Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Giacomo Leopardi – Le ricordanze – Canti
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Giacomo Leopardi – Le ricordanze – Canti
Riassunto
L’autore, tra i più anziani in Italia a celebrare il “superamento dei manicomi”, come si è finito col dire, dopo tante parole forti, per la verità datate e anche un po’ fuori contesto, avvia una riflessione complessiva a partire da ciò ch’egli è stato, “medico dei matti”, come dice Eugenio Borgna, a ciò che ha fatto, passo dopo passo, dal 1978 fino al pensionamento, e paraggi. Salvo qualche breve coda accademica (Ca’ Foscari, Venezia) e un insegnamento alla SPIGA di Vincent Morrone [1], protrattosi comunque non oltre il 2010. Il compito assegnato dalla riforma a quelli di noi che hanno iniziato lavorando nei manicomi, ai pazienti ricoverati, ai parenti dei medesimi, alle loro associazioni e alla società civile tutta, era imponente, lo sforzo titanico. Nondimeno, se ciascuno dei protagonisti, potendolo fare, supponendo che sia ancora in grado di farlo, volendolo e mentalmente attivo, ripensa onestamente, e con gentilezza, per richiamare lo stile Borgna, a ciò che ha fatto o ha dimenticato nella smania di fare tutto e subito, può darsi che venga fuori l’errore, o l’incompiutezza, che oggi si cerca, nella 180. Quello che di questa legge non ha funzionato e perchè. Probabilmente la celebrazione del suo quarantennale potrebbe chiudersi meno trionfalisticamente e riavviarsi più virtuosamente, riprendendo il filo di quelle “contraddizioni” che scoprimmo tutti clamorosamente, perché erano palesi. Non riuscimmo a spiegarle fino in fondo, anche se qualche risposta fu avanzata. Dopo 40 anni, gran parte di quelle “contraddizioni” restano ancora stridenti, come lo erano all’inizio, forse di più. Ma il fervore e l’entusiasmo sono un po’calati. Malgrado tutto, sono convinto che si possa andare oltre a patto di fermarsi un attimo per respirare profondamente e raccogliere le idee. Non siamo fermi. Siamo solo molto distratti. Anzi, frastornati da una sorta di presentificazione depressiva e intimorita senza pericolo, scambiata per presenzialismo informativo sull’accadere mondiale, che non possiamo né gestire, né filtrare, né ignorare. Insomma sbattuti con la faccia su “la notizia” e viceversa in un palleggio diabolico. Abbiamo però il vantaggio di sapere perché ci siamo fermati. Reculer pour mieux sauter.
I – PARTE PRIMA
“Il medico dei matti” cambia ospedale.
Un popolo che ignora il proprio passato
non saprà mai nulla del proprio presente.
Indro Montanelli.
Premessa.
La camera verde.
Non ricordo più per quale incombenza e in quale ruolo fui convocato a Cinecittà per il doppiaggio del film di François Roland Truffaut La chambre vert. Francia 1978. La pellicola, fu distribuita in Italia col titolo La camera verde. Raccontava la storia, un po’ dark, di Julien Davenne, redattore di un giornale locale, specializzato in annunci funebri, i quali dovevano essere scritti ognuno diverso dal precedente. I toni, le parole, i richiami, le citazioni dovevano essere sempre nuovi, originali, differenti, mai attingere nell’oceano delle banalità. Il clima narrato è quello dell’immediato dopoguerra, in Francia, tra il 1927-28. Il tema non era abituale per il maestro della nouvelle vague, tra l’altro della mia stessa classe (1932), ma il cimento veniva affrontato col solito rigore del film d’arte. So che mi colpì molto perché mia madre, una valsuganotta sedicenne, sveglia e intelligente, profuga dal Canal del Brenta, poco sotto il confine di Primolano, con una marea di triveneti “civili”, espulsi dalle loro terre alla rinfusa, come un tappo di spumante dopo lo schianto di Caporetto, quella guerra austriaca di “Cecco-Beppe", che l’aveva patita, me la raccontava sempre in ogni particolare, al contrario di mio padre (il tenentin da’e scarpe xjae) che l’aveva fatta tutta e non ne ha mai parlato con chicchessia, per tutta la vita, neppure per sbaglio [2].
Il fatto, mi è tornato alla mente per numerose coincidenze affatto personali e singolari, che s’incrociano con le celebrazioni centottantine di Francesco Bollorino. Del movimento francese nouvelle vague di fine anni Cinquanta ne parla la rivista Cinéma del 1958, anno della mia laurea. La 180 è del 1978, lo stesso anno in cui è girata La chambre vert, la “Grande Guerra” finisce nel 1918, ma precipuamente il dato concreto che quando sono andato a cercare molti colleghi coi quali mi ero trovato d’accordo nell’abbattere le istituzioni manicomiali, ho dovuto compilare una serie di necrologi, perché se n’erano andati.
1. I ■ Cronotassi dei progetti e degli obiettivi. Funzione della memoria.
Ha senso riandare indietro con la memoria storica? A che serve? Spesso, ormai da oltre un decennio e maggiormente ora, che mi sto avvicinando al giro degli 86, mi sono sentito rivolgere questa domanda.
