomasia: l’oggetto a. Lo spazio espressivo dell’opera d’arte, qualunque esso sia, si trascina sempre dietro di sé l’ombra di Thanatos, la sua cifra simbolica è cioè puntualmente raddoppiata dal pallore della pulsione di morte. Volendo scriverne l’equazione potremmo dire che l’oggetto-arte è sempre uguale alla somma di se stesso e del suo supplemento mortifero (x = x + a), che lo circonda come una seconda cornice, impedendogli di ottenere una perfetta coincidenza con se stesso. Parafrasando un noto passaggio di Žižek, possiamo proporre la seguente formula: la cornice dell’opera d’arte che ci sta davanti non è la sua vera cornice, ve n’è un’altra, invisibile, sottointesa alla struttura del dipinto, la cornice che incornicia il supplemento mortifero, l’estimità stessa dell’opera, e queste due cornici non si sovrappongono mai, vi è uno scarto invisibile che le separa – che è appunto lo scarto che, raddoppiandola, separa la fantomatica x da se stessa).[xxxix] La doppia natura dell’opera d’arte come ipostasi dell’impasto tra Eros e Thanatos esemplifica come “bisogn[i certamente] vivere per sublimare la pulsione in arte” ma, in pari tempo, anche di come di questa pulsione “si finisce col morirne”.[xl] Nel terzo capitolo del libro (spettro che aleggia anche per tutto il saggio sulla sublimazione), in particolare nel terzo paragrafo, Valdrè dedica una stimolante promenade introspettiva al modo in cui la fragilità della sublimazione – la sua insostenibile incompletezza – attanagli l’epopea dei grandi scrittori e artisti maledetti: Thanatos è sì l’immagine della morte che, spingendosi nelle viscere umane, non decade mai, ma è proprio grazie a questo insopprimibile rischio di inceppamento sublimatorio che è possibile che la vita si compia, che si affami di sé. Vorrei prolungare il ricco lavoro di Valdrè aggiungendo una considerazione finale. Abbiamo detto che la sublimazione corre sempre lungo il bordo tagliente della pulsione di morte e che, è proprio questa lontana ma al tempo stesso stretta parentela a contribuire a renderla un concetto paradossale. Oltre a ciò, un ulteriore paradosso della Sublimierung, come evidenzia Benvenuto, è di essere in pari tempo, il presupposto (la capacità di sublimare era per Freud requisito essenziale per sottoporsi al trattamento), il fine (ogni analisi riuscita porta a una qualche forma di sublimazione) e la fine dell’analisi.[xli] Vediamo pertanto come questo campo analitico sia particolarmente ampio e lungi dal trovare una risoluzione unanime e pacificatrice. Eppure, nonostante il caleidoscopio ermeneutico che corteggia la sublimazione, una critica in voga oggi negli ambienti personalisti potrebbe obiettare che questa abbuffata interpretativa, con il suo auto-accrescimento di senso, non faccia altro che evidenziarne un difetto fondamentale (e, in secondo grado, riconducibile alla stessa pulsione): il suo essere fondamentalmente solipsistica, centrata sull’Uno e troppo facilmente dimentica dell’Altro. Devo ammettere che, in questo caso, i personalisti replichino la loro indole inavvertitamente filosofica: fornire incaute risposte, formulando ottime domande.
Non si può allora non fare a meno di chiedersi se vi possa essere un modo di allacciare la sublimazione con l’alterità o, in termini kantiani, di mettere in relazione la sublimazione del genio (colui che plasma l’opera) con il suo soggetto di giudizio (di gusto). Detto altrimenti, può lo spettatore identificarsi con l’autore senza rinunciare alla propria soggettività?
