Sul migrare Parte Prima: Le amarezze de “La nave dolce” .

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26 settembre, 2018 - 14:41
“… in 10 minuti eravamo in 10 mila”
“… la folla era un secondo mare di gente”
“ricordo gente che mangiava zucchero”
“… mi pareva di stare in un film”
“…il caldo lo stress la paura, l’ignoto
… quella sete mi sta venendo anche adesso
… ho bevuto
 … era acqua salata
… sono andato fuori di testa
… mi ha fatto scattare una sete maggiore
… gli amici hanno trovato acqua dolce
… mi hanno dato da bere per farmi calmare
 
Robert Budina Eva Karafili Kledi Kadiu
Dialoghi di protagonisti/interpeti
 
La nave dolce
Daniele Vicari.
Docufilm, Italia, 2012, 90’.
 
 
Riassunto
Nell’ambito delle iniziative del personale d’Istituto per l’ECM, l’autore fu invitato, sul finire del 2012, a tenere una Conferenza per operatori della neuropsichiatria infantile presso lo storico Istituto di Giovanni Bollea in Via dei Sabelli dell’Università di Roma “La Sapienza”. Per la precisione era la mattinata del sabato 17 novembre 2012, e il tema propostomi riguardava la salute mentale degli adolescenti immigrati, dei loro familiari e l’inserimento dei nuovi arrivati in termini di intersoggettività. La precisazione delle date, è intenzionale, in quanto tra i cinefili e le persone di cultura, si mormorava di uno strano film-documentario di Daniele Vicari “La nave dolce” che, presentato al festival di Venezia il 3 settembre 2012, aveva ricevuto il premio “Pasinetti”, fuori concorso. Verteva sull’immigrazione albanese di 21 anni prima nel porto di Bari dopo la caduta del comunismo [01]. I critici facevano i dovuti confronti con il film “Lamerica” di Gianni Amelio del 1994 sul medesimo tema con un’altra storia. Era chiaro che l’interesse degli gli uditori all’Istituto di Neuropsichiatria infantile correva verso il futuro dell’Europa. A larghe spanne, si poteva immaginare quello di una regione molto importante del pianeta per ragioni non solo storico-culturali, ma non estesa, rispetto al resto del globo, denatalizzata, invecchiata, scarsamente incline al ricambio generazionale. Gli economisti tenderebbero ad additare il reddito economico come il maggior responsabile e dunque esso sarebbe il vero imputato del calo del desiderio di generare. Ora, se le nascite occidentali fossero Pil-dipendenti e il risultato immediato, un benessere diffuso a macchia di leopardo, l’immigrazione potrebbe risultare un progetto utile e suggestivo per chi approda e chi riceve? Si potrebbero spiegare le diverse zone attrattive dei flussi migratorie, con le relative aree di transito e quelle di destinazione sognata? Sono domande antiche che hanno sempre riguardato l’umanità, e proprio per questo ripetersi continuamente, meritano una riflessione costante. Il presente testo riflette parte dei temi che furono affrontati allora, naturalmente adeguati alle circostanze attuali e rielaborati con un linguaggio più scorrevole.
 
 
 
Il timore televisivo di essere invasi dagl’immigrati.
 
 
(1) L’immigrazione come minaccia o come risorsa. Da chi e perché?
 
«Fra le minacce con cui dovrà misurarsi il futuro dell'umanità intera – scriveva Paul Kennedy in un saggio di circa vent’anni fa [02] – vi sarà il fenomeno migratorio. Le immigrazioni di massa transnazionali, costituiranno il detonatore certamente più pericoloso. E' curiosa la dedica del suo libro: "Un allenatore alla sua squadra di calcio under 15"… fra cotanta previsione catastrofistica, a noi fa piacere intuire un allusivo richiamo alla speranza. Essa, non a caso, viene affidata alle giovani leve, preparate alla convivenza attraverso l'abitudine al lavoro di gruppo, con una formazione appropriata, sotto la guida di un "allenatore" esperto».
Questo è un passo di un mio testo [03], redatto quindici anni fa. Sono passati quasi vent’anni, e niente di più profetico sembra essere stato pronunciato, e scritto così puntualmente, da altri autori, contemporanei, esperti di scienze umane applicate, studiosi delle migrazioni e delle coabitazioni culturali che, per conseguenza, si determinano storicamente.
Chi scrive, ha ripreso più volte, nel corso degli anni, la questione migratoria italiana (emigratoria, immigratoria, reimmigratoria) e straniera, di cui si è interessato fin dal 1972, lavorando nei manicomi della Sardegna e interrogandosi sulle trasformazioni psicodinamiche, sociali e culturali di chi è costretto a lasciare la terra dei propri antenati per cercare di sopravvivere altrove. Del tutto recentemente, ha compilato, sui temi dell’etnopsichiatria ed altri argomenti correlati alle transculturazioni imposti dall’immigrazione straniera in Italia, tre capitoli del “Trattato italiano di psichiatria culturale e delle migrazioni”. Editore: SEU, Roma, 2010 [04]. 
Fra le domande che ci riguardano, che misurano la salute mentale del nostro presente, che svelano e riflettono lo stato intersoggettivo delle nostre relazioni psicosociali, potrebbe essere utile partire da un primo quesito essenziale di carattere storico, che ne trascina a cascata molti altri.
Com’è successo che il nostro paese si è risvegliato, d’un tratto, mèta agognata di miraggi immigrativi (paese attrattivo), dopo essere stato, per oltre un secolo, cospicuo serbatoio di emigranti (paese patrigno ed espulsivo)? Per quali circostanze storiche, per quali mutazioni sociali, antropologiche politiche ed economiche? Quali sono state le iniziative per leggere questo cambiamento di rotta delle povertà umane alla ricerca di lavoro? Quali le proposte per affrontare questa fase storica nuova nei flussi e riflussi del mondo umano scacciato dalle nuove crisi dei territori, delle democrazie, delle ricchezze, delle religioni?
 
 
(2) Fine dell’immigrazione una dichiarazione imprudente.
 
