L.F. Céline, Viaggio al termine della notte (1932), p. 436
Non porto più i pantaloni corti. Da un pezzo ho finito di andare a scuola.
Ho attraversato diverse scuole lacaniane di psicoanalisi. Ormai da anni la mia esperienza scolastica in psicoanalisi è finita. Non è finita la mia attività psicoanalitica, però. Continuo da psicoanalista free lance, che non ha fondato nessuna scuola né prolungato le scuole della prima ora. In teoria mi baso sui tre assiomi freudiani dell’esistenza dell’inconscio, inteso come sapere non saputo (un-bewusst), della rimozione originaria e dell’azione differita, dimenticando molto della metapsicologia pulsionale (praticamente con Lacan conservo qualcosa della pulsione di morte); in clinica opero sull’accoppiamento transfert/controtransfert. Ho qualche ragione per ritenere che in altre scuole non avrei fatto un’esperienza molto diversa, anche se forse non sarei giunto agli stessi esiti radicali. Lacan dissolse la sua scuola; io ho imparato da lui qualcosa di poco ufficiale, non scritto sui libri, ma inserito nel transfert che ebbi con lui, in parte sostenuto dal suo controtransfert verso di me. [1]
Qui cerco di rispondere alla domanda che molti profani giustamente si pongono: come mai esiste una pluralità di dottrine psicoanalitiche? Semplice, perché nessuna è scientifica. Fuori della scienza siamo nel pensiero arbitrario: ognuno può pensare ciò che vuole senza correre il rischio di venire confutato. Da Cartesio e Spinoza vige la libertà di pensiero, a rischio di delirare. Naturalmente gli scolastici hanno pronta la contro-risposta: è la clinica a essere disparata, non esistendo due individui uguali. Risposta di buon senso, della cui validità scientifica mi permetto di dubitare, con il permesso degli scolastici (loro non hanno mai dubbi). Da notare che la scolastica limita di proposito, perché più facilmente controllabile, la clinica al soggetto individuale – al cosiddetto caso clinico – e regolarmente trascura il collettivo, dove la variabilità in un certo senso si riassorbe al suo interno e diventa tanto costitutiva quanto i valori medi.
Per anni ho nutrito l’idea erronea che il movimento psicoanalitico abbia iniziato a frantumarsi in tanti indirizzi diversi, quando Freud lo forzò a uscire dal ghetto di Vienna. L’ebraismo – pensavo – proprio perché è una pratica religiosa essenzialmente ritualistica con rabbini che entrano addirittura in cucina, non subì i grandi scismi che lacerarono il cristianesimo, religione intellettualistica, più incline dell’ebraica all’elucubrazione teologica, quindi più esposta al rischio di eresie. Altrettanto sarebbe dovuto avvenire per la religione psicoanalitica, fortemente connotata in senso ebraico per la prevalenza della funzione paterna.
Invece no. Ut unum sint, “che siano una cosa sola”, l’auspicio giovanneo, irrealizzato nella cristianità, non si è avverato neppure in psicoanalisi. La frantumazione psicoanalitica iniziò – pensavo ma mi sbagliavo – quando nel movimento psicoanalitico entrò lo psichiatra di Zurigo, Carl Gustav Jung, portatore sano dell’antisemitismo protestante di Lutero. Oggi riconosco la superficialità della mia riflessione. Sulle fratture interstiziali e diffuse del mondo ebraico mi ha aperto gli occhi Gustav Meyrink, autore boemo di un capolavoro di letteratura dell’arcano, con il racconto Il Golem. Questo passo iniziale scruta nel ghetto di Praga.
