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Un altro volto? Sull’oscurità confusiva della “doppia diagnosi”

12 Set 18

Di Sergio-Mellina
Ascoltando e leggendo Eugenio Borgna e Gilberto Di Petta si può gettar luce sull’oscurità confusiva della “doppia diagnosi”?
 
I have heard of your paintings well enough;
God hath given you one face,
and you make yourselves another
William Shakespeare. Amleto, Atto III scena I
 
 
Riassunto. Conosco da molti anni Eugenio Borgna e Gilberto Di Petta, dei quali mi conforta la loro amicizia, ampiamente ricambiata. Naturalmente il primo, essendomi all’incirca coetaneo, lo conosco da più tempo, il secondo, invece – presentatomi da Bruno Callieri – potrebbe essere mio figlio, se non ne avessi già cinque (nati più o meno negli anni di Gilberto) di cui uno neurologo d’urgenza della stroke unit al Policlinico Umberto I. L’amicizia, la stima reciproca e soprattutto l’ammirazione per loro – persone e studiosi diversissimi – non deriva soltanto dall’avere abbracciato convintamene una posiziona comune nel modo di accostarsi al mondo della sofferenza mentale, quello della psicopatologia fenomenologica, di avere percorso tragitti di formazione e frequentato maestri di quel movimento filosofico, quanto piuttosto dal fatto che, con ogni probabilità, abbiamo ricevuto una analoga educazione borghese dove alla fine dovrebbe prevalere il senso dell’impegno e del dovere verso gli altri. Affinché la parola “borghese” non abbia risonanze spregiative, reazionarie, benpensanti o di conservazione, metterò subito in chiaro che intendo per educazione e costume borghese, semplicemente riferirmi al fatto precipuo che una volta assunto un compito – sempre che sia chiaro e legittimo – esso va portato a termine. Per chi a te si affida e per chi te lo ha affidato. L’abbandono anzitempo è tradimento e slealtà. Quello che m’interessa tentare di mettere soltanto a raffronto, in questo breve appunto, è cercare di capire se il linguaggio della psicopatologia fenomenologica possa essere ugualmente valido per descrivere il mondo doloroso dei “matti” di Eugenio Borgna e quello altrettanto doloroso, disperato e senza regole dei “drogati” dove, a quanto ne so, inizialmente ha scelto di cimentarsi Gilberto Di Petta, forse per provare quanto la “psichiatria imparata da Bruno Callieri” fosse applicabile i qualunque sentiero o “stazzo” dell’umano. E ancora: una doppia diagnosi legittima due follie?
 
 
(1). Ai primi di dicembre, del 2011, la SPIGA [1], invitò su, mia proposta,  Gilberto Di Petta a tenere una conferenza sul tema della “doppia diagnosi” [2]. Ciò che allora maggiormente incuriosiva, ma non credo che neppure oggi il tema abbia trovato una soluzione, né perso di attualità, era se il disturbo endogeno del mondo della psicosi e quello esogeno, avessero una qualche relazione; se fossero sia pur lontanamente raffrontabili, oppure totalmente indipendenti l’uno dall’altro. La domanda (insieme alla possibile risposta), mi era rimasta in gola fin dalla mia libera docenza (1968), quando uno dei commissari, il Prof. Osvaldo Maleci [3] mi fece rilevare che uno dei miei lavori [4], peraltro in collaborazione, non solo non citava i suoi contributi fondamentali sull’argomento, ma aveva l’ardire e la pretesa di ipotizzare che l’assunzione di “Methedrine” potesse far virare una intossicazione esogena in una manifestazione endogena della psicopatologia. Lascio immaginare con quanto interesse (antico) mi disponessi ad ascoltare la relazione di Gilberto Di Petta, il quale prese subito di petto l’argomento, di cui allora si faceva un gran parlare, con una documentazione iconografica straordinaria, una cultura vastissima ed una raffinatezza ineguagliabili sotto il profilo daseinsanalitico.   
 
Nondimeno, quando è andato al sodo, ci ha indicato il ring, ha sfoderato i guantoni del boxeur e ha picchiato duro. Non era affatto una esibizione da solista, tutt’altro. Era chiaro, e lo ha detto subito, che senza “squadra”, senza “formazione adeguata”, e senza “rete psicoterapeutica gruppale” non si sarebbe cavato un ragno dal buco. Peraltro gli uditori non erano degli sprovveduti. Si trattava di psicologi e psichiatri, con pratica dei servizi e di pazienti anche gravi, specializzandi di un scuola di perfezionamento in psicoterapia gruppo-analitica.
 