“Da quando, nel 1974 nelle sedi internazionali, si dichiarava in modo stupidamente miope la fine dei processi migratori di massa” – scriveva Franco Foschi – le questioni “si sono moltiplicate e il problema è oggi diventato più complesso per l’intreccio di ragioni che spingono milioni di persone ad emigrare, immigrare, tornare, da aree e verso aree geografiche e culturali”. L’Autore, che è un politico e prima ancora uno psichiatra, ne spiega anche le ragioni più profonde: “In realtà si intendeva dire che i paesi di immigrazione non sentivano più il bisogno di manodopera che li aveva indotti a regolare in qualche modo i flussi d’ingresso, a condizione di limitare o procrastinare i diritti dei nuovi venuti. Questa, in termini brutali, la sostanza della legislazione migratoria”. parole dure, ma estremamente chiare, per denunciare l’intreccio tra migrazione, bisogno e sfruttamento del lavoro che si intendeva rinnovare: “Allora” – prosegue Foschi – “nel 1974 si fingeva di non conoscere i problemi, come quelli derivanti dallo squilibrio demografico, dal differenziale di sviluppo economico sociale e demografico tra il Nord e il Sud del mondo e dall’ampliarsi del fenomeno delle economie sommerse di cui lo sfruttamento dell’uomo diviene una logica variabile dipendente”.
Inganno o finzione? Formalità o sostanza? Non possiamo non concordare con Franco Foschi allorché sottolineava, proprio in contrasto con i diritti da noi stessi reclamati per i nostri connazionali all’estero, che “noi oggi affermiamo che non siamo un paese d’immigrazione, perché formalmente noi non abbiamo mai chiesto con specifici accordi a nessuno di venire tra noi: così, quelli che ci sono, o non ci sono o comunque possono andarsene” [05]. 
Un tempo, circa una trentina d’anni fa, i commenti socio-economici sulla recessione mondiale degli anni Ottanta, erano discordanti, comunque un po’ più comprensibili delle razioni inquiete e viscerali delle assemblee di quartiere.
Si diceva che la nuova immigrazione aveva portato in Italia nuovi problemi di carattere specifico e strutturale. Si diceva che i nuovi soggetti spesso ignorano i loro diritti, i loro doveri e la mentalità del paese ospitante. Si diceva, ancora, che molti immigrati non sempre giungevano per bisogno materiale, bensì per desiderio di migliorare la loro qualità di vita, portandosi appresso “qualche titolo di studio”. Aggiungiamoci che il fenomeno andava inquadrato nella prospettiva planetaria di un processo più generale di mobilità economica tra il Meridione e il Settentrione, tra le aree povere e le aree ricche della terra. Insomma, non si potevano fare paragoni, perché i nuovi immigrati erano diversi dai nostri vecchi emigranti. Già! Il punto però era: diversi o non familiari? Era questa la vera novità del fenomeno? I Latini insegnavano che “nihil sub sole novi”.
Ad avviso di chi vi racconta queste esperienze di studio e vi cita, fra gli altri, questo suo testo [06], il sole della terra non vedeva alcun cambiamento nell’ambito della povertà materiale migratoria, anche se da un lato, nella nuova immigrazione vi era una qualche ricchezza culturale, mentre un tempo l’emigrazione contemplava anche, a maggior danno, la gravissima piaga dell’analfabetismo. Noi, Italiani, da emigranti eravamo spesso illetterati, mentre questi che venivano da noi negli anni Ottanta parlavano due o tre lingue, ma la differenza non era grande sotto il profilo delle necessità materiali. Bisognava governare il fenomeno, pianificarlo, coordinarlo, ma dovevamo tener presente che la miseria, la corsa dalle zone povere alle zone opulente c’era sempre stata; e l’egoismo cinico di chi possiede la ricchezza si era mantenuto sempre inalterato nel tempo.
Una sparuta quota di intellettuali, invece, di professionisti dei servizi socio-assistenziali, di operatori del welfare, ma anche di nostri connazionali, si sentivano coinvolti nel dibattito migratorio, più o meno direttamente. E il dialogo (un esile dialogo, in verità) si svolgeva in senso costruttivo e “tollerante” o perché i soggetti dell’interlocuzione, nella migrazione ci si era già trovata, o perché aveva avuto parenti migranti, o perché, taluni di essi, si apprestavano ancora ad emigrare, sia pure come trasferisti o come emigranti specializzati. Dunque “ufficialmente richiesti”, anche se poi non erano sufficientemente garantiti (spesso non erano pagati o venivano rapiti).
Con questa parte di interlocutori – di solito nei servizi di salute mentale o nei presidi psichiatrici ospedalieri riformati dalla “Basaglia” – ci si intendeva facilmente e, comunque, il discorso sull’immigrazione diveniva meno irrazionale. A volte bastava riflettere un po’ più a fondo sul vissuto personale di chi era costretto ad emigrare, magari con l’aiuto di Tobie Nathan: “All’improvviso l’acqua in cui nuotavano i pesci cambiò di temperatura, di sale, di acidità, e l’aria diventò più pesante, più spessa. Il mondo esterno cambiò: la lingua, le regole dei giochi, ma anche qualcos’altro, molto più difficile da comprendere”[07] .
 
 
(3) Primi segnali di benessere? Provenienza?
 