“Mi riesce facile riconoscere le diverse stirpi ebree fra tutte le facce che ogni giorno affollano la Hahnpassgasse. Ma, quanto a indicazioni sulle parentele, è come voler mescolare l’acqua e l’olio. Non si può mai dire: ecco due fratelli, oppure padre e figlio. Uno appartiene a una tribù e uno all’altra. È tutto quel che si può capire dalle loro facce […]
Questi diversi tipi si odiano reciprocamente con un antagonismo in cui nemmeno la parentela riesce ad aprire un varco, ma sono capaci di nascondere quest’odio agli occhi del mondo esterno, come se si trattasse di nascondere un segreto mortale. È un segreto che non è permesso ad anima umana di penetrare; sono solidali nel mantenerlo come un gruppo di ciechi colmi di odio si aggrappano alla stessa corda unta; uno si attacca con le due mani, l’altro solo con un dito riluttante, ma tutti sono preda dello stesso timore superstizioso che sopravvenga un disastro se smettessero di aggrapparsi l’uno all’altro.” [2]
Le razze umane non esistono, quelle equine, canine e feline sì; le produce l’uomo con la selezione artificiale a scopi zootecnici. [3] Quello di razza umana non è un concetto scientifico. Proprio per questa ragione è molto diffuso; ha attecchito e proliferato nel senso comune, perché difende efficacemente prima che dall’invasione dello straniero nella nostra vita dall’intrusione della scienza nella nostra coscienza. L’idea di razza umana rappresenterebbe, insomma, un dispositivo ideologico efficiente non solo per avversare il barbaro, ma la scienza stessa, che è il vero spirito alieno per ogni cultura conservatrice. Se sei xenofobo e anti-migranti, è perché prima sei antiscientifico, non valendo ovviamente il viceversa.
Probabilmente il concetto di razza ha origini preistoriche, si pensa neolitiche, quando orde patrilineari, geneticamente omogenee, si scannarono tra loro mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza di Homo sapiens, la cui consistenza si dimezzò. Al tempo stesso si affermò la poliginia con più donne per ogni uomo. Il mito freudiano dell’orda primitiva avrebbe questa base paleobiologica. La minaccia di estinzione della specie umana sarebbe da ricondurre, allora come oggi, al narcisismo delle piccole differenze, un fenomeno tipicamente maschile: “Io ce l’ho più lungo di te”.[4]L’individualismo, poi, si collettivizza in forma o dittatoriale o populista. In entrambi i casi l’individuale si spalma sul collettivo. In psicoanalisi l’individualismo porta a conferire importanza esorbitante ai cosiddetti casi clinici, regolarmente esibiti a conferma della dottrina di scuola. [5]
È statisticamente acquisito che la variabilità genetica interna a una supposta razza umana è non minore, spesso maggiore, della variabilità media tra tutte le razze. In Islanda e nello Zimbabwe, paesi senza immigrazione, la variabilità genetica è maggiore della media planetaria. Il rapporto tra le varianze fra ed entro razze (la F di Fischer), non è significativamente diverso da 1. A suo modo riconobbe l’inconsistenza scientifica del concetto di razza un grande clinico e maggiore romanziere, Louis Ferdinand Céline, che si espresse in termini crudi.
“La razza, quella che chiami così, è solo questa grande accozzaglia di poveracci del mio stampo, cisposi, pulciosi, cagoni, che son cascati qui inseguiti da fame, peste, tumori e freddo, arrivati già vinti dai quattro angoli della terra. Potevano mica andare più in là perché c’era il mare. E questo è la Francia, questo sono i francesi”. [6]