La “sostanza” è tutto per il “tossico”. Ha detto con estrema chiarezza Di Petta, affinché ci sintonizzassimo subito sulla giusta lunghezza d’onda, e sull’agra Lebenswelt di coloro che operano le transazioni mondane esclusivamente per il tramite di una “sostanza di abuso”: abusando di essa ed essendone a loro volta abusati. Lasciandone per il momento impregiudicata la natura, la “sostanza” è l’essenza (la Wesen) del mondo del tossicodipendente. La “sostanza” è l’hypokeimenon, la substantia, ciò che sta sotto, celato, dentro la cosa sensibile: l’unica “maniglia”, per cui prende e si lascia prendere l’essere-che-è-nella-dipendenza. Una sorta di grottesca protesi, senz’anima né pathos. La specificazione del sostantivo, sarà ancor più necrofilica e ipostatica dell’enunciazione generica. “Sostanza” è quel sinistro attrattore impastato di materia-forma-pensiero.
 
Sostanza/dipendenza/abuso. In questa trilogia disperata e disperante, apparentemente inattaccabile come una monade, inizia e si esaurisce l’esistenza del tossicodipendente, si concentra l’intenzionalità del suo Dasein. Si sarebbe potuto ritenere, se il paragone non fosse irriverente, che codesta “sostanza” è attesa, cercata, bramata da questa umanità dolente, come i presocratici perseguivano l’arché, il principio di tutte le cose. Nondimeno, Terenzio ammonisce: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, ed essendo umani, oltre che terapeuti delle umane abnormità, ciò maggiormente ci riguarda.
 
Mentre lo ascoltavo, mi sono immediatamente balzati alla mente i versi di Shakespeare, citati in epigrafe. Amleto, sconvolto, investe Ofelia: Ho sentito parlare dei vostri belletti, anche troppo. Dio vi dà un volto, voi ve ne fate un altro. I “belletti” come la “sostanza”: un’incerta catafratta, un mascheramento fuggevole per affrontare la vita. Nella tragedia shakespeariana, la stigmatizzazione della moda femminile di dipingersi la faccia, è segno di frivolezza, al contrario della nostra presente realtà di diffusione delle “droghe da sballo”, per esempio. Essa non ha nulla a che vedere con le “mode” correnti, ma risponde invece ad una minuziosa e ben calcolata programmazione della malavita organizzata su base internazionale, di realizzare proventi illegali favolosi, imponendo un uso, un consumo, una dipendenza da “sostanze”, ad una popolazione sempre più giovane di consumatori, da insidiare ormai la preadolescenza. Codesta industria del crimine, interviene selettivamente su una coordinata strategica della vita dell’uomo: l’asse temporale. Seguendo l’heideggeriana traccia di Sein und Zeit, l’eidos della malvagità, ha scoperto che la vulnerabilità adolescenziale dell’essere umano, è lo snodo strategico da colpire, per mandare a effetto quel misfatto diabolico che è la dipendenza, con buona probabilità di riuscirci.
 
Qualche “Mackie Messer” ghermisce quella Shadow Line, per dirla alla Conrad [5], e lì affonda il coltello, che si guarda bene dal mostrare. Proprio laddove risulta lucroso – come ha spiegato benissimo Gilberto Di Petta – sopprimere le tappe graduali di maturazione evolutiva dell’essere, dov’è essenziale bruciare (intenzionalmente, proditoriamente, artatamente) tutti i tradizionali e collettivi “riti di passaggio”, previsti in qualsiasi cultura, per sostituirli (sostituire l’’être) con “le néant” di un effimero nepente. La solitudine (anestesica) e il vuoto (lotofagico) di quegli agglomerati umani, chiamati raves party, destinati spesso a flocculare tragicamente nell’obitus.  
 
L’analisi del nuovo fenomeno della dipendenza, è radicalmente nuovo, difficile, tragico, sconvolgente, perfino “lordante”, oserei dire. Parimenti nuovi e complessi, sono i modi di avvicinare i soggetti particolari di questa moderna alienazione, il senso del loro mondo, il loro “nulla”, i tragitti della loro fuga dalla società (espunzione, rifiuto o che altro?); difficilissime le (nuove) strategie terapeutiche, soprattutto.
 
Dopo averlo sentito (il fenomeno della dipendenza e Gilberto che lo illustrava), ho ripensato alla recensione di un testo di Borgna [6] che avevo preparato per la Rivista “Comprendre” perché mi aveva molto colpito per la sua particolare profondità introspettiva. L’ho ripresa, ci ho riflettuto sopra, ed ho ampliato il discorso, perché la conferenza sulle nuove patologie psichiche della tossicodipendenza, mi ha aperto un nuovo orizzonte su quello che è stato (da sempre) il fronte un po’ meno praticato della psicopatologia fenomenologica: la “terapia”. In particolare, la sfida della “doppia diagnosi” che presentano i tossicodipendenti, impone la necessità di predisporre strumenti adeguati, per affrontare situazioni concrete, che la clinica di oggigiorno svela ex novo.
 
