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Vedere gli alberi, non vedere il bosco

20 Ott 18

A cura di antonello.sciacchi16

 Il modo di dire non è italiano ma tedesco. L’ho imparato alle elementari dalle Schwestern dell’Istituto Giulia di Milano. Freud doveva certamente conoscere den Wald vor lauter Bäumen nicht sehen. [1] Tuttavia nelle Sigmund Freud gesammelte Werke il detto non ricorre. La cosa non mi stupisce ma mi fa problema: è il problema di Freud con il collettivo.

La lunga frequentazione dei suoi testi, studiati sull’originale, mi ha convinto di un tratto della psicologia del soggetto Freud: la ritrosia a trattare in modo scientifico la dimensione collettiva dei fenomeni psichici, a prescindere dai riferimenti letterari e mitologici, che sono superiori; valga per tutti il romanzo L’uomo Mosè e il monoteismo. Se tenta di farne la teoria scientifica, però, il risultato è poca cosa; è la Massenpsychologie o psicologia delle masse, una psicologia collettiva solo di nome; di fatto è una psicologia individuale: tanti individui isolati e non interagenti tra loro, ciascuno identificato al Führer, insediato come oggetto d’amore nell’Ideale dell’Io di ciascuno. Nella massa freudiana, modellata su esercito e Chiesa, funziona la stessa psicologia dell’individuo, alimentata dalla stessa energia libidica, distribuita su tre passioni elementari: amore, odio e ignoranza (Eros, Tanatos e non volerne sapere). Freud vede gli individui come alberi; non vede il bosco. Nel freudismo il soggetto collettivo di cui tratta questa rubrica non esiste.

In proposito devo dire che molte delle motivazioni che mi spingono a sfruttare l’ospitalità di Psychiatry on linee a tenere una rubrica sul soggetto collettivo ruotano intorno a un interrogativo che da tempo mi assilla: perché mai un ebreo, appartenente al popolo eletto da Dio, abbia trascurato l’analisi della dimensione “popolare” dei fenomeni psichici. [2] Quando scrisse Il disagio nella civiltà, Freud manifestò il proprio disagio a trattare la civiltà come tale. Noto in Freud un’inibizione – già strutturata come resistenza – difronte al collettivo, che in un certo senso va di pari passo alla sua ritrosia a trattare la clinica della delinquenza o della follia, ossia la patologia della vita collettiva.

L’argomento è scabroso. Mi limito a una considerazione generale, suggeritami proprio dal modo di dire tedesco. Il bosco è una congettura scientifica, per la precisione meccanicistica, perché tratta l’interazione di più elementi – gli alberi – ed è falsificabile. Il bosco non è un albero tra gli alberi; non è una cosa tra le cose. Logicamente parlando il bosco è una generalizzazione in estensione dell’albero; concretamente è un insieme di elementi, quindi, se esiste, ha un’esistenza diversa dai suoi elementi. Quale? Come si determina l’esistenza del bosco? Si determina come l’esistenza di qualunque insieme di viventi: con l’ecologia. Il bosco esiste se esistono delle (quante? quali?) interazioni tra i suoi elementi e non solo gli elementi presi uno alla volta. Esistono tali interazioni? Sì, esistono e finché esistono il bosco esiste come unità viva fino a prova ecologica contraria. [3] Quali sono? Dovresti chiedermi quante sono, a cominciare dalle interazioni sessuali, per esempio, l’impollinazione delle piante da parte degli insetti. Negarlo sarebbe follia, parente del negazionismo del cambiamento climatico planetario. Quindi il bosco esiste “collettivamente”, non solo “individualmente”, perché i suoi elementi non sono isolati ma interagiscono tra loro, a volte in modo positivo, a volte negativo, mai nullo. È il clinamen degli atomi di Epicuro o delle operazioni algebriche che trasformano un insieme in un gruppo organico di simmetrie. L’ecologia della mente, secondo Bateson, è pensare le interazioni che esistono in ogni sistema ecologico reale o astratto. Ma di interazioni non si parla volentieri in psicoanalisi; se ne parla a volontà in psicologia sistemica.

Il problema del collettivo fu intavolato dai filosofi medioevali come problema degli universali. Stava nascendo la mentalità scientifica moderna. La scientificità antica era storicistica; trattava la verità delle singole individualità – degli alberi o degli eroi – e della loro evoluzione deterministica. La scientificità moderna tratta la verità di insiemi di elementi – dei boschi o delle popolazioni – che non sono cose singole ed evolvono in modo non deterministico. Le specie biologiche nascono, evolvono e si estinguono in modo imprevedibile. La transizione dall’antico al moderno – dagli alberi al bosco – è paradigmatica: passa dalla necessità alla contingenza, dal semplice al complesso, dal lineare al caotico. È una vera mutazione di paradigma nel senso di Kuhn.