“Già agli inizi degli anni '80, in Italia, il panorama del lavoro umile era andato cambiando. Si cominciava a parlare di lavoratori extracomunitari. Tutto il mondo nostrano era un po' in subbuglio. Nuovi assetti socio-economici si andavano man mano consolidando a discapito del nòmos e dell'ethikòs: la politica come mestiere, il lavoro nero, l'affarismo, la deregolazione, il tangentismo, l'arricchimento improvviso, l'aumento vertiginoso delle colf capoverdiane, delle fantesche mauriziane, dei maggiordomi filippini, delle ragazze indiane, anche "un po' infermiere" per assistere i genitori anziani, "famigli" vari fatti giungere appositamente dall'Oriente per dare una mano come portantini, giacché il lavoro con gli anziani non autosufficienti era sfibrante. Questi fenomeni di bieco sfruttamento del lavoro, ed altri sempre di genere deteriore, caratterizzavano il panorama socio-lavorativo sotterraneo, di tipo carsico, che nessuno voleva vedere per quello che era realmente, ma che tutti ostentavano furbescamente come segno di benessere.
Nessuno riusciva ancora ad immaginare che di lì a poco ci sarebbe stato il crollo del muro di Berlino (1989) con tutto quello che ha comportato l'immigrazione dall'Est europeo. Nessuno pensava che gli Stati Uniti abbandonassero al loro destino i fedeli collaboranti (antichi e recenti) della cosiddetta "prima repubblica" e che la sua dissoluzione avrebbe comportato un novum tanto aggressivo verso l'immigrazione extracomunitaria, quanto geloso custode della gerusìa della piccola, sterile, Europa-fortezza di Schengen, di Trevi, di Maastricht, e ora anche di Dublino. Una sola moneta per tutti! Quanto dire che tutti gli uomini di tutte le nazioni, di tutte le etnie, di tutti i clan, di tutte le religioni, di tutte le cabile, devono entrare in comunanza tra loro sotto le insegne dell'oro, dell'egoismo e del rifiuto dell'alterità” [08].
Per quanto concerneva il mio lavoro di psichiatra senza manicomio, iniziavano ad affluire ai Servizi dipartimentali di salute mentale del territorio, i personaggi nuovi della realtà migratoria, quando andavano in sofferenza. Ce li portavano i “padroni”, che proprio non riuscivano a capire come mai, di punto in bianco, oggetti umani obbedienti e affidabili, divenissero soggetti inaffidabili e fonte di problemi incomprensibili. “Non ha nulla, eppure sta lì intontita e piange” – dicevano di una cameriera – “Ma soprattutto non mi lavora, e non vorrei proprio privarmene, anche se ha il biglietto aereo pagato per tornare a Port Louis. Veda un po’ lei, se si può fare qualcosa. Mi hanno detto che  qui studiate proprio questi problemi”.
Come si può facilmente capire, non si trattava più di Italiani, bensì di donne, uomini, bambini e adolescenti provenienti delle più svariate isole degli Oceani, dall'Africa, dall'Asia, dall'Estremo Oriente, dall'America del Sud. Erano le sparute e timide avanguardie (estremamente fragili) di una "cultura altra" che, spesso, venivano accompagnate in ambulatorio dai loro datori di lavoro con richieste di "cura" che nessuno di noi era  in grado di fornire, perché ignota risultava l'etiologia, la patogenesi, e i motivi del precipitare della crisi. In seguito si sarebbe aggiunta altra umanità disperata proveniente dalla Polonia, dalla Romania, dall'Albania, dall'Ungheria, dai resti della Jugoslavia, dalla Turchia e ancor più dall’Oriente estremo.
Bisognava riflettere, capire meglio, orientarsi nella direzione giusta. Andava cambiato il protocollo di osservazione clinica, il dispositivo di ascolto, il paradigma procedurale dell'approccio al disturbo mentale comunemente usato, studiato e approntato dalle discipline psicologiche-psichiatriche per l'uomo bianco (occidentale).  Mi piace qui usare il termine “uomo bianco” – nell'accezione polemica ed etnocentricamente autocritica del Collega Salvatore F. Inglese – perché anch'io condivido il non senso (o il sott'inteso senso egemonico) di indicare la gran parte degli abitanti del pianeta col nome di “non occidentali”, “tradizionali", "primitivi" e così via [09]. 
A questo punto – scrivevo nel testo Medici e sciamani  [010] – il lettore può considerare esaurita la dettagliata narrazione autobiografica dell'Autore e comprenderne i numerosi cambiamenti di rotta, nel tentativo continuo di tarare lo strumento del pensare analiticamente (che è tipico dell'indagine psicopatologica) e dell'agire terapeutico (che è proprio del Clinico). Tale indagine e il conseguente dispositivo etno-terapeutico, non sono certo le sole procedure metodologiche, volte a scrutare la futura creolizzazione della cultura europea, ma sono sicuramente delle basi utili a tracciarne i confini nell'area salute/malattia/cura/presa in carico.
 
 
(4) Capire il disturbo della persona immigrata
 
Chi scrive – lo ricorda con una punta di nostalgia perché in questo Istituto di pedopsichiatria fondato da Giovanni Bollea a Via dei Sabelli, fu già invitato a discutere forme di patologia adolescenziale esotica di tipo autistico (Abiku, per esempio [011]) e incontra con lo sguardo i volti di alcuni operatori di quegli anni – ha promosso fin dal dicembre '94 presso la Sede del Dipartimento di Salute Mentale dell'Azienda Sanitaria Locale B di Roma, in via di Torrespaccata 157, un Corso biennale inter-USL (anni 1995 - 1996) intitolato "Capire il disturbo mentale della persona immigrata", col sottotitolo "Osservazione di un fenomeno emergente attraverso modelli teorici, istituzionali, operativi". Un contemporaneo progetto di lavoro con l'aiuto dei familiari di immigrati in difficoltà e delle loro micro-comunità inurbate, denominato "Ri-conoscersi" è rimasto attivo fino al 1999, ma senza finanziamenti.

Essendo l’obiettivo principale di quel Corso, capire e osservare, prima di salire ai piani nobili dei trattamenti terapeutici, per conseguirlo furono coinvolti come Docenti, non solo autorevoli studiosi nel campo delle Scienze Umane (Psichiatri, Psicologi, Antropologi, Sociologi, Storici), ma anche esponenti sindacali, del mondo del lavoro, Associazioni di volontariato e soprattutto rappresentanti delle Comunità immigrate.
Lo sforzo fu enorme, ma il successo incontrato ripagò ampiamente l'iniziativa (allora, ma ancora oggi mi pare, a quasi 18 anni di distanza), con una ricaduta anche sul piano nazionale che spinge gli epigoni di quel volonteroso gruppo di lavoro verso l'ambizione di costituire una rete informativa tra tutte le realtà italiane ed internazionali che operano sul campo specifico del disagio psicologico e del disturbo psicopatologico causato dalle più disparate necessità migratorie, particolarmente nella popolazione infanto-giovanile e adolescenziale.
Buona parte del testo Medici e sciamani, e delle note aggiuntive, uscito da Giorgio Lombardo, l’editore collega, sono il frutto di quella straordinaria esperienza formativa di arricchimento nel campo della tutela della salute mentale in corso di e/im-migrazioni. Nella circostanza editoriale, furono aggiunti due argomenti che hanno a che fare con la migrazione: la nostalgia e il nomadismo. La prima perché ne costituisce l'elemento centrale, peculiare, distintivo, il secondo perché ne rappresenta l'esatto contrario. Si trattava di due passioni antiche, appena accennate nei miei primi due libri sull'emigrazione [012]. Passioni e interesse che mi proponevo di riprendere allorché – trascorso il tempo dello scontro – fosse giunto quello della ragione. Mi auguravo, allora, che il clima corrusco e urgentissimo della "questione immigrati in Europa" si mutasse nella prospettiva del dialogo più sereno, non frettoloso, meno concitato. Oggi, però… l’auspicio rimane inalterato, almeno da parte mia: l’utopia di un pioniere.
 