 
(2). Gilberto Di Petta, le sue parole, il suo dire empatico, risoluto, d’un tratto, mi hanno dischiuso l’orizzonte di senso, invero angusto e scolorato, del tossicodipendente, e nel contempo mi è parsa allargarsi la prospettiva teleologica della sua Lebenswelt. Improvvisamente, ripensando agli scritti di Borgna, mi è balenata una scintilla di speranza terapeutica. Se egli è solo, e per di più con il Dasein in pezzi, mi son detto, perché non ri-meditare le nuove follie del presente, attraverso le pagine della sterminata letteratura di Eugenio Borgna? Bastava semplicemente andare nella mia biblioteca personale, dove ne tengo riposti un buon numero, avere in mente il tema, scegliere il testo giusto e leggere il passo che t’interessa scorrendolo semplicemente con gli occhi o sussurrandolo con la voce a tuo gradimento.  
 
Che io sappia, è la prima volta che lo studioso di Borgomanero approfondisce, in un testo dedicato, lo studio dell’anima, che è anche studio della coscienza, dell’intenzionalità dell’essere. Gli si potrebbe (forse) muovere qualche appunto di veleggiare su rotte misticheggianti, verso orizzonti lirici; lui stesso ne è perfettamente consapevole e anche esitante (talvolta), quasi a scusarsi del suo candore. Nondimeno, di questi tempi, brutalmente secolarizzati nel disprezzo dell’altro, e immiseriti nel cupo mondo dell’avere, è (forse) giustificato concedergli l’uso di linguaggi estetizzanti che parrebbero allontanarsi dalla “scientificità”. Sappiamo che non è così, perché il linguaggio canonico della follia (e di ciò che gli può somigliare), non passa, necessariamente, per quello paradigmatico della psichiatria, per i protocolli e le griglie dei vari DSM e ICD. In ogni caso, ancorché si possa essere di diverso avviso, trovo saggio ascoltarlo, almeno, e ripensarlo leggendolo. Dopotutto la psicologia e la psichiatria, riflettono tematiche dell’esperienza umana che non hanno specialistiche ed esclusive strutture narrative.
 
Gliene siamo grati, perché attualizza una tematica antica che è sempre rimbalzata tra la concretezza dei neurofisiologi e le congetture dei filosofi. Il dilemma tra mente neuronale e mente psichica, ha segnato profondamente la psicopatologia fenomenologica, fin da Karl Jaspers. Ancor oggi, per comprendere le vicende della clinica, gli “psicologi del patologico” – come amava definire gli psicopatologi Eugène Minkowski – cercano il mitico passaggio a nord-ovest tra due poli estremi, una contrapposizione aporetica, che giace tra la “reticolare” di Moruzzi e Magoun e la “pineale” di Cartesio, oscilla dalle “vescicole pre-sinaptiche” di Eccles, alla “ontologia” di Heidegger.
 
Gliene siamo doppiamente grati perché, in questo periodo di omicidio sistematico del linguaggio, della semantica e del significante, egli riporta la parola, il verbo, la monade logica, ogni piccola componente del discorso (e del dialogo), al suo scopo originario di comunicazione tra esseri umani. Parafrasando Heidegger, la parola riconduce il linguaggio alla casa dell’essere, la dimora dell’uomo. Così facendo, Eugenio Borgna, invita all’esercitazione daseinsanalitica, al linguaggio e al pensiero eidetico dell’anima, richiama alle solitudini dello spirito, addita una via d’uscita per il superamento delle jaspersiane situazioni-limite, fornisce un orizzonte di senso alle disperazioni del silenzio e dell’abbandono, scopre la gioiosità della voce umana, vera e propria apologia della musica, come pensava Nietzsche.
 
Il discorso sull’anima (la psiche), sulla solitudine dell’anima (l’isolamento psicologico), è particolarmente complesso, non solo dal punto di vista clinico, psicopatologico e psicoanalitico (esso ha forte attinenza col narcisismo, l’autismo, la depressione psicotica), ma anche da quello fenomenologico e antropologico in quanto implica l’isolamento dal mondo, sia come conseguenza di patologie psichiche, sia come scelta volontaria, sia come ricerca di tragitti verso profondità interiori inimmaginabili, introspezioni abissali.
 