“Accozzaglia”, peggio che “coacervo”, in francese grand ramassis. Si può applicare un termine così aspro all’insieme delle dottrine psicoanalitiche che affollano il campo freudiano? Con un pizzico di cattiveria direi di sì, non riconoscendomi integralmente in nessuna di esse, pur avendo imparato qualcosa da tutte. Freudismo, adlerismo, junghismo, kleinismo, winnicottismo, bionismo, reichismo, lacanismo, millerismo e matteblanchismo, con tutte le loro differenziazioni interne, non formano quello che in biologia si direbbe uno scenario di biodiversità; formano un’accozzaglia di ideologie, vagamente giustificate per lenire il dolore di vivere, ma ultimamente fondate sulla funzione autoriale e autoritaria non diversa da quella vigente in filosofia: platonismo, aristotelismo, hegelismo, bergsonismo, ecc. Ancora nel 1963 Edmund Glover si chiedeva: Freud o Jung? come i professori di filosofia si chiedono: Platone o Aristotele? Sì, la funzione autoriale è praticamente assente dalla scienza, che è opera collettiva, esclusi forse due giganti solitari: Darwin ed Einstein, per altro misconosciuti dai facitori di mode di pensiero filosofico. [7]
Quanto al giudizio di Céline, volgarmente noto come razzista antisemita, la sua giustificazione in ambito psicoanalitico merita un paio di considerazioni, data la singolarità del “razzismo psicoanalitico”. Innanzitutto le diverse dottrine psicoanalitiche sono monadi senza finestre. Non interagiscono tra loro per scambiarsi contenuti e modificarsi reciprocamente come avverrebbe in ambito biologico tra diverse razze. Ormai non si combattono più tra loro. Le dottrine sono formazioni epistemiche statiche e immodificabili. Non evolvono. Ne consegue che da quasi 40 anni, dalla morte di Lacan, all’orizzonte freudiano non sono sorte nuove dottrine psicoanalitiche. Tutto tace; la sterilità è assoluta; non c’è vitalità psicoanalitica in campo freudiano; nessuna novità spunta dalle litanie di vecchie giaculatorie, che in televisione o sul web dotti presbiteri impongono a catecumeni ignari e felici. Il movimento psicoanalitico non è più in movimento; tutto è codificato dai dogmi e dalle tecniche di scuola, il cui apprendimento viene etichettato come “formazione psicanalitica”. [8] Si aggiunga che in Italia il congelamento intellettuale della psicoanalisi fu consolidato dalla legge di Stato che ha assimilato la psicoanalisi a tecnica psicoterapica.
Come se ne esce?
Se ne esce non prestando orecchio alle sirene magistrali, neppure con l’urgenza della formazione professionale. Lasciamo che le sirene cantino le loro canzonette nelle loro scholae cantorum. Non è come dire, però. Il coraggio individuale non basta. Stare alla larga dalle scuole e dai loro guru non è sufficiente. Occorre promuovere lo spirito di ricerca scientifica in collettivi di pensiero psicoanalitico, autonomi rispetto agli insegnamenti magistrali correnti, tutti orientati alla psicoterapia. Occorre recuperare la libertà di ricerca scientifica, finora handicappata dai vincoli psicoterapeutici, da cui la psicoanalisi non si è mai del tutto sganciata sin da quando Freud iniziò a operare con l’ipnosi. Occorre soprattutto l’intelligenza di procedere con la giusta delicatezza nei confronti delle fragili formazioni dell’inconscio, che si squagliano, come dice Céline, per interventi rozzi come quelli dettati dal furor sanandi. L’iniziale imprinting medico, che non risponde a tutte queste esigenze, non fu mai cancellato dalla psicoanalisi. Diciamola tutta: dobbiamo scegliere tra valore di appartenenza alla scuola e valore di verità della teoria; è una scelta morale, che la coazione terapeutica inibisce. “Ti curo perché me lo impone la mia setta.”
In qualsiasi formato – fenomenologico o psicoanalitico – la terapia medica è la vera nemica della cura, intesa nel senso heideggeriano di prendersi cura dell’esserci (Sorge, una cura senza malattia), perché assoggetta la ricerca scientifica (nel caso singolo) e l’innovazione concettuale (nel caso collettivo) ai canoni medici del recupero dello stato premorboso nel cosiddetto caso clinico. In psicoanalisi il sintomo soggettivo non va trattato come esponente di una malattia perché è un compromesso di desiderio tra la vita e la morte, tra godimento e dolore. È chiaro: l’approccio medico non ne vuole sapere di desiderio, perché esautora il principio eziologico, che a ogni evento attribuisce una causa determinante oggettiva e non soggettiva.
