Quando diciamo di una persona scomparsa: “dentro di me sento ancora la sua voce”; oppure “voglio dar voce” a qualcuno che non c’è più (o che non sa, o non può, esprimersi), intendiamo, con la parola “voce”, l’espressione più importante di un essere vivente, capace di pensare, di avvertire sensazioni e di comunicare. Dando “voce” a qualcuno è come se gli restituissimo, o ricreassimo, la sua “anima”. Tra le voci che udimmo nella nostra vita, particolarmente importante è quella materna: fu la mamma che “diede voce” alle oscure sensazioni e agli indecifrabili processi mentali (di per sé inesprimibili e impensabili) che dominavano all’inizio della vita. Ponendosi nei nostri panni come nessun altro seppe fare, la genitrice parlò in vece nostra e, ciò facendo, creò la nostra “voce”, ci diede la possibilità di vivere pienamente. Solo interiorizzando tale inestimabile apporto materno imparammo a parlare, ad esprimere e a definire quel che siamo nel rapporto col mondo. Una traccia della voce materna rimane pertanto nel nostro modo di parlare; per definirla, il poeta americano Robert Frost coniò il mirabile neologismo “oversound”, che potremmo tradurre con “suono sovrapposto” a quello della nostra voce. Lo psichiatra-analista Thomas Ogden studiò gli “oversounds”, come vengono creati e resi nella poesia, allo scopo di coglierli nei colloqui clinici e, così facendo, arrivare alle tracce dell’antico rapporto con chi ci mise al mondo, e ripristinare (o, se necessario, creare ex-novo) quell’apporto materno che ci permise di trasformarci, da organismi biologici dotati di esistenza primitiva, in esseri umani.
Ogden utilizzò come fonte di suggerimenti la poesia di Frost “Never again would birds’ song be the same” (Mai più sarebbe lo stesso il canto degli uccelli:
He would declare and could himself believe That the birds there in all the garden round From having heard the daylong voice of Eve Had added to their own an oversound, Her tone of meaning but without the words. Admittedly an eloquence so soft Could only have had an influence on birds When call or laughter carried it aloft. Be that as may be, she was in their song. Moreover her voice upon their voices crossed Had now persisted in the woods so long That probably it never would be lost. Never again would bird’s song be the same. And to do that to birds was why she came.
(Non disponendo di altra traduzione, l’eventuale lettore dovrà accontentarsi di quella del sottoscritto: “Egli dichiarerebbe, e potrebbe lui stesso credervi / che gli uccelli, nel giardino dell’Eden, / avendo sentito tutto il giorno la voce di Eva / avevano aggiunto alla loro voce un “oversound”. / Il tono della voce di lei, spogliato delle parole / un’eloquenza tanto delicata / non può che aver influenzato gli uccelli / quando richiami e risate lo trasportarono in alto. / Sia quel che sia, lei fu nei loro suoni. / Inoltre, la voce di lei, innestata sulle loro voci / è rimasta così a lungo nei boschi / che probabilmente non sarà mai persa. / Mai più sarebbe lo stesso il canto degli uccelli / e per far questo agli uccelli che ella venne al mondo”)
Riporto qui sotto, quasi integralmente, quanto dice Ogden nel paragrafo del suo scritto dedicato a questa poesia.
“Questa poesia fu pubblicata quando Frost era settantenne. Essa crea una “voce” che racchiude un’ampia gamma di esperienze umane. La poesia inizia con la voce del Narratore che parla, con bonaria ironia e scetticismo, di un vecchio amico. Quest’ultimo crede in cose improbabili e bizzarre. Procedendo, la poesia invita implicitamente il lettore a prendere il posto precedentemente occupato dal Narratore, ossia colui che ascolta questa strana storia, mentre lui parla per voce di chi la racconta. C’è dell’umorismo nella voce del Narratore quando egli stabilisce rapporti di causa-effetto per “spiegare” ciò che accade in quella che, in realtà, è una metafora: gli uccelli nel giardino dell’Eden, avendo ascoltato per tutto il giorno la voce di Eva, hanno incorporato il suono di lei in quello del loro canto. La strana convinzione dell’esistenza di un “oversound” (un magnifico neologismo traducibile come “suono sovrapposto”) della voce di Eva (della Madre arcaica), diviene un’esperienza vissuta nella lettura della poesia, ossia nei cambiamenti dei suoni delle sue parole.