 
(3). Torniamo ora per un attimo al problema con cui abbiamo aperto: quello, cioè, che le tossicodipendenze e la “doppia diagnosi”, pongono all’analitica ed alla terapeutica antropofenomenologica. La dipendenza da sostanze (addiction), è il problema centrale. Anzi, il cuore del problema delle nuove sfide, che si trovano a fronteggiare, la clinica, la psichiatria, la psicologia, la psicopatologia, la società tutta, e gli individui che la compongono. Intanto, c’è da chiedersi se sia possibile trovare un giusto equilibrio tra la spiritualizzazione della psicopatologia fenomenologica e la laicizzazione della clinica delle dipendenze, in attesa di “nuove” follie.
 
Se Pascal affermava che «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce » [7], allora dobbiamo riconoscere che, parlando alla mente del tossicodipendente, dimentichiamo il cuore, anzi lo rimuoviamo. Non riusciamo, cioè, ad intercettare le istanze del corpo, quelle viscerali, molto più prossime al cuore di quelle spirituali. Qualcosa ci sfugge. Segno che il “nuovo”, nella lettura dei “nuovi” disagi sociali, va riascoltato, colto, ristudiato e ripensato, se si vuole costruire una strategia di aiuto e vincere l’indifferenza. Forse è indispensabile un radicale cambio di paradigma, in questo campo, che pare la nuova emergenza della salute mentale: una rivoluzione scientifica, nel senso di Thomas Kuhn. Forse, husserlianamente parlando, bisogna tornare alle cose stesse e ricominciare da zero: nulla di più fenomenologico che si possa immaginare.
 
Se così stanno le cose, il metodo antropofenomenologico è il giusto strumento dialogico per portare la “parola” (il senso e la ragione), in quel campo di battaglia che è la vita presente: un’arena esistenziale dove paiono scontrarsi, opposte istanze di Dasein ostili, in cui non è sempre facile rintracciare il sentiero del comprendere.
 
La psicopatologia fenomenologica, non è nuova a scossoni “radicali”. Fin da quando Jaspers, Minkowski e Binswanger l’hanno proposta come metodologia di riflessione eidetica della clinica, periodicamente è stata annunciata una “crisi” della psicopatologia [8]. Chi non ricorda i ricorrenti allarmi (giustificati da insoddisfacenti riduzionismi o interpretazioni causali-esplicative), rinnovati nel tempo? La letteratura, in proposito, è copiosa.
 
Certo che è in crisi la psicopatologia: quella  antropologica e fenomenologica. È permanentemente in crisi, ma rinasce ormai da oltre un secolo, perché si rinnova continuamente e trova nei suoi fondamenti costitutivi – teoreticamente ateoretici, tesi a cogliere l’essenza delle cose, l’eidos del Dasein – la capacità di ricominciare ad interrogarsi sul senso dell’abnorme.
 
Ci sono querelle che periodicamente attraversano il mare agitato della disciplina fenomenologica applicata alla psichiatria e alla psicopatologia. Fra le “crisi” (o presunte tali, nondimeno, segno di buona salute, di tappe evolutive, di crescita) più recenti, si fa per dire, ne cito una avviata su “Comprendre” nel 2005. Non c’è nulla di che sgomentarsi per il semplice motivo che l’essere umano cambia perennemente, si evolve in continuazione, e coloro che registrano codesti cambiamenti, sono destinati a giungere fatalmente dopo. Nell’ipotesi che si tratti di “malattia”, essa precede sempre, implacabilmente, il “rimedio”, che, allorché sia dato di scoprire e approntare, interviene sempre dopo, inevitabilmente. Certo, le nuove patologie impongono nuove strategie, ma non dobbiamo dimenticare che nel frattempo si è rinnovata (è andata cambiando) anche la società, i suoi mali, le sue piaghe, le sue strategie di profitto sulle sofferenze umane. Esserne consapevoli è già un saper ascoltare la musica dei tempi, coglierne il passo di danza, apprenderlo bene e regolarsi di conseguenza per entrare, col giusto timing, come terapeuti.
 
 
(4). La querelle che s’intende richiamare brevemente per la sua esemplarità, è più che altro, una sorta di triangolazione dialettica fra Del Pistoia, Ballerini e Calvi (“complice” la scomparsa di Lantéri-Laura, come s’usa dire, ricorda Del Pistoia [9], giacché, in effetti, i grandi non scompaiono), intercorsa tra il 2003 e il 2008 su “Comprendre”. Il cuore del dibattito, riguardava alcune possibili derive filosofisticheggianti (additate da Ballerini, come “fumisterie pseudo-filosofiche”), qui di seguito sintetizzate sommariamente.
 
