ADDIZIONARIO
Per un lessico biopsicosociale delle addiction e delle dipendenze
LA TEORIA DELLA DIPENDENZA RAZIONALE: TRA NUOVE SENSATEZZE E VECCHIE ASSURDITÁ
Il Dott. Canali è responsabile del progetto Psicoattivo (http://www.psicoattivo.com/), e autore di molteplici contributi a riguardo delle varie forme di dipendenza, gli aspetti di neurobiologia che li sottendono, la loro gestione da parte degli individui e le migliori prassi di cura.
Raffaele Avico, redazione Psychiatry On Line
Poche cose ai nostri occhi appaiono più irrazionali dei comportamenti dei soggetti che vivono una condizione di dipendenza. Come sostenuto dalla stessa definizione medica di dipendenza, queste persone continuerebbero ad usare le sostanze a dispetto della consapevolezza dei problemi associati a tale comportamento. Ma è per definizione irrazionale agire in contrasto a ciò che dovrebbe essere il meglio, a ciò che si conoscerebbe essere il comportamento preferibile per i nostri interessi, la nostra salute. E questa invincibile, compulsiva, irrazionalità sarebbe il segno patognomonico, caratteristico, della malattia. Solo un individuo malato infatti potrebbe ostinatamente agire in maniera così irrazionale, ripetendo esattamente e in modo consapevole lo stesso sbaglio, lo stesso comportamento autolesionistico e cognitivamente indesiderato.
Ma è proprio così? Oppure questa concezione è solo uno dei molti riflessi condizionati del pensiero; una delle infinite manifestazioni del vizio congenito del preconcetto che ci costringe a pensare alle cose nel modo apparentemente più ovvio o soltanto più comune, un modo spesso sbagliato e comunque sempre parziale, relativo, condizionato.
È possibile immaginare un grado di razionalità nell’uso delle sostanze psicoattive? Ed è possibile rappresentare un soggetto dipendente come un agente tutto sommato razionale? È possibile concepire la dipendenza come una strategia d’azione che in certe contingenze garantisce una qualche forma di utilità, qualcosa che porta un qualche tipo di beneficio superiore ai costi associati a quel comportamento nonostante ai nostri occhi sembrino esorbitanti e insostenibili? Questo è proprio quanto suggerisce la teoria della scelta o dell’azione razionale, un modello di spiegazione dei comportamenti economici e sociali. Secondo questa teoria, un individuo sceglie e agisce sempre al fine di massimizzare l’utilità: ottenere un vantaggio, nella consapevolezza dei costi e delle eventuali conseguenze negative associate alle scelte e alle azioni che intraprende. E pertanto quando un individuo attua un determinato comportamento è perché valuta l’utilità che ne deriva comunque superiore ai costi.
La teoria Razionale della Dipendenza (TDR)
Nel 1988, Gary S. Becker, che quattro anni dopo prenderà il Nobel per l’economia, e Kevin M. Murphy hanno proposto la teoria della dipendenza razionale (TDR d’ora in poi)(1). La TDR ipotizza che, sebbene il soggetto con dipendenza possa preferire vivere libero da questa condizione, considerati tutti i fattori di cui è consapevole o di cui comunque percepisce l’azione, egli giudica che l’uso cronico di sostanze sia l’opzione migliore, più vantaggiosa ovvero anche meno costosa e penosa, in un determinato periodo della sua vita, in un particolare contesto dato e per le prospettive future che immagina. Secondo questo modello di spiegazione il soggetto che dipende da una sostanza valuterebbe cioè gli effetti ricercati della sostanza superiori agli effetti collaterali di tipo fisico, psicologico, economico e sociale.
Purtroppo, a livello consapevole o della percezione dei cambiamenti che producono sull’umore, sulla coscienza, sulle funzioni psicologiche, gli effetti ricercati delle sostanze possono essere innumerevoli e associati a rischi e costi assai elevati.
Benefici immediati, costi ritardati
Anche chi non ha mai sperimentato una dipendenza patologica può capire che per certe persone in condizioni di grande disagio sociale, con una infanzia problematica, senza fondate possibilità di gratificazioni future su cui investire, possa essere “razionale” preferire l’uso continuo di sostanze. Queste possono offrire una gratificazione immediata, una artificiale occasione di conforto e di evasione dalla realtà presente. Che peso decisionale hanno le conseguenze negative nel tempo di un piacere immediato se il futuro appare senza riscatto?