 
(5) Due questioni emerse confronto culturale. Cura la cultura?
 
Dall’esperienza clinica che ci proviene dal lavoro transculturale effettuato nell’area della salute mentale, abbiamo tratto numerosi insegnamenti. Scegliamo, fra le tante, due lezioni che ci sembrano esemplari: la forza spirituale della tradizione sotto forma di “interdetto”, “maleficio”, “ananché punitivo” per la trasgressione e il significato della parola “guarigione”, sotto il profilo somatico e psichico.
Prima lezione. Vi sono pertinenze antropologiche naturali come l'odio e pertinenze fenomenologiche sovrannaturali come la maledizione, entrambe fanno parte della condicio umana. Ma esistono anche pertinenze da condividere col gruppo di provenienza, che abbiamo lasciato con una promessa, un impegno solenne, un giuramento: il prezzo della partenza. Tali pertinenze, ossia i “valori” della tradizione che ci ha cresciuto, della cultura che ci ha nutrito, costumanze diverse (spesso in conflitto) da quelle che troveremo nel luogo di approdo, sono vincolanti, non ammettono trasgressioni, tradimenti, se non a prezzo di gravissimi sensi di colpa. I “valori” (il peso della tradizione, il mondo dei nostri antenati) ci riguardano direttamente sia come persone, sia come soggetti, sia come relazioni interpersonali, e ancor più come negoziazioni intersoggettive tra la collettività umana che ci accoglie e quella che abbiamo lasciato.
Chi, se non ciascuno di noi, nell’ambito del proprio mondo di tradizioni, radicalmente diverso da cultura a cultura, può riflettere sulle ragioni del disagio giovanile (sempre cangianti e sconfinate), della precocità della pubertà e dell'allungamento dell'adolescenza (il nostro tanguysmo, per esempio) dell'insofferenza dell'adulto disoccupato, del malessere dell'anziano con pensione da fame ed eventualmente decidere di farsene carico? Chi se non ciascuno di noi può dedicarsi, ove lo voglia, alla comprensione di quest’ordine di problemi sociali, tentare di dare senso alla confusività psicosociologica del proprio tempo?
Le scienze umane vanno forse interrogate separatamente, secondo una scala di supposto valore scientifico, per asserire che la trascendenza è primitiva, i guaritori sono impostori, la superstizione è ignoranza, le credenze sono pensieri di selvaggi? Dobbiamo forse ridefinire la “Ragione illuminista” (Scienza) contro la “Tradizione popolare” e l'empirismo delle “pratiche tradizionali” (non-Scienza), rideterminarne il valore, approntarne una scala comparativa? Sarebbe ingenuo predisporre un simile terreno di gara per conoscere dalla “scienza” quale delle due guarisca di più le malattie. Nessun oscurantismo: la medicina convenzionale, la biomedicina ha vinto la sua battaglia e di gran lunga. La medicina tradizionale, però, quella degli sciamani, tanto per intenderci, non ha mai cessato di tornare utile, complementare e talvolta strategica nella soluzione di psicopatologie apparentemente insolubili e inspiegabili. La robotica medicale, umanoide e di servizio, sta acquisendo sempre più vasto consenso nel campo delle terapie avveniristiche, ma lo spazio dell’ascolto e della parola è radicalmente insostituibile.
 
 
(6) Seconda questione. La “guarigione” con la biomedicina e con la tradizione.
 