Con connotazioni negative da persone distratte e a disagio pei loro affanni quotidiani (I vecchi con la loro smania di raccontare!). In termini positivi da allievi, fin quando ho insegnato come predisporsi per incontrare il mondo della sofferenza mentale. In maniera straordinariamente inattesa e imprevedibile dai 7 nipoti. Domande difficilissime quand’erano piccini (Nonno perché tramonta il sole? Oppure ai tempi tuoi c’era la luce elettrica o stavate con le candele?). Domande più abbordabili man mano che crescevano (È vero che l’elettroshock l’hanno inventato andando al mattatoio di Roma?).
Su questo punto della senilità, però, ci sono varie scuole di pensiero. Publio Terenzio Afro sentenziava pessimisticamente “senectus ipsa est morbus”. Seneca, scrivendo all’amico Lucilio gli spiega come separare gli acciacchi del corpo da ciò ch’egli avverte nello spirito in cui, l’esperienza trascorsa e maturata, ha le sue inattese fioriture. Cicerone, da buon avvocato, prendendo ad esempio Catone il censore, in “Cato Maior de senectute”, confuta puntualmente i difetti attribuiti alla vecchiaia illustrandola agli amici Gaio Lelio Minore e l’Africano minore.
Non posso comunque negare che Francesco Bollorino ha tirato fuori dal cilindro magico della sua irrinunciabile Rivista telematica POLit Psychiatry on line un personaggio straordinario, affascinante e garbato, come Eugenio Borgna. Un antico signore che è una icona parlante della psichiatria italiana dell’ultimo mezzo secolo e codesto mezzo secolo vede e racconta, in retrospettiva, con la lucidità, la presa magnetica sull’ascoltatore, di un’opera cinematografica, un libro, un dramma pirandelliano. Come non correre col pensiero al Teatro d’Arte di Mosca. A Vladimir Ivanovič Nemirovič-Dančenko e, particolarmene a Konstantin Sergeevič Stanislavskij. Al suo celebre “metodo” di recitazione, al “sottotesto” oltre che al testo, al “Cerchio d’Attenzione”. Un magico cerchio rosso dove avviene la rappresentazione dei sentimenti [3]. Quel campo magnetico che promana dal corpo, dalla voce, dalla motorica, dalle prassie e dalla presenza scenica di colui che racconta, cattura l’attenzione dello spettatore inchiodandolo alla poltroncina. La differenza, non di poco conto è che Stanislavskij e Dančenko erano attori/registi e insegnavano psicotecnica ai più alti livelli. Eugenio Borgna racconta, invece, con passione ciò che ha visto, come ha interagito e perché è diventato “medico dei matti” « … Ho capito che il mio destino sarebbe stato forse quello di rimettermi in una colloquialità permanente con le sorgenti della sofferenza, dell’angoscia, della disperazione, delle speranze infrante, del bisogno soprattutto, anche e soprattutto, di ascolto, che non solo dava un senso a quello che noi psichiatri tendiamo a fare… »[4].
2. I ■ L’ultimo scoop di Bollorino. Un colpo da maestro
Dopo questo colpo da maestro, che mette tutti d’accordo sul fatto che ci puo’ essere un’ottima vecchiaia e una pessima maturità, come pure l’esatto contrario, tutta l’introduzione – fatte salve le affinità elettive, le corrispondenze di sentimenti, i comuni orizzonti di pensiero, le motivazioni e le passioni personali, le ragioni profonde che mi hanno indotto a schierarmi e a mantenere le amicizie in senso binswangeriano e perché no, gli entusiasmi – tutta l’introduzione, dicevo, potrebbe anche divenire quasi pleonastica, se alla ribalta non si presentasse un protagonista indiscusso, un prim’attore, un protagonista, un gigante.
Non vorrei essere frainteso sull’aspetto fisico e sulla taglia atletica. Alludo a una figura asciutta e allampanata con una tonalità ascetica, di studioso (partecipante) delle emozioni e dei pensieri ad esse collegati, delle percezioni di esperienze significative che solcano i mondi delle alienazioni, illuminandoceli con precisione di orafo dell’eidos. Ma anche in grado di riattizzarle, codeste passioni, come il fuoco sotto la cenere, quando abbiano ad essere state distrutte dall’incendio smondanizzante dell’angoscia sovrastante. O, invece, al contrario, di riscaldarle nuovamente, quelle rigide, immote, algide esperienze di glaciazione della depressività, scongelandole con paziente attesa col calore dell’ascolto partecipante e l’alito caldo della parola.
Sì proprio Eugenio Borgna, lo psichiatra cortese; l’intellettuale raffinato, in grado di parlarci del mondo tragico della follia, la sorella sfortunata della poesia, com’egli dice, che non ti stancheresti mai di ascoltare. Da lui mi separano due anni, ma molto altro, tantissimo, che mi sforzo di emulare.