Per il briciolo di paradossalità che contiene, questo discorso rischia di non essere compreso. È la paradossalità della teoria degli insiemi, ben nota fomentatrice di antinomie. Un insieme omogeneizza elementi eterogenei attraverso la proprietà caratteristica che hanno in comune. Così è per il movimento analitico. La terapia è il fattore che al tempo stesso differenzia e unifica le scuole di psicoanalisi, ognuna delle quali propaganda la propria ideologia di guarigione, non diversamente dall’omeopatia e dall’agopuntura; tutte pretendono guarire come servizio sociale. Prima che di sostanziali differenze scientifiche nella concezione e nella pratica della psicoanalisi, le difformità del paesaggio psicoanalitico si riportano a differenze di condotta terapeutica: divano o vis-à-vis? Tuttavia tali differenze si ricompongono nell’omogeneità della pretesa psicoterapeutica. In nome della terapia alcuni analisti arrivano pateticamente a formulare sintesi sincretiste tra le diverse dottrine, regolarmente iscritte nell’immaginario psicodinamico, con malcelate pretese letterarie. Tentano di salvare la psicoanalisi e il complesso delle sue narrazioni dalla frantumazione ideologica; in realtà la promuovono: al loro contatto l’inconscio freudiano si squaglia, come Céline vide bene.
Già questo dato di fatto differenzia la psicoanalisi dalla scienza, che soffre di tutt’altro genere di diversificazione collettiva. Non esistono analoghe difformità-somiglianze in fisica (a parte il contrasto tra fisica quantistica e relativistica) o in biologia (a parte il contrasto tra darwinismo e lamarckismo). In un certo senso, tuttavia, siamo di fronte a una difformità apparente, che alla fine si dissolve nell’uniforme volontà psicoterapeutica. Con le migliori intenzioni, tutte le scuole vogliono curare, tutte vogliono guarire le sofferenze umane, tipicamente alleviare il male di vivere. In realtà tutte vogliono vanificare la psicoanalisi. Si è verificato ciò che quasi un secolo fa, nel 1926-27, già Freud prevedeva e temeva e cioè che la professionalità terapeutica uccidesse (sic, erschlägen) la scienza psicoanalitica. [9]
Chi se ne rammarica? Non sento levarsi grida di dolore. Alla maggioranza oggi rumorosa interessa poco la scienza; se non progredisce tanto meglio, purché si conservi la rassicurante ortodossia di regime. Alle resistenze contro la psicoanalisi, ben note dai tempi di Freud, si sommano oggi le persistenti resistenze alla scienza, sempre fiorenti dai tempi del processo a Galilei fino ai nostri giorni antivax. Al benpensantismo si addice che non ci sia progresso scientifico ma solo tecnico.
A suo modo lo dice ancora Céline:
“Il delirio scientifico più razionale e più freddo degli altri è anche il meno tollerabile che ci sia”. [10]
Qui, tuttavia, Céline prese un bel granchio, forse perché era medico ma non psichiatra, benché abbia operato in un asilo psichiatrico. La pratica scientifica non è delirante; non ha la proprietà caratteristica del delirio: dire tutta la verità e nient’altro che la verità; non si basa su opinioni inconfutabili. A differenza delle deliranti, le verità scientifiche non sono né eterne né immodificabili, ma sono congetture provvisorie, sempre soggette a revisione, persino a confutazione. Einstein confutò Newton, Bolyai e Lobacevskij superarono generalizzandolo il modello ristretto di spazio euclideo. Nella scienza la funzione autoriale decade; sopravvive solo nei deliri e in filosofia. Con rarissime eccezioni, in campo scientifico non esistono scuole ma laboratori. Un’eccezione notevole fu in fisica la scuola di Copenhagen di Bohr, che protesse i primi passi incerti della meccanica quantistica.
Purtroppo l’errore di Céline, per altro molto diffuso, contiene una verità collettiva. Il popolo non ama la scienza, tollera a fatica gli scienziati. In particolare l’italiano è ostile alla scienza, essendo da quasi un secolo ancora soggetto all’indottrinamento di Croce e Gentile che, sulla scia di Hegel e Bergson, consideravano la scienza un’astrazione intellettualistica, lontana dalle profonde verità di ragione, incarnate nella storia. [11] Più terra terra si contesta alla scienza di essere meccanica, oggettiva e deterministica, fondamentalmente astorica, quindi incapace di cogliere i veri fattori emotivi che muovono l’umanità. Allora mi si fa notare: “Vero o falso come dimostrabili oggettivi non sono oggetto della psicoanalisi, che ricostruisce narrazioni sulla base della ‘verità’ psicologica vissuta dal paziente. Nel contesto psicoanalitico non ha a mio avviso molto senso parlare di vero/falso in termini di dimostrabilità oggettiva”, scrive Rolando Carini sul mio diario fb del 19 agosto 2018.