Nel commentare il lavoro esegetico di Luciano Del Pistoia sui testi e sull’insegnamento di Georges Lantéri-Laura, Arnaldo Ballerini ne sottolineava alcuni passaggi fondamentali, lodandone la concretezza di badare al sodo. Nel contempo metteva in guardia i cultori della materia (come si dice), alludendo per l’appunto al rischio di veder ricoperte le finalità cliniche da incrostazioni sclerotiche ampollose che poco avevano a che fare con il disturbo psicopatologico e ancor meno con la cultura filosofica.
 
Iniziava la sua Lettera alla direzione di “Comprendre” – Arnaldo Ballerini [10] – rammentando di aver conosciuto e frequentato, «in anni lontani», Lantéri-Laura, Daumézon, Le Guillant e Bonnafè proprio «nell’epocale passaggio dalla philosophy del manicomio… alla psichiatria di settore, dalla quale è germogliata la psichiatria nella comunità». Dava atto a Del Pistoia di porre la questione delle ripercussioni che la psicopatologia fenomenologica ha avuto «sulle istituzioni della psichiatria» e soprattutto sugli effetti da essa prodotti, nel fare oggi psichiatria. Gli riconosceva il merito di esporre chiaramente il pensiero di Lantéri-Laura, senza «cadere nel dogmatismo», rimarcando cioè la differenza tra coloro che «pensano ad una psicopatologia di “ispirazione” fenomenologica» e quegli autori che ritengono di dover effettuare una «“applicazione” della filosofia fenomenologica» alla psicopatologia. Ma anche – aggiungerei io – alla psicologia e alla psichiatria, proprio per non cadere «nello sterile gioco dell’ortodossia e dell’eresia», impasse denunciata da Luciano Del Pistoia. Infatti, sottolineava Ballerini «… non esiste una filosofia, di necessità elaborata lontano dall’osservazione clinica, che possa dettare regole e vincoli alla ricerca psichiatrica, e dalla quale far discendere conclusioni psicopatologiche». Concludeva la sua lettera, il Ballerini, invitando gli psicopatologi e la psicopatologia antropofenomenologica a non «… chiudersi in una sorta di turris eburnea e di essere vista da psichiatrie che si richiamano esclusivamente all’“oggettivo” e “oggettivabile” quale una fumisteria pseudo-filosofica».
 
Lorenzo Calvi ci mise quattro anni, a rispondere, ma fu perentorio e inequivocabile. Scusandosi con l’amico per essergli debitore da tempo di una risposta, l’allora direttore di “Comprendre”, dopo aver richiamato la funzione pedagogica e il carattere formativo dello stile fenomenologico, concludeva: «Fin dai tempi più antichi si è detto e ripetuto che la filosofia non ha mai guarito nessuno: un bell’alibi per i “biologisti”! Invece noi abbiamo fiducia nella filosofia. Fenomenologi, ermeneuti, antropologi della scrittura, stiamo a sentire Wittgenstein […]: “Il filosofo si sforza di trovare la parola liberatrice”. Liberatrice perché incide, taglia, amputa, investe qualcosa» [11].
 
Non di minor saggezza, di quella dell’amico, fu la risposta di Calvi a Ballerini, e tanto più apprezzabile deve ritenersi questo rimando alla parola, al logos, a Wittgenstein (che è filosofo della chiarezza) anche (e innanzitutto) per motivi di prevenzione e terapia. Ogni buon clinico della medicina mentale sa quanto il massimo della chiarezza contribuisca alla costruzione del massimo di salute mentale, così come il massimo di confusività sia destinato a facilitare occasioni di introito alla dimensione psicotica, sia essa endogena o esogena per tener conto dei drammatici rilievi di Gilberto.
 
E pensare che la miccia di questa tematica – per nulla oziosa, ma perfettamente intenzionata a contestualizzarsi con le vicende storico-sociali dei nuovi modi di confrontarsi con la follia, per comprendere (meglio) ciò che era avvenuto dopo la chiusura dei manicomi e l’avvento della psichiatria di comunità – era stata involontariamente accesa dal commento dell’opera di una personalità di smisurata cultura, di altrettanta umanità e di pari ironia, come quel Maestro Nizzardo, di lontane ascendenze aretine, che risponde al nome di Georges Lanteri-Laura (1930-2004) e, che in Francia, fu maestro di Luciano Del Pistoia.
 
Quanto alle tematizzazioni brutalmente evocate dall’accorato grido d’aiuto lanciato da Gilberto Di Petta, dal SERT, da codesto dolente “presidio” di trattamento dei “tossici”, casamatta di frontiera della società dei consumi, riserva indiana delle nuove esclusioni sociali, si potrebbe aggiungere che, la tentazione di negare il problema, di non evaderlo per disinteresse, o perché non ci riguarda, è tuttora seriamente (e pericolosamente) presente. Ancor peggio, sarebbe il rischio di gingillarsi con “fumisterie pseudo-filosofiche”, magari in attesa di miracolistici “ricoveri in comunità”.
 