Il merito di un fratello maggiore può essere d’esempio, come stimolo, incitamento all’emulazione. Io, nella realtà, ne ho avuto uno, il cadetto, del 1927. Ora non c’è più. Aveva molte qualità, ma era ingegnere, come il padre di Borgna. Aveva studiato il tedesco, anche lui per volontà del padre. Sapeva pezzi di Viaggio in Italia (Italienische Reise) di Goethe che aveva mandato a memoria. Era una moda degli anni Trenta In casa avevamo una “tata” sud-tirolese, lingua madre tedesca. Io sono riuscito a dribblare il tedesco e l’inglese puntando sulla complicità di mia madre che odiava gli Austriaci. Non mi spostai dal francese fin dalle medie. Mi capitò, però, un’insegnante piemontese con una erre spagnola. Finì che quando prendevo la parola ai congressi in Francia mi scambiavano per marsigliese.
Debbo dire, però, che oggi, dopo aver faticato su Husserl e Heidegger, sono grato alle intonazioni della “tata” e un po’ invidio il tedesco forzato di Borgna. Quanto a Eugenio, il fratello maggiore desiderato da psichiatra, non ho difficoltà ad ammettere che lo conosco, lo stimo, lo leggo, lo studio quanto basta per poter dire che comprendo perfettamente quello che vuol dire, e soprattutto come lo dice. Trovo il vocabolario che usa, anzi le sue parole inarrivabili. Sicuramente il risultato di molti appassionati ascolti, attenzioni, accoglienze e corrispondenze di reciproci incontri di presenze. Insomma, un gran maestro, mai assertivo, neppure apodittico, ma discreto, sommesso, appassionato, autentico.
Sono contento di poter dire quanto le mie idee coincidano con quelle di Giuseppe Bollorino, del quale riferisco questa importante notizia. Praticamente un autentico scoop e non solo per i lettori della sua Rivista on line «Eugenio Borgna si racconta in esclusiva per il Canale Tematico Youtube di Psychiatry on line Italia! Sono già sette i video pubblicati e altri a breve arriveranno a costituire un patrimonio di contenuti unico per profondità e sincerità dal Maestro Gentile della Psichiatria Italiana» e un suggerimento «Seguendo il link potrete accedere all'indice dei video in costante aggiornamento».
3 I ■ Mnemosine e Lete. Gli opposti.
Dicevamo dunque della memoria. Il ricordo, la testimonianza di chi c’è stato, ha vissuto quell’epoca. Mitologicamente parlando il mondo della dea del dialogo e della conversazione Mnemosine, figlia di Urano e di Gea, contrapposto a quello dell’oblio, personificato dal fiume intitolato a Lete, figlia di Eris.
Fino ad ora mi sono regolato così nelle risposte. Anzitutto bisogna lasciar decantare le passioni, valutare cioè, se valga la pena di raccontarla codesta memoria storica, e se non offenda quella di coloro che erano contrari alla tua posizione nel periodo dei fatti rammemorati. Poi dipende da quello che hai scelto di fare quando ti fu chiesto di schierarti. Infine (e molto) anche se successivamente la tua decisione, prevalse fra le più umane, sensate e virtuose.
Molto però dipende da come stanno i neuroni perché come ricordava Lorenzo Calvi, il compleanno è una «Ricorrenza convenzionale, si dice …, per aggiungere poi subito, fuor di artifizi retorici, un inesorabile … ed invece no, perché la biologia vieta di considerarla trascurabile» [5]. Eppoi, tutti quelli che hanno fatto la specializzazione prima della riforma Cazzullo (1976), indicata severamente col titolo promiscuo di Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, la stessa di Freud, conoscono benissimo il capitolo delle demenze cognitive.
Quelle “vascolari” scoperte e descritte da Otto Binswanger (1852-1929), fondatore del Sanatorio di Kreuzlingen, capo medico, sotto Westphal, alla clinica psichiatrica e neurologica “Charité” di Berlino, professore poi direttore di psicologia e infine rettore all’università di Jena, il prestigioso zio di Ludwig. Le demenze che riducono la “bianca” allo stato marmoreo. E quelle “degenerative” cui ha dato il patronimico Alois Alzheimer (1864-1915), corredate di un micidiale killer sinaptico, la proteina beta-amiloide, che si studia attualmente con grande interesse.
4 I. ■ 1978. Un fondamentale cambio di prospettiva.
Il 13 maggio 1978, una volta promulgata la 180, quelli che non erano d’accordo hanno iniziato da subito a boicottarla in mille modi. Le insidie potevano giungere da qualsiasi parte. Bisognava stare all’erta, tenere gli occhi aperti, ricordare con chi avevi parlato e quali pazienti avessi visto. Poteva servire, anche a me che ero stato riveduto alla visita di leva (per la vista) ed ero pacifista, l’ammonimento di Napoleone «Una testa senza memoria è una piazzaforte senza guarnigione».