Il primo errore da evitare, approcciando questo discorso, è di confondere un simile programma con quello della più singolare e personale catarsi, in cui lo spettatore non si identifica con l’autore, ma con il contenuto della sua opera, ai suoi protagonisti o ai soggetti che essa rappresenta. L’identificazione tra autore e spettatore, in questo caso, dovrebbe avvenire non sulla base di un contenuto specifico, concreto, ma a partire da una comune esperienza di perdita. Ovvero, l’opera d’arte in questo caso fungerebbe non da elemento discreto che permette di provare una catarsi transitoria, ma da medium, punto di allaccio che presiede alla sovrapposizione di due perdite (abbiamo detto qualche pagina addietro che la sublimazione è possibile solo sulla base dell’esperienza del negativo), quella dell’autore e quella dello spettatore. A riguardo, il contributo più sensazionale ad un simile discorso – che peraltro, vedremo, rimette in gioco lo stesso Thanatos – non proviene da uno psicoanalista, ma dal genio di Pier Paolo Pasolini. Nel suo saggio Il cinema impopolare,[xlii] l’autore propone che, infondo, essere liberi non vuol dire altro che avere la “libertà di scegliere la morte”.[xliii] Questa conclusione, rimarca Pasolini, è certamente scandalosa, perché in netta opposizione alle grandi dottrine della conservazione (Cattolicesimo e Marxismo in primis) ma tutt’altro che abnorme: se da un lato infatti, osserva l’autore, la natura ci ha fornito di un istinto di conservazione, dall’altro essa ci fornisce anche di quello opposto, il “desiderio di morire”.[xliv] Ancora una volta, vita e morte si abbarbicano l’una all’altra e l’esistenza risulta uno slancio vitale che dentro di sé serba la morte. Compito dell’autore allora è rendere “esplicito tale conflitto”[xlv], ovvero: “la libertà non può essere manifestata altrimenti che attraverso un grande o piccolo martirio”, ma è proprio attraverso questo atto autolesionistico che egli, esibendo la sua perdita, “si espone – e proprio alla lettera – agli altri.”[xlvi] Parafrasando in termini psicoanalitici, attraverso la perdita masochistica dello slegamento pulsionale (la sublimazione) l’autore compie il lavoro del negativo necessario a staccare temporaneamente Eros da Thanatos (per Pasolini, come per Valdrè, sarebbe proprio l’attimo di questo slegamento ad infrangere il codice e produrre il “grande o piccolo martirio”). Il reinvestimento pulsionale, sopportata la perdita inziale – che si incide nel corpo dell’autore sotto forma di “ferita di testimonianza”[xlvii] -, nella misura in cui si impone come “qualcosa di ignoto [- la morte -] scelto al posto di qualcosa di quotidiano e di noto [- la vita -]”[xlviii] aggancia l’altro tramite l’effetto di scandalo che questo gesto irrazionale suscita. In altre parole, è perché la pulsione, slegandosi (anziché disinvestendosi completamente), può trovare l’Altro che essa riesce a sublimarsi: senza lo spettatore, l’autore sarebbe letteralmente preda del cieco circuito di Thanatos.
Ma in questi termini, si direbbe, rischiamo di fraintendere un punto fondamentale della sublimazione: la sua capacità di produrre attivamente il dislocamento pulsionale. Detto altrimenti, non sarebbe, secondo questo schema, solamente l’autore a fregiarsi del carico, certamente tragico, ma fondamentalmente solipsistico, dell’attuazione del suo desiderio? Niente affatto, perché, come precisa Pasolini, “lo spettatore, per l’autore, non è che un altro autore.”[xlix] Egli infatti, condividendo e sim-patizzando per il gesto di scandaloso martirio cui si presta l’autore, è altrettanto in grado di “immolarsi nel misto di piacere e dolore in cui consiste la trasgressione della normalità conservatrice”[l] o, detto altrimenti, si pone nella condizione di godere “della libertà altrui.”[li] 
La libertà negativa e generatrice dell’autore non solo viene usufruita e condivisa democraticamente dal rapporto con uno spettatore altrettanto “masochista” e disposto ad esporsi al volto brutale di Thanatos, ma viene letteralmente da quest’ultimo “riportata al senso”: la fruizione da parte dello spettatore della libertà dell’autore gli permette sia di partecipare al martirio, sia di oggettivarlo attraverso una sua ri-codificazione, traendolo dall’impronunciabile cui il gesto anticonservativo dell’autore tenta di indirizzarlo. In conclusione, l’importanza del discorso di Pasolini è innegabile, ritengo, per tre ragioni:
  1. esalta l’irriducibile intreccio tra pulsione di vita e pulsione di morte: questo punto è esasperato nel finale del saggio, quando Pasolini scrive che “la cosa essenziale è restare in vita (. . .), perché il suicidio crea un vuoto subito riempito dalla qualità peggiore di vita.”[lii] Si tratta di una specificazione fondamentale perché rimarca, prima di tutto, la parzialità di ogni sublimazione, che non è mai definitiva e necessita di essere sempre ri-attuata; inoltre perché, contro il discorso comune, impone che il martirio anti-conservativo abbia come presupposto la vita, la disperata vitalità che trova il proprio parossismo nel gesto masochistico di rilanciare se stessa;
  2. non inserisce tale tragico intreccio in uno scenario idoneo al precario intersoggettivismo habermasiano, ma lo articola a partire dalla sovrapposizione di due mancanze, ne fa una causa reciprocamente soggettivante: l’autore esiste solo in funzione della ri-codificazione che ne dà lo spettatore, il quale, a sua volta, esiste solo in funzione del martirio esibizionista dell’autore;
  3. in ultimo, perché situa questo programma al di là del discorso comune: il martirio dell’autore, affinché sia libero, deve essere di per sé “inoggettivabile e irriconoscibile”[liii], qualcosa che per il Codice conservativo è inesprimibile, e quindi, fondamentalmente muto.