Un uso in qualche modo “razionale” può valere anche per persone non svantaggiate economicamente e socialmente, ma segnate da traumi profondi o ripetuti, lunghi periodi di stress, gravi perdite o lutti. Anche individui afflitti da un temperamento problematico, dall’ansia, dalla depressione, vulnerabili all’anomia o a certe pressioni sociali verso il consumo voluttuario e l’eccesso potrebbero, tutto considerato, in certi periodi della vita valutare preferibile e vantaggioso l’abuso di sostanze e anche le dipendenze nonostante i loro costi economici, fisici e relazionali. Usando la sostanza che sembra contrastare il sintomo di cui soffrono (ad esempio, oppiacei o alcol per l’ansia, cocaina e altri stimolanti per tratti distimici e depressivi), certi consumatori possono trovare sollievo al disagio, regolare stati emotivi troppo acuti o disturbanti. Questo è quanto sostiene l’ipotesi dell’uso di sostanze come automedicazione formulata da Edward Khantzian e David F. Duncan (2), che recentemente sta trovando interessanti sviluppi nella ricerca di base, con evidenze neurofarmacologiche coerenti ai processi causali immaginati (3). L’uso delle sostanze come automedicazione è peraltro il modo più ricorrente con cui i soggetti che ne soffrono raccontano l’essenza e la ragione della dipendenza.
Altri individui invece possono ricorrere strumentalmente agli stimolanti per cercare di far fronte alle pressioni del lavoro o allo stress e alle richieste familiari e sociali.
La propensione a queste forme di uso strumentale, a suo modo razionali, che può caratterizzare il consumo di droghe per taluni e in certe condizioni, è peraltro rafforzata da un altro tratto specifico degli effetti delle sostanze psicoattive. Con le droghe e le sostanze psicoattive, la ricerca della ricompensa immediata (i benefici, l’utilità) tende a combinarsi alla svalutazione dei costi reali, proprio perché questi si manifestano soprattutto nel futuro, appaiono ridotti per l’effetto prospettico della distanza temporale e conseguentemente hanno un impatto emotivo e decisionale ridotto. Lo sconto temporale, la svalutazione dei beni futuri, è un tratto psicologico universale, misurato sperimentalmente non solo nell’uomo ma anche in molti animali. Nel caso dei consumatori problematici di sostanze lo sconto temporale, che si traduce in elevata impulsività, tende ad essere ancora più pronunciato, tanto che i soggetti dipendenti sembrano soffrire della cosiddetta “miopia per il futuro” (4).
L’irragionevolezza della razionalità
Sebbene controversa e al centro di un acceso dibattito, la teoria razionale della dipendenza di Becker e Murphy è diventata uno dei modelli di riferimento dell’economia comportamentale delle dipendenze (5). La TDR ha l’indubbio merito di suggerire che è possibile concepire anche l’esistenza di aspetti funzionali in comportamenti generalmente stigmatizzati come irrazionali e patologici e di aver così ampliato la gamma delle possibili spiegazioni delle dipendenze.
Tuttavia, ironicamente, nella sua formulazione originale, la TDR propone un esemplare di consumatore troppo razionale, un agente economico ideale, capace di individuare e realizzare coi suoi comportamenti la massimizzazione dell’utilità, il miglior rapporto possibile tra costi e benefici.
Secondo la versione originale della TDR un ipotetico consumatore di alcol, ad esempio, oltre a conoscere chiaramente la natura e la portata degli effetti desiderati del bere, dovrebbe sapere che assumere una dose di alcol oggi potrebbe aumentare il desiderio di consumarlo in futuro e di consumarne di più. In accordo alla TDR inoltre, l’ipotetico consumatore di alcol dovrebbe essere consapevole dei costi futuri, di tipo fisico, economico, sociale, psicologico. Secondo la TDR, dunque, la scelta di consumare quella dose di alcol è una scelta razionale scaturita dal calcolo dell’utilità, dalla comparazione delle diverse variabili in gioco in termini di costi e benefici percepiti: il piacere di quel bicchiere, gli effetti sull’umore e sulla socievolezza, sulla riduzione dell’ansia, con i costi economici e il loro verosimile aumento nel tempo per effetto della tolleranza, con i costi nel tempo sulla salute, sull’efficienza al lavoro, sui rapporti in famiglia e con gli amici e così via. Ma questo è chiaramente un modello astratto di comportamento assai poco rispondente alle effettive azioni, ai reali processi biologici, motivazionali e psicosociali, alle componenti di impulsività e automaticità appresa che determinano l’abuso di una sostanza o di un comportamento e le dipendenze in generale nelle persone reali (6).