Coloro che erano favorevoli, invece, mordevano il freno. Con Nino Lo Cascio, ci eravamo presentati, da volontari, al Quartiere africano di Roma, in Via Sabrata, la sede del Centro d’Igiene Mentale (CIM). In questa elegante villetta dell’Amministrazione Provinciale di Roma, sede del CIM, dove c’era una sorta di arruolamento generale. Il direttore Prof. Romolo Priori (traduttore di Jaspers, Allgemeine Psychopathologie, vero pozzo di scienza per le “dritte” bibliografiche sulla letteratura psichiatrica mondiale), predisponeva i turni di guardia per l’apertura dei primi 4 Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) dotati dei famosi 15 posti letto psichiatrici cadauno.
Nel febbrile desiderio incontenibile di attuare il primo atto concreto della “180”, almeno noi romani del “Santa Maria della Pietà”, si pensava, che l’obiettivo strategico principale fosse quello di prendere possesso delle spettanze legislative all’interno dei cosiddetti Ospedali “Civili”. Di espugnare l’impenetrabile “Pio Istituto del Santo Spirito” e dare così un segno tangibile, anzi clamoroso, che la riforma era passata. In seguito si sarebbe provveduto ad organizzare il “territorio” (ambulatori, comunità terapeutiche, centri diurni, visite domiciliari, prevenzione nelle scuole, ecc). La sfida micidiale era quella di tenere in piedi e funzionante h. 24 il Centro di Salute Mentale (CSM) oppure il Dipartimento di salute Mentale (DSM) o meglio, come alcuni di noi teorizzavano, il Servizio Dipartimentale di Salute Mentale (SDSM), con tutte le funzioni di cui s’è detto sopra.
Su questa festinazione degli acronimi, adottata per la psichiatria riformata e senza manicomio, torneremo in seguito, perché può essere divertente riferire come noi riformatori della prima ora fummo a lungo presi in giro. Non senza motivo, in verità,, da molti anche, e non tutti ci erano nemici nella neppur tanto celata speranza che la riforma fallisse.
Certamente le cose da fare erano smisurate, moltissime e diciamo anche troppe, ma quelli disposti a darci una mano erano assai pochi: i familiari dei pazienti le associazioni costituitesi intorno a loro e pochi altri, rari filantropi.
5 I. ■ Romolo Priori, la sua sapienza la sua pazienza, le sue anguille saponarie.
Il ricordo appassionato di quei giorni epici, man mano che affiorano alla coscienza, prendono forma, suono, colore. Riappaiono volti, incontri, parole, parole d’ordine, imperativi categorici, obbiettivi e naturalmente i tragitti, i percorsi, le strategie più efficaci da mettere in atto. Tutta questa copiosa fucina di intenzioni, di buoni propositi e di lunghissime riunioni non possono prescindere dal direttore del CIM, il prof. Romolo Priori.
Sempre cordiale, sorridente dissimulava con discrezione una “presenza” anche dal punto di vista fisico, corporeo e strutturale, che certamente doveva essere stato importante e atletico in gioventù. Eravamo in primavera inoltrata e, sotto la camicia privata della giacca, s’intravedeva, una muscolatura da “fiumarolo”, come si dice a Roma in certi ambienti anche un po’ esclusivi, e non necessariamente di “calcetto”. Roba da “Tevere Remo” o “Canottieri Lazio”. A mio avviso, non sarebbe stato esagerato scomodare la Boat Race ossia la regata Oxford-Cambridge sul Tamigi, una delle più celebrate sfide di canottaggio mondiale. Se volevi tirarlo un po’ allo scoperto, il Prof. Priori, dovevi provocarlo ricordandogli i rivali del canottaggio, di cui, da universitario, era stato un talento. Giannetto Cerquetelli, tanto per cominciare, che era stato un suo grande avversario in Clinica Neuro e a “Fiume”. «Romolo, Giannetto va dicendo che ti batteva regolarmente a fiume. Con lui non ha mai vinto una regata!» – Io – «Chi?! Cerquetelli?» – lui – «Ma dai, era una pippa, una gran pippa!» – e rideva bonario sotto i baffi (che tra l’altro non portava), senza mai scomporsi.
Il suo vero asso nella manica, nelle relazioni con pazienti, colleghi e personale del suo lavoro quotidiano, era quel suo minimalizzare, sornione e confidenziale, tutte le cose, dalle più difficili alle più semplici: «Ma dai?» «Ma che me stai a di? ». Se però gli chiedevi una voce bibliografica, un autore, un testo o anche semplicemente su quale numero del Zentralblatt für die gesamte Neurologie und Psychiatrie, si trovasse quel dato articolo di quel determinato autore, procedeva dritto e spedito come a una regata. Qualunque fosse la circostanza. Era della scuola di Cerletti, aveva vinto il concorso all’OPP di Ceccano dove aveva fatto il Direttore per alcuni anni, prima di rientrare al Cim di Roma. Aveva grande esperienza di persone e istituzioni ospedaliere, conosceva molte persone nel ramo sanitario ed era conosciuto. Proprio quello che ci voleva.