 
Bibliografia:
Benvenuto S.
  • Accidia. La passione dell’indifferenza, Il Mulino, Bologna, 2008.
  • Leggere Freud. Dall’isteri alla fine dell’analisi, Orthotes, Napoli-Salerno, 2017.
Fisher M., The weird and the eerie, Repeater, London, 2016.
Laplanche J., Pontalis J.-B., Enciclopedia della psicoanalisi. Tomo secondo, Laterza, Bari, 2010.
Pasolini P. P., Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 2012.
Valdrè R.
  • La morte dentro la vita. Riflessioni psicoanalitiche sulla pulsione muta, Rosenberg & Sellier, Torino, 2016.
  • Sulla sublimazione. Un percorso del destino del desiderio nella teoria e nella cura, Mimesis, Milano 2015.
Žižek S., Lacrimae rerum. Saggi sul cinema e il cyberspazio, Libri Schweiller, Milano, 2011.
 
 

[i] Riprendo questa “teoria della perversione” dal discorso avanzato nel divertente saggio di J.B. Botul (personaggio fittizio inventato da F. Pagès), La vie sexuelle d’Emmanuel Kant, Mille et une nuits, 2000.
[ii] Citato in S. Benvenuto (2017), p. 86.
[iii] Come la storica collana Introduzione a proposta alla fine degli anni ’70 da una celebre casa editrice per la filosofia e la letteratura.
[iv] S. Benvenuto (2017), p. 85.
[v] Ivi, p. 90.
[vi] Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale 1956 – 1957, Einaudi, Torino 2007, pp. 26-27.
[vii] S. Žižek (2011), p. 59.
[viii] R. Valdrè (2016), p. 17.
[ix] Cfr. R. Valdrè (2015).
[x] R. Valdrè (2016). A riguardo è particolarmente interessante il contributo di S. Benvenuto che, si potrebbe dire, sostiene la stessa tesi di Valdrè, ma nel senso diametralmente opposto: “Ci si chiede se la vera originalità di questo saggio freudiano non consista in definitiva, contrariamente a quanto vien ripetuto, nell’introduzione della pulsione di vita, di Eros. E non bisogna credere che ciò che sfugge al principio di desiderio-godimento sia la pulsione di morte. Quest’ultima, anzi, può essere vista come un nome diverso per indicare quel che era già presente nella teoria come assioma, cioè il principio di desiderio-godimento. Se il principio di godimento è la causa finale dello psichismo, la pulsione di morte costituirebbe, in un certo senso, la causa materiale dello psichismo.” (corsivo mio) (Cfr. S. Benvenuto, 2017, p. 109).
[xi] Eppure. nota Valdrè, anche tra chi ha deciso di conservare l’approccio pulsionale, non è stato possibile avanzare alcun adeguamento della pulsione di morte, tanto che essa, continua l’autore, è rinvenibile in sostanza in tre differenti posizioni: 1) coloro che la rifiutano a priori 2) chi la riconduce ad epifenomeno di Eros 3) chi, infine, in piena armonia con il Freud più speculativo, ne fa il principio fondatore della vita pulsionale stessa (Cfr. R. Valdrè, 2016, p.42)
[xii] Ivi, p. 48. Si potrebbe obiettare al presente punto di vista una torsione “aristocratica”, come a dire che la psicoanalisi sia roba da pochi eletti, ma credo che si mancherebbe nuovamente il punto: al contrario, è proprio perché si è imposta contro ogni discorso che miri ad una totalizzazione del sapere che la psicoanalisi può definirsi non solo profana, ma persino profanatrice (come dice Benvenuto: “la psicoanalisi ha riabilitato il sapere femminile delle donne di casa rispetto al sapere maschile razionale del doctor emeritus” Cfr. S. Benvenuto, 2017, p. 19; si veda anche Ivi, p. 20: “la rivoluzione di Freud è consistita nello spingere le élites scientifiche a prendere sul serio certi saperi popolari”). A riguardo, si veda anche il mio Aporie del senso (http://www.psychiatryonline.it/node/7490).