Tornando alla dimensione individuale, trascurare il collettivo non è senza conseguenze sulla clinica psicoanalitica. In effetti, le considerazioni di questo post mi sono suggerite dalla Lezione XXVIIsul transfert, dove Freud formula un inconsueto paragone per spiegarne la natura, esasperando l’aspetto individualistico a scapito del collettivo, dell’albero a prescindere dal bosco. Spero di riuscire a far vedere come il transfert della cura individuale si radichi necessariamente nel collettivo, cioè nel bosco. Il controtransfert non di meno.

In quella lezione Freud scrive:“Il transfert diventa così paragonabile allo strato dell’albero fra legno e corteccia denominato ‘cambio’, dal quale deriva la neoformazione di tessuti e l’aumento di spessore del tronco”. [4] Il valore della metafora sta nell’aprire una prospettiva interpretativa del transfert diversa dalla riedizione di eventi traumatici del passato. Alla diacronia della ripetizione la metafora del “cambio”, che non cambia ma si rinnova, sostituisce la sincronia dell’atto e apre una prospettiva scientifica moderna.

Sorge spontanea la domanda: se il transfert si situa tra legno e corteccia, dove va a finire il controtransfert? Se l’analizzante è il legno che continua a produrre nuova ma qualitativamente identica nevrosi, allora la corteccia è l’analista che la limita e la contiene? In questa metafora non c’è posto per il controtransfert dell’analista. Addirittura, la corteccia funziona da isolante rispetto all’esterno. La supposta neutralità dell’analista sarebbe la corteccia che separa l’analizzante dal mondo esterno e dovrebbe favorire l’emergere nel setting del mondo psichico interno.

Per ragioni topologiche non distinguo tra interno e esterno; infatti sono nozioni topologicamente equivalenti. Le successioni di poligoni inscritti (interni) e circoscritti (esterni) alla circonferenza sono topologicamente equivalenti; convergono alla stessa circonferenza, come sapeva già Euclide. [5] La vera differenza topologica la fa la frontiera (o bordo). Mi spiego.

In topologia si dice che un punto è interno a un insieme se l’insieme contiene un intorno di quel punto. (Si ricordi: intorno interno); un punto è esterno se è interno all’insieme complementare, se esiste. Interno ed esterno sono sempre interni. La frontiera (o bordo) di un insieme è diversa; non ha punti interni, perché tutti gli intorni dei suoi punti escono dalla frontiera e intersecano sia l’insieme sia il complementare. I punti interni caratterizzano gli aperti come insiemi formati solo da punti interni; perciò gli aperti sono intorni dei loro punti. Simmetricamente, i chiusi sono insiemi che contengono la frontiera. Per esempio, un intervallo di punti della retta reale se è senza estremi è aperto, se è con gli estremi è chiuso; la superficie sferica è la frontiera della sfera solida. Ogni frontiera è chiusa, contenendo sé stessa.

Termino i riferimenti topologici con due definizioni, che userò in seguito. Un insieme si dice raro se la sua chiusura, cioè l’intersezione di tutti i chiusi che lo contengono, non ha punti interni. Poiché la chiusura di un chiuso è chiusa, la frontiera è un insieme raro. Un insieme si dice magro se è l’unione numerabile di insiemi rari. Se a sua volta anche l’insieme magro non ha punti interni, siamo di fronte a un insieme di Baire.

A questo punto adotto gli insiemi magri come modello topologico del soggetto del desiderio non solo individuale ma anche collettivo, formato com’è da più componenti o bordi, variamente intrecciati; tale soggetto è “vuoto dentro”; è formato da involucri che non hanno nulla dentro di sé (sono un po’ anoressici), ma si “avvolgono” attorno all’oggetto, che sta fuori/dentro e comunque non appartiene loro. Ne hanno intuito qualcosa in filosofia Deleuze attraverso il rizoma, in psicoanalisi Anzieu con la nozione di Io-pelle,[6]declinata tuttavia in modo individualistico, sviluppando l’analogia tra biologia e psicologia: come la pelle anatomica avvolge e protegge il corpo somatico così la pelle psichica avvolge e protegge il corpo psichico; ne coordina e integra le funzioni.

Sostenuta dalla nozione di intorno, la topologia va intesa come scienza della vicinanza locale. Ultimamente essa elabora fantasmi originari di contatto con la madre, [7] che rimane sempre alla frontiera del soggetto, senza che questi possa mai rientrarvi. [8] L’Edipo prima che mitologia è topologia; la sincronia topologica precede la diacronia narrativa del romanzo familiare o, cartesianamente parlando, il sapere (cogito) anticipa l’essere (sum).

Chi nel movimento psicoanalitico, a differenza di Freud e in parte in opposizione a lui, fece discorsi intorno alla frontiera (e di frontiera), in particolare sulla frontiera dell’Io e sul narcisismo primario, fu Paul Federn. [9] La frontiera dell’Io, ben prima della coscienza, conferisce all’Io il senso unitario dell’esperienza vissuta che, pur variando nel tempo, perdura nella sua integrità lungo tutte le vicissitudini soggettive. La frontiera dell’Io separa due realtà; [10] come la superficie di una sfera o di un toro separa uno spazio interno e uno spazio esterno alla superficie, così essa separa la realtà interna, o psichica, dalla realtà esterna, o oggettiva.