Dal sesto verso in poi, ascoltiamo il delicato e poetico “oversound” nel suo interagire con più prosaici “sounds”: Admittedly an eloquence so soft Could only have had an influence on birds When call or laughter carried it aloft.
(Certamente un’eloquenza così delicata / non può che aver influenzato gli uccelli / quando richiami o risate la trasportarono in alto)
L’espressione “an eloquence so soft” (un’eloquenza tanto delicata) con le sue ripetute e delicate sibilanti (esse), ci parla con tale levità e grazia che pare quasi fluttuare sopra la durezza delle consonanti “kappa” nelle parole “could”, “call”, “”carried”, situate spazialmente più in basso. Ciò crea la rappresentazione di suoni più delicati sospesi sopra altri più duri, di “call or laughter” (richiami e risate) che vengono portati “aloft” (in alto). Il verso “Could only have had an influence on birds” (può solo aver influenzato gli uccelli) ci riporta alla realtà prosaica dei volatili: l’accostamento delle due parole prive d’accento “have had” dà luogo ad una goffa cadenza facendo, per così dire, “inciampare” la voce che va a cadere sull’accento della parola finale “birds”. L’effetto di questo “tonfo” è di trasformare questi uccelli mitici ed eterei in “pollame”. Nello stesso tempo, il gioco di parole “birds/bards” (uccelli/poeti) suggerisce che l’eloquenza della parola (sia quella antica, sia quella ritrovata nel linguaggio presente) ha potuto influenzare soprattutto i poeti, persone capaci di ascoltare ciò che viene detto con un “orecchio interno” e cogliervi un “oversound” che essi riproducono nei loro versi.
Negli ultimi sei versi assistiamo ad una svolta inattesa nella poesia. Il verso “Be that as may be, she was in their song” (sia come sia, lei c’è nel loro suono) è un’affermazione certa, che contrasta con il carattere dubitativo dei primi versi, in cui i verbi sono al condizionale (“would declare”, “could himself believe”). Inoltre, nei versi successivi, viene introdotto un elemento di pena e turbamento che è assente all’inizio della poesia:
Moreover her voice upon their voices crossed Had now persisted in the woods so long That probably it never would be lost. Never again would bird’s song be the same.
(Inoltre, la voce di lei, innestata sulle loro voci / è rimasta tanto a lungo nei boschi / che probabilmente non sarà mai persa. / Mai più sarebbe lo stesso il canto degli uccelli)
C’è qui, la ferma convinzione che l’influenza di Eva (la presenza della madre arcaica) sulla voce degli “uccelli” (i poeti) fu reale, ma la sua persistenza non è del tutto certa (“probably” it never would be lost”). Si tratta della convinzione che la poesia sia capace di parlare con un’eloquenza che raggiunge in profondità l’animo umano [lo “oversound”, l’eco dell’antica voce materna]. Il verso “That probably it never would be lost” introduce, oltre che un elemento di dubbio, anche uno di tristezza: qui il poeta concede “l’ultima parola” al termine “lost” (perduto): ciò sembra smentire la permanenza della voce materna (lo “oversound”) nell’atto stesso in cui l’afferma. Nel verso “Never again would bird’s song be the same”, la voce del poeta assume caratteristiche nettamente distinte dal tono ironico dei primi versi e dal carattere perentorio dell’affermazione “she was in their song”. Qui il poeta ci parla con la voce commossa di chi sta commemorando qualcuno. Queste delicate parole, che non contengono alcuna consonante dura, trasmettono la sensazione di un qualcosa di sacro, fatto di amore e di tristezza. Il poeta crea, nei suoni delle sue parole, qualcosa che preservi dall’usura del tempo le voci che per lui furono le più importanti: quelle delle persone che ha amato; la sua stessa voce, con i cambiamenti che ha assunto nel corso della sua vita; il suono di voci ancestrali, non attribuibili a persone note, ma che sono parte del linguaggio con cui egli parla e a partire dal quale egli crea la propria voce e quella dei suoi versi. Il verso, che è anche il titolo della poesia, “Never again would bird’s song be the same” è ambiguo e suscita un certo turbamento. Quel “never again” (mai più) sembra sottolineare che le voci del passato non torneranno più, non sarà più possibile udirle direttamente: le persone cui appartennero non ci sono più. Ciò che ci rimane di loro è la “overvoice” sovrapposta alla nostra voce e a quella del poeta. Essa ci evoca la voce perduta, ma non è, né sarà mai, la stessa voce.