Seconda lezione. Che cosa significa esattamente guarire nella cultura occidentale e nelle altre culture? Si tratta di una realtà o di un artifizio, come nelle foto di certe pubblicità accattivanti che indicano "prima e dopo la cura"? L'amico e Collega Piero Coppo, che ha lavorato a lungo in Mali coi guaritori Dogon, lascia intendere che il concetto di guarigione potrebbe essere un artifizio tutto occidentale. Egli ci ricorda che la condizione ambientale sta alla base della tradizione e della cultura di sopravvivenza, dove domina l'idea di salute e di malattia, ma non quella di guarigione. Il rapporto con l’ambiente naturale obbliga necessariamente la persona all'oculata utilizzazione di tutti i beni primari. Le scarse risorse, le limitate riserve di energia fanno in modo che l'essere funzioni come accumulatore di energia, mentre l'oggetto fungerebbe da condensatore.
Da qui deriva una nozione di salute – in aggiunta a quella sancita dai vari dettati dell’OMS (WHO) [013] – abbastanza vicina, per larga approssimazione, a ciò che oggi potremmo definire in termini di armonica corrispondenza tra mondo interno, la nostra percezione della cenestesi, e mondo esterno, il rispetto dell’ambiente in cui viviamo: una sorta di fragilissima bilancia eco-sistemica/uomo-natura, da mantenere perennemente in equilibrio (prevenzione primaria), verificare con frequenti tarature di controllo (prevenzione secondaria). La malattia, dunque, nell’ottica dei guaritori tradizionali (e in chi loro si affida, credendovi), sarebbe concepita e affrontata come ricerca di un dispositivo etiologico-interpretativo, piuttosto che secondo il modello diagnostico-esplicativo della medicina convenzionale.
La radice della cultura Dogon del Mali (popolazione africana a lungo studiata per il loro elevato interesse etnologico), ad esempio, può implicare il fatto che ad un certo punto si debba scegliere se stare nel mondo dei valori (salute) oppure tornare nel mondo degli antenati (la malattia o anche la morte).
Anche Clara Gallini [014] sostiene che nei cosiddetti "popoli primitivi" si parli pochissimo della guarigione. Nel dispositivo terapeutico dei guaritori Dogon, ci fa notare Piero Coppo [015], rientra quell'operazione che attualmente nella psichiatria italiana viene definita "presa in carico". Il guaritore tradizionale, per le cure del caso, ospita materialmente nella propria casa la persona portatrice di malattia. Egli, nel gruppo Dogon studiato da Coppo, non si rivolge agli islamizzati, ma solo agli animisti e non pronuncia mai la parola guarigione. Quando ritiene che sia giunto il termine della "presa in carico", il guaritore si limita a dire al paziente: - "Puoi riprendere il tuo cammino"-.
A questo punto una domanda interessante potrebbe essere la seguente: è necessaria una omologia tra il mondo culturale e valoriale del paziente e quello del terapeuta? I pareri sono discordi e tutti meritevoli di considerazione. Non vorremmo prendere una posizione netta su una questione difficilissima della Psichiatria transculturale e neppure azzardare una risposta qualsiasi. Tuttavia la nostra esperienza clinica ci suggerirebbe di considerare ragionevole pensare che quanto più questi mondi permangono lontani, tanto più remote giacciono le potenzialità e le incisività del trattamento etnopsichiatrico. La stessa osservazione, collocata in chiave futura e in una prospettiva di prevenzione, potrebbe valere per una società avviata verso la creolizzazione.
Per leggere l’attualità e trovarne un “senso storico” riterrei indispensabile raccordare i fenomeni dell'immigrazione odierna con il capitolo della storia delle emigrazioni, partendo da molto lontano. Segnatamente, per noi Italiani, sarebbe impossibile dimenticare la lunga strada di questo sofferto percorso che principia dalle emigrazioni transoceaniche di massa dei nostri "cafoni", intensificatesi all’indomani dell'Unità d'Italia, prima di giungere al grande rientro dei lavoratori italiani dall'estero per la grave recessione economica mondiale della metà degli anni '70. Naturalmente senza trascurare quel doloroso passaggio dalle forche caudine che simbolicamente assunse il drammatico travaso interno dal Sud al Nord del paese, consumatosi negli anni '60.
Se non svelassimo questa gigantesca operazione di rimozione/occultamento, alimentata dall'onnipotenza proterva, dall'onnivoro consumismo e svariate altre scelleratezze dei micidiali anni '80, difficilmente saremmo in grado di costruire il nostro futuro di società meticcia [016]. 
 
 
(7) La sfida plurima dei Servizi e dei Presidi di salute mentale.
 
Da oltre un quarto di secolo, in Italia (ma anche in Europa, per restare al di qua dell’Atlantico) stiamo assistendo alla costruzione (per spinte subentranti) di una nuova trama sociale, accidentata e discontinua, come in natura è dato vedere nelle stratificazioni geologiche, nelle colate laviche o anche semplicemente nelle mareggiate. Una società caleidoscopica, disomogenea, inquieta, si è andata costituendo sotto il nostro sguardo preoccupato per giustapposizione di ondate immigrative che non accennano a scemare [017]. 
La sfida multietnica e plurireligiosa – ma potremmo anche aggiungervi la provocazione culturale proveniente dalle tradizioni popolari di casa nostra – che viene lanciata ai Servizi di Salute Mentale, è un ingaggio titanico che ci ha coinvolto da lungo tempo e tuttora ci appassiona. Nel periodo sopra indicato (e anche nel quarto di secolo precedente), all’interno delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale, si sono potute osservare (in filigrana) alcune importanti circostanze di cambiamento nella percezione della salute, che vanno attentamente studiate. Nuovi orizzonti sulle culture della salute, unitamente all’acquisizione del diritto alla prevenzione, all’assistenza, al welfare, si sono aperti al cittadino. La promozione attiva della salute, la consapevolezza che le attese di vita sono variabili/dipendenti dell’economia ed altri temi connessi all’educazione sanitaria, impongono di documentarsi sul come storicamente si siano costituiti i fatti e quali condizioni precedenti fossero all’origine dei problemi di peggioramento della salute. Se ne può trarre l’insegnamento lapalissiano che, soltanto dopo un’attenta ricognizione storica sugli antefatti e sulle idee guida che tali pratiche sanitarie errate, hanno reso possibili (consentendole, tollerandole od occultandole), vale sempre la pena di concludere sulle cose pratiche della salute delle comunità di umani.
E parlando di questioni umane, massimamente in tema di politiche della salute, il tema della “sfida” rimanda a due soggetti (o gruppi di persone) che si affrontano per un fine ben preciso. Anche in tutte le altre possibili significazioni semantiche del termine (gara, cimento, scontro, tenzone, contrasto), è sempre implicito che si tratti di contendenti, ciascuno dei quali è portatore di interessi, valori, istanze, bisogni radicalmente opposti. Questo almeno in linea generale, ma scendendo nel particolare, i termini del contenzioso, si possono (e si debbono) ulteriormente precisare.
Nel caso di popolazioni migranti, la competizione si svolgerà principalmente sul piano delle culture e delle religioni professate (o delle secolarizzazioni raggiunte) che restano tra i più significativi vettori  visibili e trainanti della dimensione culturale, anche e soprattutto dal punto di vista ideologico.
Nell’area salute/malattia, il confronto socio-culturale si esprimerà soprattutto sugli orizzonti di vita, sul senso attribuito ad una vita vivibile dignitosamente e sulla rete di auto-aiuto (parentale, etnica, clanica) che ogni gruppo sarà in grado di tessere e sviluppare.
Nel caso della salute mentale (e sui modi di tutelarla) lo scontro si farà più acceso proprio nei termini di qualità di vita che, come abbiamo già detto, si giocano eminentemente sul piano socio-economico. Ma non basta. Per comprendere esattamente la natura della sfida, vanno ancora specificati il terreno e il perché dello scontro, le parti in causa che si sfidano e la posta in palio. Su una cosa siamo storicamente edotti: il certame migratorio non avrà né padrini, né giudici. Esso, al contrario delle singolar tenzoni o disfide di antica memoria cavalleresca, sarà regolato dall’arbitrio del più forte. Per tentare di riequilibrare le disparità sociali provocate dalle vecchie e dalle nuove migrazioni, un esiguo numero di volenterosi Colleghi di rari Servizi si sono prodigati a partire dagli anni Ottanta; tuttavia non sempre la transazione sulle diversità è stata possibile facendo ricorso all’eracliteo equilibrio degli opposti. Il rapporto di potere contrattuale era (e resta tuttora) fortemente diseguale.
 