 
(5). Nella prima stesura del 2011, scrissi che tale circostanziato appunto era troppo lungo per essere la recensione di un libro, troppo breve per essere un saggio sul tema della “doppia diagnosi” (e della tossicodipendenza), troppo incompleto e temerariamente velleitario, per essere anche una timida riflessione sullo stato dell’arte della psicopatologia fenomenologica nella prima decade del XXI secolo, a quasi cent’anni di distanza dalla jaspersiana Allgemeine Psychopathologie. Oggi, non mi pare che tanto per la “Psichiatria” agita quanto per la psicopatologia clinica, “fenomenologica” in particolare, le “risorse”siano aumentate di molto. Anzi, guardandosi un po’ intorno, sembrerebbe doversi constatare un impoverimento generale. Per lo meno a leggere gli espliciti editoriali del Direttore Francesco Bollorino o la graffiante e malinconica rubrica di Gilberto Di Petta. CUORE DI TENEBRA. Viaggio al termine della psichiatria.
 
Il presente scritto, nondimeno, avrebbe ambito essere un po’ di tutto questo, soprattutto un incoraggiamento e giustificare, ai giovani colleghi, la necessità di continuare a fare della psicopatologia fenomenologica. Volendo trarre una conclusione provvisoria, mi pare si possa semplicemente prendere atto che molti dei temi appena abbozzati con la brevità di un gouache, sono effettivamente sul tappeto.
 
Allora comincerò col dire – soprattutto dopo aver udito Di Petta richiamare alla concretezza di misure terapeutiche, a letture adeguate della nuova e ingravescente deriva psichiatrica della tossicodipendenza – che i classici strumenti daseinsanalitici, parrebbero essere obsoleti a fronte della enigmaticità della “doppia diagnosi”. Ma anche quelli della nuova salute mentale sono spuntati verso le psicosi indotte, esogene, coattivamente ordinate dalla dipendenza (addiction). Perfino la psichiatria comunitaria sembra impotente verso codeste psicosi iatrogene. Per di più, queste ultime, secondo Di Petta, stanno soverchiando le psicosi endogene studiate dai vecchi alienisti. Intanto, s’impone una verifica. Poi occorrerà rimeditare e predisporre nuove strategie nei confronti delle nuove sfide che la clinica del presente (molto shakerata a mio avviso), pone di fronte alla psicopatologia fenomenologica. La complessità della sfida non significa affatto rinuncia alla terapia. Si potrebbe cominciare, analizzando, magari, la caratterizzazione jaspersiana del deliroide (o delirio?) del tossicodipendente; oppure ci si potrebbe interrogare sulla opportunità di valutare se esista una relazione tra il comprendere jaspersiano e la fenomenologia eidetica. Almeno tentare di studiarla, codesta relazione, se mai dovesse avere sbocchi terapeutici.
 
Ecco, se, in linea di massima, un addebito può essere mosso, ai cultori del metodo daseinsanalitico, è quello (forse) di aver trascurato la formazione di scuole, di non essersi impegnati (forse), come il problema avrebbe meritato, sul versante terapeutico. Dopotutto, Binswanger e Minkowski furono anche grandi clinici e ottimi terapeuti della psiche.
 
Va detto, in ogni caso, che da quando intorno ad Arnaldo Ballerini e a Luciano Del Pistoia si è costituita la Società Italiana per la Psicopatologia, da quando la “Rivista Comprendre” (e il fondatore Lorenzo Calvi) ha accettato di diventarne l’organo ufficiale e apparire on line, ma soprattutto da quando il Gruppo della Scuola di Figline Valdarno (Mario Rossi Monti, Stanghellini, Gilberto Di Petta, ecc), ispirato sempre da Ballerini, si è impegnato sulla formazione psicoterapeutica, le fortune del metodo psicopatologico antropologico e fenomenologico sembrano aver ripreso vigore. Tale disciplina dovrebbe sempre «… tenere assieme le due superfici della riflessione filosofica e della percezione clinica, come due facce di una stessa moneta», scriveva Arnaldo Ballerini nella sopracitata lettera di quasi otto anni fa con straordinaria preveggenza. Ribadirlo, appare a tuttoggi una prima saggia conclusione.
Riprendendo il tema specifico iniziale, se “La doppia diagnosi”, e comunque questo complicato rompicapo clinico-diagnostico prodotto da “Abuso di sostanze/strumenti/situazioni emotive (addiction)”, sia esso stesso un’automedicazione dall’angoscia di vivere, oppure nasconda una vera e propria patologia mentale, continua a restare un giallo tutto da indagare. Sarebbe utile, innanzitutto, calibrare meglio l’incontro col tossicodipendente. Non tanto per l’ascolto del vissuto e la comprensibilità dello stesso, quanto piuttosto per cogliere «…la declinazione degli esistenziali che il Dasein costituiscono» vale a dire, usando le parole di Luciano del Pistoia per gli psicopatici [12] «l’essere-con, la spazialità, la temporalità, il linguaggio, la coscienza esistenziale … tutti confluenti a evidenziare il risvolto di impegno del Dasein, quel suo essere cura (preoccupazione) e il dover-a-essere che lo rivela come progetto (Entwurf) e ne sottolinea la storicità costitutiva».
 