La prima volta che l’ho sentito usare il termine a lui consueto di “anguille saponarie”, per definire persone sguscianti, è stato al CIM di Via Sabrata di cui era direttore, durante la compilazione dei turni di guardia ai primi SPDC che lo impegnavano moltissimo. «Guarda che te dicono così, poi non te ce vengono»… «so’ anguille saponarie!». Me ne sono ricordato spesso, successivamente, soprattutto nel lavoro territoriale dove l’istituzione non c’era proprio, anzi la dovevi costruire tu ex novo, col tuo sapere, la tua autorevolezza, la tua colloquialità. Il principio elementare però era che per impedire la fuga tu dovevi essere il primo a firmare la presenza. Insomma, per far funzionare le cose, dovevi essere il primo a rispettare le regole. Quante volte mi sono sentito dire «Allora me lo mette per iscritto» – «Non una, ma 10 volte – rispondevo – e te ce metto pure il timbro del Primario Capo Servizio». Questo, per carità non vorrei essere frainteso, il senso, il succo di tutto questo, l’ho imparato da Romolo Priori, perché lui non era, né è mai stato così assertivo. Determinato si, ma sempre gentile, cordiale, paziente e sornione.
6 I. ■ Il ricovero ospedaliero per i pazienti acuti della 180. Un accordo difficile.
Io e Nino Lo Cascio fummo destinati all’Ospedale Civico di San Giovanni, dal “comando tappa” del CIM di Via Sabrata. Forse ci trascinammo dietro anche Mario Maurillo, un abile psichiatra clinico assisiate, con inclinazioni internistiche, che si era specializzato al “Gemelli”. Per inciso vale la pena di ricordare, en passant, che tra quelli della “Sapienza” e quelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore intitolata ad Agostino Gemelli, c’era una accesa rivalità. Personalmente, quando venne inaugurato il Policlinico “Gemelli” (1964), ero già laureato in medicina, alla corte di Mario Gozzano, sposato e con 2 figli.
A Roma fu raggiunto l’accordo politico, almeno in linea di massima, di aprirne quattro di codesti SPDC: San Giovanni, San Filippo Neri, Forlanini e Policlinico Umberto I. Uno per ogni nosocomio. In totale 60 posti letto per la “180”, se la memoria non mi tradisce. Ma poiché al “cancelliere di ferro” Otto Von Bismarck, che di politica se n’intendeva, veniva attribuita la celebre frase «Quando si dice d'essere d'accordo su una certa cosa in linea di principio, significa che non si ha la minima intenzione di metterla in pratica», quella volta fu clamorosamente smentito… solo per tre quarti. Andò a finire che l’Umberto I riuscì abilmente a sottrarsi all’accordo e quei 15 posti letto mancanti, apparvero anni dopo, prima al Policlinico Casilino e infine al Pertini.
La cosa più difficile, praticamente la quadratura del cerchio, ma lo era sempre stato dappertutto, in qualunque tipo di istituzione sanitaria, carceraria, giudiziaria, militare, civile e via andare, era compilare i turni di guardia degli operatori. Dai primi agli ultimi. Ne caso che ci riguardava dai medici agli infermieri. Entrambe le categorie sapevano bene di cosa si trattasse, ma coi primi era più difficile accordarsi, coi secondi meno. Per dirne una, ai tempi del manicomio, c’era “un malatino” che dietro un piccolo compenso (la tariffa era uguale per tutti e il servizio valeva solo per gli infermieri/e) sviluppava su cartoncino bianco pieghevole, scritto a china nera, rossa i festivi, tutti i turni di guardia e di riposo per l’anno intero. Poiché la turnazione del “comparto” (mattina, pomeriggio, notte, disponibile, riposo, libertà) era di una difficoltà inaudita, anche per ragioni sindacali e di orario, quel cartoncino era veramente prezioso, oltre che geniale. Qualunque infermiere/a poteva prevedere ad inizio anno cosa gli sarebbe toccato a Ferragosto, a Natale a Pasqua e a tutte le sue ricorrenze. Per i medici era diverso, non ho mai approfondito. Mi andava bene come avevo trovato. Noi facevamo 24 ore filate in due. Io stavo con Massimo Marà, credo di averlo detto più volte, ma c’era la possibilità di cambiare, in via straordinaria e a cura dell’interessato che si cercava il sostituto, possibilmente non sgradito al compagno di turno abituale.
Al Cim di Via Sabrata, a tenere i conti dei turni, insieme al Prof. Priori, che poi firmava prima che i fogli di preavviso fossero appesi con tutti i crismi dell’ufficialità alla bacheca del CIM di Via Sabrata, c’era il “sergente di ferro” Arturo Carfagnini. Un infermiere politicizzato (PCI) e tosto che in manicomio si era guadagnato il rispetto della suora caporeparto. «Arturo? Sarebbe una brava persona, peccato che sia comunista. Conosco i figli e la moglie, tutti bravi cristiani, vanno anche a messa. Lui però e un testone! Tutte le mattine quando prende servizio, gli si vede spuntare l’Unità dalla tasca della giacca. Guardi, o lo fa di proposito o glielo ordinano da Botteghe oscure!»