 
(8) Emigrare: come, dove, quando, perché.
 
L’emigrazione rappresenta un mutamento catastrofico dell’esistenza imposto da una costrizione acuta, impellente, ineludibile. La decisione di emigrare può essere percepita come volontaria o subita come esilio, bando, proscrizione; non sempre è rivelatrice dell’intenzionalità dell’essere. Generalmente l’atto migratorio è una conseguenza di circostanze storiche e naturali necessitative: fame, povertà, clima inospitale, guerre, catastrofi naturali, persecuzioni etniche, religiose, ma anche per studio, apprendimento, formazione. In nessun caso il turismo, l’esplorazione avventurosa, il diporto, si possono confondere con l’emigrazione.
Come evento traumatico, l’atto del migrare, è degno d’indagine psicologica. Come rischio dell’esistenza, passibile di viraggi psichiatrici, è degno d’indagine psicopatologica. Come entità demografica, ha profonde implicazioni sull’intero assetto mondiale (economico, sociale, politico). Di Paul Kennedy abbiamo già detto all’inizio. Ma che le migrazioni transnazionali di massa siano il pericoloso detonatore futuro dell’implosione dell’umanità è tutto da dimostrare e, in ogni caso, si tratta di un fenomeno ricorrente dalla comparsa dell’uomo sulla terra, con cui bisogna abituarsi a convivere, come ha sempre fatto l’umanità che ci ha preceduto. Ciò che, invece, rassicura, tra tanti presagi di sventura, è il messaggio di speranza alle nuove generazioni, invitate a fare squadra, con un “allenatore” esperto, nella dimensione ludica della contesa e dell’emulazione.
La migrazione non è soltanto una vicenda personale, ma anche un fenomeno collettivo, storicamente ricorrente, destinato a mutare profondamente gli equilibri demografici mondiali e perfino la morfologia fisica rispettivamente delle terre dell’esodo e di quelle d’approdo. Il risultato più evidente è quello d’impoverire le nazioni donatrici ed arricchire quelle ospiti.
La migrazione è la storia del lavoro altrui, dice Carlo Levi. Gli italiani hanno faticosamente scritto questa doppia storia che ha inciso profonde ferite sulla loro terra. «Gagliano ha milleduecento abitanti, in America ci sono duemila gaglianesi» – osserva Levi e più oltre – «Dopo il ‘29, l’anno della disgrazia, ben pochi sono tornati da New York, e ben pochi ci sono andati. I paesi di Lucania, mezzi di qua e mezzi di là dal mare, sono rimasti spezzati in due» [018].
A volte sembra che coloro che restano, dell’emigrazione, siano morti, nel senso che non contano nulla pur vivendo. Nondimeno, quelli che la migrazione rende orfani, lascia dietro – famiglie amputate e offese, personaggi muti e dolenti – i superstiti, insomma, hanno un peso rilevante poiché recano rimorsi. Questi defunti invisibili dei resti della migrazione, possono colpire gli esuli dando voce alle loro nostalgie. Chi sono? Sono spose bianche, vestali senza culto, uomini disabili, vecchi abbandonati, figli ricusati: tutti testimoniano l’assenza, giustificano l’attesa, danno senso alla speranza. Tutto è sospeso, privo di vita, come morto, perfino i luoghi.
A volte, nella storia migratoria italiana, è possibile leggere una nemesi. Qualche tempo fa le case di Badolato, un paesino in provincia di Catanzaro, completamente abbandonate dall’emigrazione, vennero messe all’incanto. L’asta andò deserta. Oggi sono abitate da immigrati mediorientali approdati fortunosamente sulle spiagge ioniche della Calabria dopo viaggi rischiosi pagati a caro prezzo. Cambiano le rotte e i protagonisti delle migrazioni, non l’essenza del fenomeno.
 
 
(9) Comprendere una “malattia” atipica ad etiologia incerta.
 