Sembrerebbe che il verso suddetto concluda la poesia, tuttavia ne troviamo ancora uno che ci sorprende: “And to do that to birds was why she came” (e fu per fare questo agli uccelli che ella [Eva] venne al mondo). Questo pare un post-scritto, qualcosa che richiede d’esser letto velocemente e a voce più alta di quanto lo precede. Qui la prevalenza nelle parole di consonanti dure (“t”, e “c” come kappa) sembra produrre come una sorta di chiasso dopo il tono sommesso ed elegiaco dei versi immediatamente precedenti: sembra quasi una risposta a quanto detto prima. La voce del poeta ritorna ai suoni del linguaggio prosaico di ogni giorno. Le parole “why she came” fanno pensare ad un compito specifico, ad un “lavoro” che Eva venne a compiere, come un idraulico viene per disintasare un tubo [Aggiungo: sembra, qui, che il poeta senta il bisogno di tornare (ed invitare il lettore a tornare) agli aspetti prosaici della vita di tutti i giorni, per evitare d’essere eccessivamente assorbito dalla nostalgia].
La lettura di questa poesia riesce a produrre di per sé un’esperienza, non è soltanto la descrizione di un’esperienza. Possiamo avvertire, udendo la voce del poeta con le sensazioni che essa ci suscita, il piacere che egli trasse dall’uso del linguaggio. C’è un continuo passaggio dall’umorismo alla tristezza. C’è il piacere tratto dal creare e dall’udire gli “oversounds” e, nello stesso tempo la tristezza del riconoscere che la voce delle persone amate persisterà soltanto negli oversounds.”
Ogden ravvisa, negli “oversounds” che si possono cogliere nelle parole del paziente, la voce di un’entità intersoggettiva in cui confluiscono, fondendosi, la vita interiore del malato e quella del suo terapeuta. In una relazione di cura intima e approfondita, vengono a riprodursi gli aspetti paradossali dell’antico rapporto con chi ci diede la vita: si è come “una cosa sola” e, al tempo stesso, si rimane due distinte persone. Ciò è alla base dell’empatia: si è nei panni della persona da capire (si è “dentro” di lei, fusi con lei) e, al tempo stesso, si rimane una persona distinta, in grado di riflettere autonomamente su quanto, fondendosi, si è percepito. Gli “oversounds” del paziente sono quanto rimane della sua voce materna, quella che fu la matrice della sua stessa voce e, con essa, della sua vita soggettiva. Come terapeuti, noi ci appropriamo di questa antica voce: cerchiamo di riprodurla (o, se necessario, di crearla ex-novo) partendo da quanto ne rimane. Recentemente, ho pubblicato un post su Facebook riguardo al rapporto da cui un modo d’esprimersi appropriato trae la sua origine. Lo riporto qui sotto:
“Molte persone, quando vogliono tradurre in parole il proprio pensiero, finiscono per esprimersi in modo confuso e incomprensibile; un vero peccato, perché, quando si riesce a capire quel che effettivamente intendono dire, spesso si scopre che si tratta di idee interessanti, o divertenti, o originali. Altri usano volutamente un linguaggio oscuro, fatto di parole altisonanti ed estranee al linguaggio comune, allo scopo deliberato di confondere l’interlocutore, ridurlo al silenzio, ed imporre il proprio pensiero (il Manzoni ce ne offre un mirabile esempio