Homo oeconomicus e le dipendenze
Come e in misura maggiore degli individui che definiamo sani, il soggetto dipendente non è un homo oeconomicus, cioè un agente razionale capace di analizzare una situazione complessa, prevederne gli sviluppi e individuare la strategia più efficace per perseguire consapevolmente nel tempo la massimizzazione dell’utilità, dei propri vantaggi e interessi personali. Come e in misura maggiore degli individui che definiamo sani, il soggetto dipendente è mosso da emozioni e impulsi momentanei, da riflessi condizionati fissati dal rinforzo della sostanza; confuso dall’opacità del futuro e dall’incapacità di immaginarselo in modo libero dal suo stato presente, emotivo e materiale. Come e in misura maggiore degli individui che definiamo sani, il soggetto dipendente si muove spesso in cerchio o su una traiettoria aggrovigliata, trattenuto dall’autoinganno, dall’ambivalenza delle sue intenzioni e dall’oscillazione cronica di preferenze volatili, da pulsioni viscerali potenti causate dal neuroadattamento alla sostanza, dai meccanismi della tolleranza e dell’astinenza. Come tutti noi, più di noi, il soggetto dipendente è congenitamente afflitto dalla affaticabilità dei controlli cognitivi e inibitori e dalla conseguente irresistibilità che sembrano avere gli appetiti per ciò che ci gratifica - ma che può farci anche male - quando siamo stanchi, irritati, sotto stress, dentro a un disagio. Come tutti noi, e più di noi, anche il soggetto dipendente è preda di pregiudizi e modi di vedere illogici, di trappole cognitive e decisionali che costituiscono l’impalcatura stessa della mente umana. Anch’egli, e molto più di noi, deve fare i conti con la smisurata gamma di comportamenti normalmente incoerenti che la nuova economia comportamentale sta studiando questi ultimi anni: un’impresa scientifica che certamente ci permetterà di spiegare più ragionevolmente la patologica irrazionalità che continuiamo ad attribuire alle dipendenze.
Riferimenti bibliografici
1) Becker, G. and K. Murphy (1988) “A theory of rational addiction”. Journal of Political Economy, 96, 675-700
2) Khantzian, E.J., Mack, J.F., & Schatzberg, A.F. (1974). Heroin use as an attempt to cope: Clinical observations. American Journal of Psychiatry, 131, 160-164; Duncan, D.F. (1974a). Reinforcement of drug abuse: Implications for prevention. Clinical Toxicology Bulletin, 4, 69-75; Duncan, D.F. (1974b). Letter: Drug abuse as a coping mechanism. American Journal of Psychiatry, 131, 174.
3) Awad, A. G., & Voruganti, L. L. N. P. (2015). Revisiting the “self-medication” hypothesis in light of the new data linking low striatal dopamine to comorbid addictive behavior. Therapeutic Advances in Psychopharmacology, 5(3), 172–178.
4) Bechara A, Dolan S, Hindes A. Decision-making and addiction (part II): myopia for the future or hypersensitivity to reward? Neuropsychologia. 2002;40(10):1690-705
5) Ferguson, B. S. (2000) "Interpreting the rational addiction model". Health Economics, Vol. 9: Iss. 7, pp. 587-598.
6) Melberg HO, Rogeberg OJ. Rational addiction theory: a survey of opinions. J Drug Policy Anal (2010) 3(1):5.10.2202/1941-2851.1019; Rogeberg, O.J. (2004). "Taking Absurd Theories Seriously: Economics and the Case of Rational Addiction Theories". Philosophy of Science, 71 (3): 263–285.