Per tentare di comprendere se esista realmente una relazione tra migrazione e disturbo mentale, come s’era ipotizzato intorno alla metà del XX secolo, bisogna prima di tutto rispondere a due interrogativi: perché ci si ammala e come ci si ammala. Naturalmente sullo sfondo resta la domanda pregiudiziale perché si emigra, che abbiamo già introdotto nella categoria dei bisogni essenziali.
Naturalmente non sempre il disagio del migrante si configura come disturbo mentale, ma come semplice estraneità (o incomunicabilità), quella quasi surreale di vivere altrove e altrimenti in un ambiente non familiare, indifferente, sovente percepito come diffidente o decisamente ostile. La letteratura della migrazione, (quella non psichiatrica, non psicopatologica, comunque non specializzata), conosce molto bene il problema e da lungo tempo lo tratta e ne scrive diffusamente.
Il disagio psichico del migrante può intervenire anche nelle situazioni più favorevoli, dunque non esclusivamente nella migrazione povera e illetterata. Ci piace citare in proposito un libro di Marisa Fenoglio [019], praticamente un diario, dove l’autrice descrive il suo sradicamento, seppure avvenuto in una condizione privilegiata, poiché era andata a vivere in Germania a seguito del marito imprenditore. Una migrazione da “intellettuale”, come altrove abbiamo definito talune condizioni migratorie più vantaggiose [020].
«Ma esiste una emigrazione facile? – Si domanda la Fenoglio – Nessun emigrato conosce alla partenza la portata del suo passo, il suo sarà un cammino solitario, incontrerà difficoltà che nessuno gli ha predetto, dolori e tristezze che pochi condivideranno» – e oltre – «L’emigrazione gli mostrerà sempre la sua vera faccia, il peso immane del destino individuale, il prezzo da pagare in termini di rinunce, nonostante i vantaggi materiali … E non riuscirà più a tornare quello di prima».
C’è lo spaesamento, infatti, la decontestualizzazione di chi non può riconoscersi, né specchiarsi nell’altro, che gli è straniero, sconosciuto, non familiare, come appare efficacemente fin dall’incipit nel testo della Fenoglio «Andavo per le strade e non c’era nessuno che mi salutasse, che mi sorridesse, che avesse conosciuto mio padre o mia madre. Potevo anche inventarmi una nuova identità e nessuno se ne sarebbe accorto».
Nondimeno, conoscere il perché del malessere migratorio è molto difficile. Bisognerebbe cercare di rispondere prima alla domanda implicita che, come già detto, è la più importante: perché si emigra? Non è che raddoppiando il numero delle domande tutto diventi immediatamente più chiaro. Spesso, però, si riesce ad intuire la costrizione di cacciarsi in una situazione di vita imposta da fattori esterni: la necessità materiale, per esempio.
In generale si parla di “rischio psichiatrico del migrante”, ma nessuno è in grado di dire in cosa veramente consista. È possibile che il “rischio psichiatrico” insito in tutte le situazioni d’indigenza, preceda addirittura il fatto migratorio. Comunque è sufficientemente dimostrato che il migrante parte in perfetta salute (prerequisito dell’emigrazione), per cui le probabilità di ammalarsi dovrebbero essere pressoché le medesime di coloro che restano. In ogni caso, va dato atto che il “trapianto” è in se stesso un rischio (come possono esserlo tutte le life events dei sedentari), con l’aggiunta di qualcosa in più che è peculiare della migrazione: lo strappo delle radici antropologiche dal luogo di provenienza  [021].
Ben diversamente stanno le cose dal punto di vista del “rischio somatico”. Si tratta di rischio effettivo, specifico, concreto. È statisticamente provato che gli immigrati subiscono infortuni di natura fisica, più o meno gravi, perché hanno minori tutele degli autoctoni [022].
Dunque, il perché è più importante del come, e scarsa rilevanza assumono tutte le congetture sulla “natura patologica”, sulla “tara degenerativa” attribuita, in passato, a chi emigrava. Per converso cadono anche tutte le considerazioni opposte (elogiative): la “personalità” ardimentosa, la “predisposizione” intraprendente del migrante. Pare proprio che la necessità materiale sia la causa principale delle migrazioni: una causa economica, dunque. Questo ci spiegherebbe perché nell’espatriare, il migrante si esponga a così grandi rischi. Ciò porterebbe anche ad escludere ipotesi di altra natura, ossia psichiatriche, sociologiche, selettive, ecc. Le ipotesi vengono sempre dopo gli eventi e spesso li occultano anziché spiegarli. Alludiamo a quelle antiche e recenti, che per molto tempo ci hanno distratto dalla natura primaria della migrazione, sana o malata che fosse. Naturalmente, stiamo parlando di migrazioni di lavoro salariato e non di migrazioni di lavoro intellettuale, che sono tutt’altra cosa.
S’è già detto che la letteratura psicosociale e sociopsichiatrica ma anche la narrativa delle migrazioni, negli ultimi quarant’anni, ha fornito numerosi quadri di lettura sul come ci si ammala, ma lo ha fatto in maniera settoriale e disomogenea, a scapito di una comprensione uniforme del fenomeno. Oggi si avverte la necessità, almeno dal punto di vista psicopatologico, di ridefinire tutta la materia secondo un ordito nosologico per grandi trame ispirate alla descrizione daseinsanalitica, fenomenologica e antropologica. Sulla base della nostra esperienza, pensiamo che si possano prospettare alcune situatività psichiatriche della migrazione (almeno sei), corrispondenti ad altrettante tipologie di reazioni cliniche, secondo un ordine di gravità crescente [023].
 