7. I ■ L’applicazione di un progetto rivoluzionario. San Giovanni SPDC subito
Il direttore del San Giovanni di allora si chiamava Sergio Biancone, era un medico squisito, ospitale, tollerante, sempre molto elegante. Insomma, come ti aspetti che sia il direttore di uno dei più antichi e importanti ospedali della capitale. Di area democristiana, era abilissimo in qualsiasi tipo di accordo, “provvisorio”, “senza impegno”, “per provare”. Un buon cristiano, in fondo, ma coi Primari dell’ospedale non ci fu verso. Io e Lo Cascio, semplicemente “Aiuti”, eravamo incaricati della dirigenza del Servizio Psichiatrico dall’Amministrazione Provinciale, in attesa di espletare il pubblico concorso nazionale alla qualifica di primario secondo le regole della nuova Legge 23 dicembre 1978, n. 833. "Istituzione del servizio sanitario nazionale". La loro opposizione fu talmente ostinata che dovemmo convincere alternativamente Romolo Priori (ex Direttore OPP Ceccano) e Alberto Giordano (ex Direttore Istituto provinciale per l'assistenza all'infanzia) – giudicati “equipollenti” a “primari ospedalieri” affinché ci affiancassero nelle riunioni periodiche tra i primari. A detta di Priori erano anguille saponarie anche quelli, ma de Comacchio!
Durò tre mesi quell’esperienza, prima del concorso e dell’assegnazione territoriale ma successe l’incredibile con una sequenza vertiginosa e senza un minimo di tregua.
Tra le figure professionali del nosocomio da cui appresi di più, ricordo alcuni “Ispettori”. Conoscevano alla perfezione i regolamenti ospedalieri, i transiti delle merci e dei medicinali in entrata e in uscita, su cui esercitavano un controllo discreto ed erano in grado di sostituire qualunque defezione di personale in brevissimo tempo. È vero che si occupavano del “comparto”, come si diceva in gergo tecnico (gli infermieri, insomma), ma erano assolutamente diversi da quelli del manicomio.
Difficile dire a distanza di quarant’anni, se l’ingresso della psichiatria critica negli Ospedali Generali fosse veramente così fondamentale ed irrinunciabile per tornare nell’alveo della sanità pubblica. Per portare a compimento la riforma sanitaria nazionale per come ce l’avevano magnificata dal Regno Unito, dove aveva trionfato. Bastava solo nominarlo il Servizio Sanitario Inglese di Sua Maestà la Regina, e tutti giù a lodarlo. Per troppo tempo, invece, da noi, la medicina e la psichiatria avevano camminato per strade diverse e separate. Anzi, a ben pensarci, non avevano mai avuto punti di contatto. Io stesso, quando ero di guardia in manicomio, dovevo fare da solo: il chirurgo, l’ostetrico, l’internista il dentista, l’otorino. Tutt’al più potevo chiedere aiuto al secondo medico di guardia che solitamente era Massimo Marà, come ho già detto.
I consulenti manicomiali di medicina interna, di chirurgia generale o di altre specialità venivano da fuori a giorni fissati, durante l’arco della settimana. Il III Padiglione (di medicina e chirurgia) era quello adibito alla bisogna, nel senso che aveva camere operatorie, sale da parto, medicherìe e posti letto con personale distaccato e una suora Capo-sala apposita che prendeva accordi direttamente con il primario specialista esterno, convenzionato con la Provincia. Questo per dare l’idea di quanto lontana fosse la “cosa medica” dai temi della follia: addirittura la prima incistata, contumaciata e periferizzata nel piccolo universo della seconda plasticamente raffigurato e contenuto oltre il recinto del manicomio di “Monte Mario”. Ma questo, peraltro, giustificava la frenesia di ritenere prioritario e rivoluzionario il confronto della psichiatria acuta con la sanità ospedaliera che non ne voleva assolutamente sentir parlare, prima di trovare la sistemazione nel territorio dei demanicomializzati. È chiaro che non essendoci alcun precedente, non vi era alcun modello cui rifarsi. Non vi era una verità. Anzi, lo spontaneismo e l’entusiasmo frenetico, potevano risultare controproducenti, ancorché comprensibili. Anche avanzare in ordine sparso non era certo utile, ma si sa che in tutte le rivoluzioni – e la “180” lo è stata e di grande portata culturale – nessuno conosce prima quello che accadrà dopo.
8. I ■ Il duro confronto coi colleghi medici dell’ospedale.
Tre mesi devastanti e micidiali. Spesso eravamo chiamati al telefono del Reparto «Qui c’è un malato “vostro”. Venitevelo a riprendere perché dà fastidio!». Altre volte si trattava di repressione «Mandate qualcuno perché abbiamo un paziente che non vuole fare le lastre!». Oppure di ordine pubblico. Dalla mensa dei medici di guardia, questo lo ricordo personalmente, come fosse ieri: «Guardate che qui e salito “uno dei vostri”, si è seduto a tavola. Ha ordinato un piatto di spaghetti. Noi abbiamo paura… dice di essere un TSO». – Cosa?! – «Un tiratore scelto obbiettivo! Si, proprio così… abbiamo paura… fate presto…».