Sempre in ordine al tema della dipendenza, sarebbe interessante – per tentare di meglio definire e distinguere tra endogeno ed esogeno, tra idiopatico e iatrogeno – usare il metodo fenomenologico in tutti i suoi aspetti e sfruttarlo in tutte le sue potenzialità per esplorare ulteriormente il Dasein del tossicodipendente. Per esempio, adottare qualcosa di simile alle strutture analitiche del Dasein psicopatico, proposte da Häfner e riprese da Luciano Del Pistoia [13], per distinguerlo dal Dasein psicotico: la fissità rigida della Facciata e la persistenza della metafora. Cogliere, cioè, l’eidos della Facciata nell’eidos del Dasein psicotico da dipendenza e confrontarlo con quello schizofrenico da psicosi endogena. Verificare, dunque, due tratti significativi degli “esistenziali” che sono l’uno il completamento dell’altro: la fissità rigida e la persistenza.
 
Forse non si dovrebbe esitare a secolarizzare, se in fondo di questo si tratta, un metodo (non tanto una disciplina), più filosofico che clinico, che per giunta viene rimproverato di rinchiudersi in una sorta di turris eburnea. Dopotutto, se il capetingio Enrico IV di Borbone pronunciò lo storico Paris vaut bien une messe, non si vede perché la psicopatologia fenomenologica non dovrebbe valer bene un SERT.
Quanto all’insegnamento del libro di Borgna, sul fare psichiatria clinica e nel contempo psicopatologia (assolutamente) fenomenologica, per rendere più scorrevole e proficuo il lavoro userei una felice espressione di Arnaldo Ballerini, che immagina un gruppo di operatori intenti ad affaccendarsi in “un recinto di anomalie, ove la verità è un adombramento prospettico e ove niente può essere considerato stabilito una volta per tutte” [14].
 
In estrema sintesi, il punto nodale dell’esistenza, dell’esser-cicon, dell’Ich und Du, della Noità, consiste nella presenza condivisa, nel transito del sentimento da una presenza all’altra, nella reciprocità dello sguardo quel «tenersi per occhi» come dice magistralmente Gilberto Di Petta [15]. nel chiarore del ri-conoscimento, nell’autenticità dell’incontro dove può anche non risultare indispensabile la “parola”. Eugenio Montale in Ossi di seppia lo contempla e lo professa nella poesia Non chiederci la parola.  
 
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
 
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
 
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
 
E tutti abbiamo ormai imparato da Eugenio Borgna che «la follia è la sorella sfortunata della poesia». Grazie anche e soprattutto, alle fatiche di Francesco  Bollorino che sul Canale Tematico Youtube della Rivista Pol.it psychiatry on line gli ha dedicato una “raccolta di video-interviste pari delle oltre 130 relazioni presentate durante la settimana (primaverile/estiva appena decorse) in una logica polifonica che non ha avuto eguali in Italia in occasione delle celebrazioni del Quarantennale” della 180.
 
 