quando Don Abbondio, con il suo “latinorum”, cerca di zittire le proteste di Renzo). Ogden, a proposito del modo di esprimersi, cita il poeta americano Wallace Stevens secondo cui esiste una differenza fondamentale tra pensiero e parola pronunciata o scritta: mentre ciascuno di noi pensa col proprio linguaggio (comprensibile solo a lui stesso), viceversa parla con un linguaggio almeno un poco estraneo; un linguaggio che non ha “inventato” lui. Quando riusciamo ad esprimerci in modo corretto, utilizziamo (se l’abbiamo vissuta) l’esperienza di un rapporto empatico con un ascoltatore dei nostri discorsi; ossia un rapporto in cui ci si mette nei panni l’uno dell’altro. L’ascoltatore si mette nei nostri panni, cerca di afferrare quel che intendiamo dire, e (magari procedendo per tentativi) ci suggerisce le parole più appropriate e comprensibili; noi, a nostra volta, ci mettiamo nei panni di chi ascolta e non conosce ancora quel che intendiamo comunicargli. Ciò presuppone che l’ascoltatore sia interessato a noi, alla nostra opinione, e tragga piacere dal nostro saper pensare e parlare; presuppone, inoltre, che noi ci fidiamo di lui. Si tratta, quindi, di un’esperienza che coinvolge gli affetti, e non soltanto la sfera cognitiva. Se le cose vanno bene, ognuno di noi custodisce “dentro di sé” tale rapporto, e sa riprodurlo con l’interlocutore adatto. Sa, inoltre, utilizzarlo, come termine di paragone, allo scopo di smascherare chi vuole soltanto confonderci e sopraffarci, e non comunicare. Chi, viceversa, non si è giovato di quel rapporto, vive nella solitudine, e i suoi pensieri moriranno con lui; è anche probabile che sia facile preda di chi, con la parola, vuole soltanto ingannarlo e sottometterlo, e non comprendere e valorizzare il suo pensiero.”
È chiaro che il rapporto empatico di cui parlo nel post riproduce l’antico rapporto con chi ci mise al mondo. Dalla voce materna, che permane come “oversound”, nacque la nostra stessa voce e, con essa, la possibilità di comunicare, di entrare in relazione col mondo esterno e di auto-definirci in rapporto agli altri.
Il concetto di “oversound” materno contribuisce a chiarire l’origine di quella patologia in cui l’armonia, il vigore e la coesione della vita interiore vengono compromesse. Cito, come esempio, la depressione senile. Abbiamo visto come il verso di Frost “and probably it never would be lost” introduce un elemento d’incertezza: che l’oversound materno non venga mai perduto è solo probabile, non sicuro. Purtroppo, nella depressione senile, quella che il poeta ci descrive come “probabilità” della perdita sembra diventare certezza. Mi permetto di riportare, qui sotto, alcuni miei versi con i quali ho cercato di tradurre in forma poetica quanto un anziano paziente depresso mi ha recentemente comunicato. Per inciso, prego il lettore di non considerare l’eventuale valore artistico di quel che ho scritto (ammesso che esista), ma di prenderlo come forma di comunicazione:
Quel che credevo futuro è già arrivato,
Quell’epoca in cui tutto si dissolve:
Amore, sogni, amicizie, convinzioni.
Sentirò ancora per molto la sua voce?
Quella voce che è sempre più lontana,
E non sa più parlarmi del presente.