Il boicottaggio più sgradevole era comunque quando giungevano i manicomiali eterodiretti «E tu che ci fai qui? Ti sarai fatto due ore di autobus, da Monte Mario! » – «Mi ha mandato la professoressa… vai giù da Mellina a farti fare le nuove cure moderne». Comunque la sorpresa più grande fu quando Nino Lo Cascio e non ricordo più chi altro, ricevettero una citazione in tribunale da colleghi più anziani del manicomio, che si ritennero danneggiati per essere stati scavalcati nella carriera. La stravagante opinione che al più anziano “medico di sezione” manicomiale, dovesse spettare il primariato ospedaliero del nuovo SPDC, ci doveva convincere che, in alcuni punti, eravamo andati un po’ tutti fuori strada. Se aggiungiamo poi che la mattina c’era chi proponeva ostinatamente di fare l’assemblea tra i 15 posti letto “da rifare”, i malati “da pulire e medicare”, le terapie “da passare” e i prelievi da fare, c’era da restare interdetti. Quando poi arrivavano quelli del turno pomeridiano che sostenevano con arzigogoli da azzeccagarbugli che il “controgiro” pomeridiano era antiterapeutico sorgeva il sospetto di un boicottaggio vero e proprio. Se, infine, le cartelle da scrivere erano un “residuo manicomiale”, si capiva immediatamente che era per non fare le “guardie”. Solo quelle diurne, perché di notte c’eravamo sempre io, Lo Cascio e Maurillo, per ragioni che oggi potrebbero apparire incredibili ma che a quell’epoca e in quel clima, risalivano (tortuosamente) per giungere a un (malinteso) senso del dovere.
9. I ■ Qualche riconoscimento.
Ogni tanto, però, c’era anche qualche piccola soddisfazione come terapeuti e non semplici “medici dei matti”. Essendo il San Giovanni collocato ai piedi della Via Appia che scendeva dai Castelli romani, poteva capitare che fossimo chiamati d’urgenza per una crisi epilettica. In realtà si trattava di un “tremens” che scattava regolarmente dopo i classici tre giorni d’astinenza del malcapitato vignaiolo che era sceso per qualche controllo o qualche patologia improvvisa.
Giacché qualcosa di buono in manicomio l’avevamo imparato, tanto valeva applicarlo, “in trasferta”. Sapevamo che le suore caposala psichiatriche, erano provviste per questa bisogna astinenziale (ancorché poco medica e troppo empirica) della “marsaletta” o del “cordialetto”. Scoprimmo che anche le loro consorelle del San Giovanni lo erano. Dopo la prima volta che eravamo stati esaurientemente didattici, bastava dare una strizzatina d’occhi alla suora caporeparto dicendole: «Sorella, non avrebbe per caso… » che lei capiva al volo e la pericolosa situazione si risolveva come per miracolo.
Rammento ancora che il momento clou era l’arrivo dell’ambulanza affiancata da una pattuglia di vigili urbani, dal momento che il sindaco era la più alta autorità sanitaria cittadina. Solitamente l’ingresso del “180” nel pronto soccorso del SPDC destava curiosità e interesse fra tutto il personale addetto. Spesso venivano anche colleghi della guardia medica e chirurgica a guardare e informarsi. Insomma, si verificavano inavvertitamente, piccoli meeting. Ebbene, questo è stato uno dei non pochi aspetti positivi della mia esperienza al SPDC del San Giovanni. Anche perché mi ha consentito di verificare quanto grande fosse la misconoscenza dei temi della psichiatria e più in generale della psicologia, anche la più elementare.
Al pronto soccorso psichiatrico, bisognava approfittare di ogni minimo spazio per fare della pedagogia sotto il profilo psicologico e psicopatologico, sia teoretico che didattico, con esempi calzanti e approfondimenti efficaci. Soprattutto avere molta accortezza nell’uso dei termini. La parola “schizofrenia” terrorizzava i pochi o i tanti che vanivano ad informarsi, più che altro per ignoranza, come s’è detto. E non è detto che fossero sempre inservienti, facchini e gente di fatica. «Ah! Si?… Un vecchio schizofrenico del Santa Maria… dici… ch’è venuto a trovarti?… scusa… ma quand’è che schizza, cioè…si, insomma… che je pija ‘a crisi? Testuale.
Un altro classico era che quelli che strillavano più forte e facevano più baccano generalmente erano i meno urgenti. Al contrario di quelli taciturni immobili e apparentemente “calmi”, accantonati da chi sa quale ambulanza precedente e poi passati inosservati proprio per la loro silenziosità. Pazienti che dovevano essere soccorsi con precedenza assoluta. Quando richiamavo l’attenzione del personale alzando il tono della voce e mostrandomi preoccupato, la risposta generalmente era «Ma stava li buono, tranquillo, non chiedeva niente» – Dormiva? – «No! Gli occhi li teneva aperti, un po’ fissi mo’ che me lo chiede, però stava fermo immobile ma nun chiedeva gnente!»