[xiii] R. Valdrè (2016), p. 54.
[xiv] È inoltre interessante notare che questa riduzione entra in aperta contraddizione con l’altra comune reductio psicoanalitica del principio utilitarista, secondo cui il Lustprinzip lavorerebbe adattivamente per garantire la conservazione dell’individuo. Se valesse quest’ultimo, insieme con il precedente, un corredo pulsionale pre-civilizzato e non interdetto dal taglio della castrazione dovrebbe costituire un assetto preferibile alla via sublimatoria del processo secondario, che impone invece di incivilire e istruire la natura desiderante umana.
[xv] Ivi, p. 21.
[xvi] Ivi, p. 26.
[xvii] M. Fisher (2016), p. 61.
[xviii] Ivi, p. 10.
[xix] Ibidem.
[xx] A riguardo, Cfr. A. Vidler, Warped Spaces: Art, Architecture, and Anxiety in Modern Culture, MIT Press, Cambridge 2001 e l’elegante commento che ne fa Lorenzo Chiesa in Topology of Fear. Psychoanalysis, Urban Theory, and the Space of Phobia in The Virtual Point of Freedom. Essays on Politics, Aesthetics, and Religion, Northwestern University Press, 2016, pp. 3-16.
[xxi] M. Fisher (2016), p. 11.
[xxii] Ibidem.
[xxiii] Ibidem.
[xxiv] Devo la proposta di traduzione, nuovamente, a S. Benvenuto (2008), p. 117.
[xxv] Ivi, p. 117. Si veda anche Ivi, p. 125: “proprio la rappresentazione della distruzione e della morte, da qualche altra parte, in controluce, sembra far trionfare la vita.”
[xxvi] R. Valdrè, p. 29.
[xxvii] Ivi, pp. 79 – 80.
[xxviii] Ivi, p. 80.
[xxix] R. Valdrè (2015), p. 26 (corsivo mio).
[xxx] R. Valdrè (2016), p. 69.
[xxxi] Cfr. L. Chiesa, Il soggetto partigiano, disponibile su: https://vimeo.com/131422258.
[xxxii] R. Valdrè (2016), p. 70.
[xxxiii] Ivi, p. 149.
[xxxiv] Attributo particolarissimo che ne fa “una delle aporie più interessanti, più intriganti della psicoanalisi freudiana.” (Ivi, p. 69).
[xxxv] Ivi, p. 71.
[xxxvi] Ivi, p. 69.
[xxxvii] Cfr. ivi, p. 72.
[xxxviii] Laplanche e Pontalis (2010), p. 621.
[xxxix] Cfr. S. Žižek (2011), p. 35.
[xl] Cfr. R. Valdrè (2016), p. 154. È la quintessenza del morire per troppa vitalità, la pasoliniana disperata vitalità che ci testimonia di come non ci sarebbe stata morte se non ci fosse stata tanta vita. (Ivi., p. 150).
[xli] Cfr. S. Benvenuto (2017), p. 153.
[xlii] Anche L. Chiesa, in un articolo che ho recentemente avuto il piacere di tradurre, si confronta con questo meraviglioso saggio, traendone lo spunto per una sistematica analisi dei concetti di alienazione e separazione in Lacan. Cfr. Ferite di testimonianza e martiri dell’inconscio: Lacan e Pasolini contro il discorso della libertà (in pubblicazione). Attualmente il saggio è reperibile in L. Chiesa (2016), pp. 30 – 54.
[xliii] P. P. Pasolini (2012), p. 269.
[xliv] Ibidem.
[xlv] Ibidem.
[xlvi] Ivi, p. 270.
[xlvii] Ibidem. (Ma, che egli lo sappia o non lo sappia, in realtà egli non crede in nulla, crede cioè nel contrario della vita: ed è questa sua fede che egli esprime lacerandosi con ferite di testimonianza” (Ibidem).
[xlviii] Ibidem.
[xlix] Ibidem.
[l] Ivi, p. 271.
[li] Ibidem.
[lii] Ivi, p. 275.
[liii] Ivi, p. 272.
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