In questo contesto un grande narratore come Céline mi suggerisce la diagnosi necroscopica oggettiva davanti al corpo morto della psicoanalisi. La fine del movimento psicoanalitico e delle narrazioni di cui si è finora pasciuto – i cosiddetti casi clinici – segna la vittoria finale della medicina sulla psicoanalisi, una vera e propria endliche Lösung. (Che c’entri ancora una forma larvata di antisemitismo?) Parzialmente espulsa dalla cura psicoanalitica, la medicina ha fatto trionfale ritorno nel campo freudiano, esibendo come trofeo il cadavere della psicoanalisi. Il cadavere – si sa – è il fondamento della medicina post-ippocratica.
La fine era in un certo senso scontata perché, a sua volta, la medicina è un corpo intellettualmente morto. Oggi in medicina si fanno diagnosi e prognosi esattamente come ai tempi di Ippocrate, cercando gli agenti morbosi che causano le malattie. Parallelamente in psicoanalisi si cercano come cause tipiche i traumi sessuali, che producono le diverse forme morbose freudiane: le psiconevrosi narcisistiche e di transfert. La medicina è un corpo senza pensiero; nei millenni il pensiero medico non ha progredito. In esso funziona da sempre l’antico scire per causas, da Aristotele fondato sul principio di ragion sufficiente, per cui ogni effetto ha (almeno) una causa ben determinata e determinante, sempre la stessa. Parallelamente in psicoanalisi la causa è la forza costante delle pulsioni sessuali e di morte. Oggi gli anglosassoni lo chiamano storytelling. Grazie alla metapsicologia la psicoanalisi viaggia sullo stesso binario narrativo delle favole – i cosiddetti casi clinici, buoni per addormentare le coscienze critiche, confermando l’appartenenza di scuola.[12] Non a caso, in Italia a cominciare dal nostro Svevo, la psicoanalisi è stata saccheggiata dai romanzieri (ora non più). Viceversa, sono gli artisti, in particolare i romanzieri, a essere più avanti degli psicanalisti (che sono fermi alle dottrine acquisite).
Diversa la storia della scienza. Nel 1632 Galilei scriveva: “Ché quanto alla scienza stessa, ella non può se non avanzarsi”.[13] Da Galilei a Einstein c’è stato un significativo e progressivo avanzamento dal principio di relatività dei moti inerziali di Galilei agli accelerati di Einstein. La medicina, invece, non avanza; [14] sin dal suo nascere non ha mai superato il principio di ragion sufficiente. Si badi bene: non è avanzamento scientifico la sempre più complessa e pesante bardatura bio-ingegneristica dei moderni macchinari diagnostici e terapeutici, che installati nei moderni ospedali. La medicina è tecnica, forse arte, ma non è scienza nel senso galileiano delle sensate esperienze e necessarie dimostrazioni. Ippocrate ammoniva che l’esperimento è pericoloso; la sua dottrina salvifica. Conservatorismo.
Ecco, allora, la triste considerazione: esattamente come quello medico, il pensiero psicoanalitico, appena emerso, ha cessato di progredire come pensiero scientifico, quasi che la “giovane scienza” psicoanalitica fosse un delirio insopportabile per il suo stesso creatore, giusta l’osservazione di Céline. Nel 1895 Freud cestinò il suo Progetto di una psicologia scientifica, rimasto inedito per più di mezzo secolo, fino al 1950; era un inizio promettente, basato su un modello galileiano – i neuroni phi, psi e omega tra loro interagenti lungo vie di facilitazione. Tuttavia, appena messo piede in territorio scientifico, Freud fece marcia indietro – zurücktretend– e tornò a pensare in termini medici, cioè eziologici. L’inibizione scientifica, die Hemmung, fu il sintomo freudiano.