Una curiosità che non mi sono mai tolto è sapere che fine facessero gli etilisti in fase di ebbrezza acuta. Se venivo richiesto di fare una consulenza volante al pronto soccorso medico e confermavo il dubbio “alito vinoso”, il paziente non lo vedevo più per tutta la notte, né il/i giorni seguenti nelle astanterie.
L’ultima cosa che ricordo con fastidio e per la quale ho spesso bisticciato coi responsabili delle astanterie (i “Piccoli Primari di Medicina”), era dovuta al fatto che per dimettere tutti i TS (tentato suicidio) pretendevano la firma dello psichiatra (al posto della loro) sulla cartella. La solita storia, abbastanza furbetta e penosetta del “malato tuo”, “malato mio”.
Note.
1. La Società di Psicoanalisi Interpersonale e Gruppo Analisi di Roma (SPIGA), dove lo scrivente, per qualche anno, ha tenuto Corsi di storia sulla diffusione della psichiatria psicodinamica e della psicoanalisi negli Stati Uniti d’America. Detti Corsi, prendevano le mosse dallo storico invito del 1909, rivolto a Freud di recarsi alla Clark University, Worcester (Mass.) da parte di Gordon Stanley Hall (primo presidente dell’A.P.A. e primo Rettore di quella università), per tenere 5 conferenze sulla psicoanalisi. Hall aveva studiato psicologia in Europa, a Berlino, inoltre aveva un corredo pedagogico di assoluto prestigio ed era seriamente interessato ad un programma completo di educatori dell’adolescenza.
2. Eppure ne scrisse. Mio padre, Ernesto Mellina (1892+1973), tra le altre cose fu anche un brillante scrittore. Solo di recente mi sono accorto che della prima battaglia, in cui ricevette il battesimo del fuoco, nella primavera del 1916, ne parla nascostamente tra le righe di uno dei suoi testi: Fascino del Sud, Signorelli, Roma, 1958. Il fatto d’arme fu nientemeno che la Battaglia degli Altipiani, in altre parole la più colossale spedizione punitiva (Strafexpedition) voluta del generale austriaco Franz Conrad von Hötzendorf (1852-1925), per punire l’Italia. Addirittura 2 armate austriache concentrate in Valsugana per dilagare fino a Vicenza. A parte la crudeltà, codesto generale, già noto per la repressione dei moti triestini (1902) ed essere consigliere dell’Arciduca Francesco Ferdinando, assassinato a Sarajevo (1914) era scarso per strategia bellica, e comunque, non ebbe fortuna coi nostri soldati. Teatro di guerra l’Altopiano di Asiago (dei Sette Comuni). Finalmente fu fermato. Ci vollero 44 giorni. I morti furono 230.545 di entrambi gli eserciti.
Il passo, di mio padre, sbucato fuori da un capitolo dove non te l’aspetteresti mai (L’isola dei nuraghi), è il seguente: « Un ricordo della prima guerra mondiale … Si era nelle retrovie dell’altopiano di Asiago e si combatteva una furiosa battaglia. Il nemico si era fortificato nelle opposte trincee e i morti erano tanti. I feriti della Brigata Sassari, comandata dal sardo Generale Sanna, affluivano con le barelle e quelli più leggeri si portavano a piedi ai posti di medicazione. Un soldato della Brigata se ne tornava solo soletto, comprimendosi una ferita al braccio senza fiatare.
Lo fermammo e gli chiedemmo dove fosse stato ferito – In combattimento con i “Kaiserjéger” – rispose tranquillo, come se la morte fosse un fatto di ordinaria amministrazione. – A un certo momento – aggiunse – avendo io puntato il fucile su un “Kaiserjéger”, questi mi accennò di non sparare, ché si sarebbe arreso; sennonché mi sparava subito a bruciapelo. Però so bene dove è, e non appena sarò tornato, mi vendicherò. – disse ciò con decisione calcolata e senza millanteria, come se avesse un conto privato da regolare. Capimmo allora il carattere di questa gente, che sa affrontare da sola i pericoli, cosciente di sé». (Fascino del Sud, cit. pp. 216-19). Anche se taceva, mio padre non esagerava. Difficile non aver letto Emilio Lussu. Un anno sull'Altipiano «Chi ha assistito agli avvenimenti di quel giorno, credo che li rivedrà in punto di morte ».
3. Per potersi concentrare nell’azione scenica di solito l’attore traccia uno spazio circolare immaginario intorno a sé e ad un oggetto sgombrando la mente dalle distrazioni.
4. Eugenio Borgna Diventare medico dei matti. Canale Tematico Youtube di Psychiatry on line Italia.
5. Si rimanda a Sergio Mellina. Un ricordo di Lorenzo Calvi (1930-2017). Lo psichiatra che imparava ad entrare dentro i sassi di Flaubert con l’aiuto di Cargnello. POLit Psychiatry on line.
Mellina Ernesto 15.09.1892-04.02.1973
0 commenti