Note al testo (parte prima)
[01]. Era il 7 agosto del 1991. La nave Vlora registra un episodio di fuga in massa di giovani albanesi senza precedenti. Nel “Paese delle Aquile” regna grande incertezza.  È un momento di grande confusione politica. Enver Hoxha, già malandato, viene fulminato da un ictus alle prime ore dell'11 aprile 1985. Gli succede Ramiz Alia (1924+2011), il suo vice, dal 1985 al 1991, ma la fine del comunismo albanese è prossima. Vien fatta risalire alle manifestazioni studentesche del dicembre 1990. Le elezioni del marzo 1991 confermano Alia, ma gli scioperi e le opposizioni popolari testimoniano che non ha più potere. Ebbene, la Vlora, inaspettatamente presentasi alle brume dell’alba del 7 agosto 1991 a Brindisi col suo carico brulicante all’inverosimile di giovani albanesi festanti, immediatamente dirottata su Bari, può essere registrata come la più colossale icona di tutto il negativo che è stato attribuito all’immigrazione in Italia degli ultimi trent’anni. I pensieri che suggeriscono le immagini di repertorio del film di Daniele Vicari, si possono generalizzare al mondo migratorio di sempre. Vanno dal terrore biblico di un flagello divino, al terrore d’invasione da parte di alieni, al sovvertimento d’ogni regola. Non credo che il regista e, tanto meno i personaggi/interpreti, malgrado tutte le buone intenzioni, siano riusciti a modificare di molto gli stereotipi tutt’ora correnti in Italia: “cosa vogliono”, “da dove vengono”. “chi li porta”, “chi li conosce”, “chi l’ha chiesti”, “son pericolosi”, “c’invadono”, “che s’aspetta a ricacciarli a casa loro?”
[02]. Paul Kennedy. Verso il XXI secolo. Garzanti, Milano, 1993. L’autore inglese, storico, economista, saggista, sostiene questa tesi in un suo libro uscito da Garzanti.
[03]. Sergio Mellina. Medici e sciamani, fratelli separati.  Arte del curare tra cielo e terra: Etnomedicina, Etnopsichiatria, Antropologia della salute. Lombardo Editore, Roma, 1997, p. 68.
[04]. Sergio Mellina. Psichiatria e psicologia transculturale. Percorsi tra colonizzazioni, conflitti bellici e migrazioni. Capitolo 3 (pp. 31-56). Id. Accoglienza e ospitalità nell’esperienza migratoria. Aspetti fenomenologici. Capitolo 45 (pp. 509-521). Id. Padri fondatori della psichiatria transculturale: Ernesto de Martino, Georges Devereux, Michele Risso. Cammei (pp. 589-606). In: Pietro Bria, Emanuele Caroppo, Patrizia Brogna, Mariantonietta Colimberti. “Trattato italiano di psichiatria culturale e delle migrazioni”. Editore: SEU, Roma, 2010.
[05]. Mellina, Medici e sciamani, cit., p. 134.
[06].  Ibid., 135 e infra.
[07]. Tobie Nathan. La follia degli altri. Saggi di etnopsichiatria, a cura di Mariella Pandolfi. Ed. Ponte alle Grazie, Firenze, 1990, p. 31.
[08]. Mellina, Medici e sciamani, cit., pagina 41.
[09]. Cfr. Salvatore Francesco Inglese. Etnopsichiatria e creolizzazione delle culture tra globalizzazione e resistenze. Conferenza tenuta nella Sede del Dipartimento di Salute Mentale dell'Azienda Sanitaria Locale B di Roma, in via di Torrespaccata 157, nell’ambito di un Corso biennale inter-USL (anni 1995 - 1996) intitolato "Capire il disturbo mentale della persona immigrata", col sottotitolo "Osservazione di un fenomeno emergente attraverso modelli teorici, istituzionali, operativi".
[010]. Mellina, Medici e sciamani… cit., p. 42
[011]. Ibid., Medici e sciamani… cit., p. 73 e infra.
[012]. Sergio Mellina. La nostalgia nella valigia. Marsilio, Venezia, 1987. Id. Psicopatologia dei migranti. Lombardo, Roma, 1992.
[013]. Definizione OMS del 1948. Dichiarazione di Alma-Ata (Kazakhstan) 6-12 settembre 1978 sull’importanza della prevenzione e sull’assistenza sanitaria di base [Primary Health Care (PHC)]. Documento OMS del 1984 sulla promozione della salute per la “Carta di Ottawa” (Canada) 21 novembre 1986.
[014]. Clara Gallini. Stereotipi etnici nella cultura popolare e di massa. Corso biennale Regione Lazio "Capire il disturbo...",  cit. Lezione magistrale del 7.11.1995.
[015]. Piero Coppo. Etnopsichiatria e creolizzazione delle culture. Tra globalizzazione e resistenze. Corso biennale Regione Lazio "Capire il disturbo...". Cit. Tavola rotonda del 15.12.95. Può essere utile consultare dello stesso Autore, Interprétation des maladies et leur classification dans la médecine traditionnelle. Dogon (Mali). "Psychopathologie Africaine", 26, 1, 33-60, 1994.
[016]. Mellina, Medici e sciamani, cit. Introduzione p. 8 e infra.
[017]. Cfr. Sergio Mellina, Chiara Mellina. Le risposte dei servizi di salute mentale rispetto all’immigrazione. Aspetti storici, fenomenologici e sociali. In: Pietro Bria, Emanuele Caroppo. “Salute mentale, migrazione e pluralismo culturale”. Prefazione di Cristina De Luca. Alpes, Roma, 2008 (pp. 155-191).
[018]. Carlo Levi. Cristo si è fèrmato a Eboli (XXI ristampa). Oscar Mondadori Narrativa, Milano, 1985, p. 108 e passim.
[019]. Marisa Fenoglio. Vivere altrove. Sellerio, Palermo 1997.
[020]. Cfr. Chiara Mellina. Gli intellettuali nell’area migratoria, in “Medici e sciamani”, cit., pp. 279-293.
[021]. Cfr. Lèon e Rebeca Grinberg. Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio (trad. Angiolina Zucconi). Franco Angeli, Milano, 1990. Si vedano in particolare i capitoli ”L’emigrazione come esperienza traumatica e di crisi”, pp. 25-29; “Chi emigra?”, pp. 30-37; “Partire?”, pp. 68-75.
[022]. Umberto Accettella, della Cattedra di Chirurgia d’Urgenza dell’Università di Roma “La Sapienza”, riferisce il 18% di interventi di pronto soccorso in immigrati. Atti del II Congresso internazionale “Medicina e migrazione”, organizzato da Luigi Frighi a Roma dall’11 al 13 luglio 1990.
[023]. Cfr Sergio Mellina. Psicopatologia dei Migranti. Lombardo, Roma, 1992, pp. 115-120.
[024]. La nave dolce, Italia Albania, 2012, colore, durata 90’, con Eva Karafili, Agron Sula, Halim Milaqi, Kledi Kadiu, Robert Budina, Eduart Cota, Alia Ervis, Ali Margjeka, Giuseppe Belviso, Nicola Montano, Domenico Stea, Fortunata Dell'Orzo, Luca Turi, Raffaele Nigro, Maria Brescia, Luigi Roca, Vito Leccese - Produzione: Indigo Film, Ska-ndal Production; in collaborazione con Rai Cinema, Telenorba. Regia: Daniele Vicari
[025]. Il 30 aprile 1993, una folla inferocita aspetta Bettino Craxi all’uscita dell'Hotel Raphaël, la sua residenza romana. Il sorriso beffardo del primo ministro che si fa sulla soglia, è smorzato da una pioggia di spiccioli che gli vengono scagliati contro. Grande metafora della pancia di una grande nazione che spesso dimentica di avere memoria e cervello ma solo intestini. Cfr. Franz Krauspenhaar. Le monetine del Raphaël. Gaffi Editore, Roma, 2012.
[026]. “Il medium è il messaggio”, cfr. Gli strumenti del comunicare, di Marshall McLuhan, Il Saggiatore, Milano, 1967.
[027]. Franco Foschi, in Sergio Mellina. Medici e sciamani, cit., p. 134.

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