In proposito va precisato che le cosiddette conquiste scientifiche della medicina non sono merito della medicina. Infatti, o sono conquiste fisiche, chimiche, biologiche, applicate in senso tecnico alla medicina, o sono miglioramenti tecnici interni alle diverse specializzazioni mediche. [15] L’unica differenza con la medicina è che la psicoanalisi non accoglie avanzamenti prodotti in altri campi scientifici, per esempio nelle neuroscienze, mentre la medicina li esibisce e li sfrutta come propri progressi.
Conosco l’ostilità contro questo discorso. C’è una roccia imperforabile: non è la “roccia fresca” (der gewachsener Fels) del complesso di castrazione, evocata da Freud in Analisi finita e infinita; è l’equazione scienza = tecnica, con la variante medicina = scienza, data dalla tecnica come tertium comparationis. In psicoanalisi mal si sopporta di sentir parlare di scienza; si ammette solo il discorso di tecnica terapeutica, consolidata e garantita dall’autorità scolastica. Per dormire sonni tranquilli niente di meglio del vecchio ipse dixit. Il favore è presto reso. La tecnica è utile al potere, che la preferisce sottomessa ai propri fini. Lo stesso pretende dalle scienze e dalla psicoanalisi.
Qui il discorso esorbita dall’ambito psicoanalitico. A chi riduce la scienza a tecnica, per esempio i nostri attuali politici e i filosofi, ostili alla tecno-scienza, ricordo che esiste una gigantesca discrepanza cronologica tra scienza e tecnica. La scienza galileiana, che supponeva – ripeto: supponeva – l’eliocentrismo in base alle fasi osservate in Venere, ha solo qualche secolo di vita, mentre la tecnica è un’acquisizione che precede addirittura Homo sapiens. Certamente Homo ergaster conosceva – non supponeva – il potere terapeutico di certe erbe, nel cui veleno intingeva le sue lance. E tramandava immodificato tale sapere di generazione in generazione. La scienza di Galilei è un’inequivocabile innovazione rispetto alla tecnica; è un’insopportabile innovazione che alla certezza sostituisce l’incertezza. La registrazione delle onde gravitazionali non si inserisce nella tradizione tecnologica, che esordì con la scheggiatura acheuleana delle pietre, nel Paleolitico inferiore (pre-sapiens). Vanno pensate – Einstein le pensò – prima che registrate con complessi apparati interferometrici, dotati di bracci di 4 km di lunghezza (e si stanno già progettando quelli di 40 kilometri). Perché regredire dalla scienza alla tecnica? Chi o che cosa sostiene questa formidabile volontà di ignoranza? I responsabili Sono sempre loro: i maestri di scuola e i funzionari di partito; sono loro i conservatori della volontà di ignoranza (che non è semplice ignoranza).
Non meno rilevante è la differenza epistemologica tra scienza e tecnica: la scienza si basa su congetture falsificabili, la tecnica su acquisizioni che o sono definitive o sono superate da altre acquisizioni a loro volta definitive, destinate ad altri scopi. Lo scopo, a sua volta, differenzia la scienza dalla tecnica. L’uomo di scienza si muove nel sapere senza scopi e per pura curiosità; il tecnico invece ha scopi e richieste ben precise da affrontare e soddisfare su richiesta del potere. L’aristotelica causa finale [16] non funziona nella scienza ma governa la tecnica (e la filosofia).
Sembra che il destino di soddisfare l’esigenza di terapia, in nome del nobile principio di lenire la sofferenza di vivere, domini l’attuale psicoanalisi, ridotta a tecnica psicoterapeutica, ultimo avatar dell’ipnosi freudiana. È un altro modo per dire che la psicoanalisi ha finito di giocare. È morta bambina, con i pantaloncini corti. Gli statistici mi dicono che la mortalità infantile è uno degli indici più importanti per valutare il livello di civiltà di una nazione.
0 commenti