La voce materna (e lo oversound che essa ha impresso sulla nostra voce) proviene da un oggetto interno (una persona dentro la persona) derivante dall’identificazione con la madre arcaica. Esso riproduce le stesse caratteristiche della madre arcaica, ma è una parte di noi stessi; e quando andiamo incontro al declino senile, quest’oggetto segue la nostra sorte: la voce materna tende a divenire sempre più flebile, sempre più sganciata da una realtà presente che l’anziano non sa più capire. Qui il compito del terapeuta è cogliere, negli oversounds del paziente, l’antica voce materna, appropriarsene e paradossalmente, facendola parlare del suo stesso declino, ridarle vita.
Un altro esempio: le allucinazioni uditive dello schizofrenico. Un paziente che ho seguito per diversi anni presentò, come sintomatologia residua, allucinazioni uditive (con il miglioramento delle sue condizioni, esse si trasformarono in pseudo-allucinazioni delle quali egli riconosceva l’origine nella sua mente). Erano “voci” disturbanti, spesso ostili, che si accentuavano nei momenti di difficoltà. Nella fase acuta iniziale della sua malattia, il paziente riproduceva ad alta voce quel che le allucinazioni gli dicevano: erano parole di denigrazione, offensive, pronunciate da una voce femminile. Ricordava in modo impressionante l’ultima scena di “Psycho” di Alfred Hitchcock. Qui il protagonista parla a se stesso, con voce di donna, dei crimini che ha commesso. La sua mente è come sequestrata, completamente occupata da una madre che si è impossessata di lui e della sua vita. Per fortuna il mio paziente è molto meno grave: la sua mente è stata solo in parte occupata da una madre non empatica ed ostile, mentre una buona parte di lui era rimasta indenne ed, anzi, favorita nel suo sviluppo dalla stessa genitrice.
Concludo con una precisazione doverosa: io conobbi la madre di quel paziente. Era una donna sensibile, affettuosa verso il figlio, pronta ad accusarsi anche di colpe che non aveva commesso. Come spiegare quest’apparente contraddizione? Sicuramente questi casi smentiscono l’opinione di chi ritiene che la psicosi debba ascriversi a “colpe” della madre. Essi, in realtà, dimostrano:
1) che non sono in gioco soltanto le défaillances materne, ma anche il fattore costituzionale del paziente. Se questo è particolarmente fragile, anche défaillances materne relativamente di poco conto (inevitabili in qualsiasi essere umano) possono portare a gravi conseguenze.
2) che, nella maggior parte dei casi, è sbagliato parlare di “colpe” della madre, trattandosi per lo più di limiti, spesso inevitabili
3) che non è trascurabile anche il ruolo del padre. Il “sequestro” della mente del paziente è conseguenza di reciproche “invasioni di campo” avvenute in epoca precoce tra madre e figlio. Ruolo del padre è quello di stabilire, con la sua stessa presenza, (rapportandosi in modo nettamente differente con moglie e figlio), territori separati occupati dalla consorte e dal bambino e confini precisi tra l’una e l’altro, scongiurando il pericolo di “occupazioni abusive”. Ruolo paterno che, in assenza del genitore, può essere svolto dal “padre nella madre” ossia dall’oggetto interno della genitrice nel quale rivive il padre di lei.
Quando tutti questi fattori si sommano, si ha la “tempesta perfetta” da cui traggono origine i casi più gravi. Di molti di questi fatti, possiamo trovare traccia negli oversounds della voce del paziente; in essi possiamo trovare gli echi di esperienze terribili che occorre controbilanciare con nuove esperienze correttive, ma anche di rapporti benefici, che occorre recuperare.
Bibliografia 1) Frost Robert Collected Poems, Prose and Plays (Library of America – 1995)
2) Ogden Thomas H. (1987) The transitional oedipal relationship in female development 3) Ogden Thomas H. (1994) The analytical third: working with intersubjective clinical facts (Int. J. Psycho-anal. Vol. 75, N° 1, pag. 3)
4) Ogden Thomas H. (1998) A question of voice in poetry and psychoanalysis
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