Note al testo.
1. La scuola romana della Società di Psicoanalisi Interpersonale e Gruppo Analisi, di Vincent Alfred Morrone – dove l’estensore della presente nota, da anni, tiene un corso di psicopatologia fenomenologica per gli studenti del primo anno – ha invitato Gilberto Di Petta, a tenere una conferenza sugli aspetti terapeutici della psicopatologia antropofenomenologica applicata al mondo della tossicodipendenza.
2. Il titolo proposto all’inizio era “La doppia diagnosi. L’abuso (addiction) di sostanze/strumenti/situazioni emotive produce o nasconde una patologia mentale?” Il tema definitivo è stato invece “Il Dasein tossicomane: fenomenologia e psicopatologia”.
3. Il Prof. Osvaldo Maleci, allievo di Giovanbattista Belloni, della scuola padovana, fu chiamato a dirigere la prestigiosa Clinica di San Salvi all’Università di Firenze.
4. Longo Enrico, Durante Antonio, Mellina Sergio. Osservazione di un particolare caso di sindrome maniacale insorta dopo prolungata assunzione di amine simpaticomimetiche (Methedrine). Il Lav. Neuropsichiat. Vol. XLIII anno XXII fasc. III-bis, 1968
5. Joseph Conrad. La linea d'ombra. Una confessione. Einaudi, Torino, 2006.
6. Eugenio Borgna. La solitudine dell’anima. “Campi del sapere”. Feltrinelli Editore, Milano, 2011.
7.  Blaise Pascal, Pensieri. Einaudi, Torino, 1966
8. Cfr. Danilo Cargnello, Bruno Callieri, Adolfo Bovi. La psicopatologia è davvero in crisi? Arch. Psicol. Neurol. Psichiat., 26, 492-521, 1965; Werner Janzarik. Die Krise der Psychopathologie. "Nervenarzt", 47, pp. 73- 80, 1976, trad. it. Mario Rossi Monti, PM, Telematic Review, 16 Ottobre 2001; Arnaldo Ballerini. Attualità della psicopatologia. Psichiatria Oggi, 8, l, 1995; Gilberto Di Petta. Senso ed esistenza in psicopatologia. Ed. Univ. Romane, Roma, 1995; Eugenio Borgna. C'è ancora un senso nella psicopatologia? ATQUE – n. 13, p. 155-178, 1996.
9. Già era uscito, piuttosto rocambolescamente, un articolo di Luciano Del Pistoia. Il contributo di Georges Lantéri-Laura all’atteggiamento fenomenologico in psichiatria (*Lettura di un allievo) “Comprendre” 13, 2003, pp. 27-65, quando lo studioso francese era gravemente malato. Alla morte del Maestro, nel 2004, l’Autore Camaiorese, scrisse un tenerissimo necrologio come raramente è dato leggere: “A Lanteri-Laura (Nizza 1930-2004 Parigi)”. Luciano Del Pistoia Georges Lantéri-Laura: profilo bio-bibliografico. “Comprendre” n. 14, 2004, pp. 9-14. Id. Georges Lantéri-Laura: medico e uomo di cultura. Ibidem, pp. 17-31. Tali saggi (che erano molto di più di una commemorazione) sulla psichiatria fenomenologica di Georges Lanteri-Laura, ricevettero da Arnaldo Ballerini un commento lusinghiero.
10. Arnaldo Ballerini. Lettera alla Redazione. “Comprendre”, 14, 2004, 32-35.
11. Lorenzo Calvi Risposta ad una lettera di Arnaldo Ballerini alla redazione di Comprendre. (“Comprendre” 16-17-18, 2006-2007-2008, pp. 63-66).
12. Luciano Del Pistoia. Presentazione, a Heinz Häfner. Psicopatici. Traduzione dal tedesco di Elisabeth Nibelle Del Pistoia e di Luciano Del Pistoia. Presentazione e note di Luciano Del Pistoia. Fioriti, Roma, 2011,  p. X.
13. Ibid., p. XVII e infra.
14. Arnaldo Ballerini. Introduzione. (pp. 9-15) Numero 8/1998 di “Comprendre” (“Il senso della psicopatologia nell'incontro” – Palermo, 22 ottobre 1997).
15. Gilberto Di Petta. Cuore di tenebra, la sua rubrica sulla Rivista Pol.it psychiatry on line. Trascrivo alla lettera da “E lentamente muore la psichiatria italiana” (3 luglio, 2017 – 09:33), perché la sua narrazione è conradiana «… Non l’ascolto. Sono tenuto per lo sguardo da Antinoo. Non riesco a staccarmi dal suo sguardo. Bruno Callieri diceva :”Se tenir par le yeux”, come dicono gli amanti francesi: tenersi per lo sguardo». Antinoo è un paziente mingherlino mutacico, affidato mi pare di aver capito a una signora bassina, una specie di “badante” purchessia. L’esito terminale di tutto quanto avrebbe dovuto essere una “struttura intermedia” immaginata  dalla 180/78 quarant’anni dopo. Antinoo è morto dopo essere tornato a casa della “badante” senza che per lui si fosse potuto fare di più di quello ch’era stato fatto. «E lentamente muore la psichiatria italiana». Su questa implosione dell’assistenza psichiatrica, che Gilberto Di Petta ha denunciato senza mezzi termini nel suo blog come «Una frattura scomposta si è aperta lentamente nel corpo della psichiatria stessa», torneremo, perché è grave. Così com’è molto grave che abbiano ad estinguersi lentamente oltre alla sanità, anche la scuola, le strade, le ferrovie, i trasporti, la cultura, il tessuto sociale, il nostro mondo quotidiano… C’è da chiedersi se lo Stato sappia di essere in vita.

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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