Confuse nel processo primario, le due realtà cominciano a differenziarsi nel processo secondario che, grazie al linguaggio, opera condensazioni e spostamenti, selezioni e combinazioni, metafore e metonimie, stabilendo frontiere tra le varie istanze psichiche. Non entro nei dettagli della teoria di Federn nei suoi incerti rapporti con il freudismo. Preciso solo che il sentimento dell’Io, rappresentanza psichica dell’esistenza della frontiera dell’Io, non è propriamente l’autocoscienza, ma il sentimento di identità, che nella psicosi può andare compromesso. Aggiungo, perché rientra nel mio tema, che la psicologia di Federn è una topologia. Prevede infatti il contatto tra frontiere dell’Io; lì nasce l’affetto che non è mai solo individuale ma è originariamente un’interazione collettiva, come del resto già sapeva Spinoza e come sa chiunque abbia esperienza clinica di follia, dove l’affettività si riduce per ridotta frontiera dell’Io e quindi per minori possibilità di contatto con altri Io (autismo).

Prima di passare oltre mi preme riconoscere e fissare una simmetria tra Freud e Federn, che illumina il tema del soggetto collettivo in psicoanalisi. Come fa notare Edoardo Weiss, Freud “non era scevro da reazioni negative verso quei malati che rivelavano tendenze antisociali o criminali e manifestava apertamente queste sue reazioni nelle disamine che teneva con me su alcuni dei miei pazienti”. Poco oltre Weiss aggiunge che Freud “non indagò molto profondamente le alterazioni dell’Io nelle psicosi”.[11] Si pone allora la questione, nel caso di Freud non solo esegetica: c’è correlazione tra non voler sapere della follia e trascurare la dimensione collettiva del soggetto?

Per contro Federn si dedicò profondamente allo studio delle alterazioni dell’Io. Le nozioni di frontiera dell’Io e di senso dell’Io, indeboliti di investimento libidico nelle psicosi, sono essenziali per comprendere la psicologia dei collettivi, che nascono dai contatti tra frontiere dei singoli Io. In modo simmetrico l’Io collettivo si rinforza e si estende, tanto quanto è indebolito nella follia, negli attuali populismi e sovranismi, che imperversano in tutto il pianeta. Ricordo che Paul Federn ha scritto una Psychoanalysis as a Therapy of Society. [12] Insomma, chiudere gli occhi sulla follia, volere tenerli aperti solo sulla nevrosi, come fece Freud, porta a scotomizzare il soggetto collettivo.

Le idee di Federn alimentarono i filoni di ricerca della psicologia del Sé e della Gestalt, dando loro maggiore concretezza psicologica. Chi le sviluppò in modo originale fu un altro psicoanalista ebreo poco ortodosso, Paul Schilder, che nel 1935 propose la nozione di immagine del corpo (Body-image), specificandone fisiologia, struttura libidica e funzione sociale. [13]

Per completezza ricordo il lavoro della Dolto [14] che distingue tra schema corporeo neurologico e immagine psichica del corpo. In ambito lacaniano non va dimenticato Lacan che con il suo modello ottico del vaso di fiori capovolto intuì qualcosa della presenza-assenza dell’immagine del corpo nella struttura del soggetto. Davanti allo specchio, dove non vede sé stesso, il soggetto vede l’immagine di un vaso che non vede, il quale sembra contenere quel mazzo di fiori reali che il soggetto vede. Come gli alberi del bosco, i fiori non sono solo fiori, sono fiori contenuti in un bosco, ops! in un vaso, che però non sta fisicamente tra di loro (il vaso non è un fiore come il bosco non è un albero). [15] Più interessante dal punto di vista topologico è il modello lacaniano della catena borromea, dove gli anelli non si concatenano due a due, ma stanno insieme globalmente, tanto che se viene meno un “albero” tutto il “bosco” perisce.

Sarà per le loro ascendenze freudiane gli autori citati, a eccezione di Schilder, diedero scarso rilievo alla dimensione collettiva dell’immagine del corpo. Anzieu parlava di “illusione gruppale che fonde le menti dei membri di un gruppo in una psiche comune”. [16] Invece Schilder, che migrò in America perché ebreo, diede origine alla psicoanalisi di gruppo; dedicò la terza parte del libro citato alla sociologia dell’immagine del corpo. Scrisse un capitolo curioso sulla fobia di arrossire in pubblico come esempio paradigmatico di nevrosi sociale. [17] Il gioco delle imitazioni sociali dentro o fuori i mass media è un gioco di immagini corporee che si compongono e decompongono, si fanno e si disfano in tutti e davanti a tutti. L’immaginario non è solo duale e speculare, è anche collettivo. Il punto critico è che non vale il viceversa: il collettivo non è solo immaginario; contiene del reale che è un mix di realtà psichica e oggettiva, come mostrano in modo esemplare i deliri paranoici. La topologia può smuovere l’indifferenza dei freudiani per il collettivo?

In parte.

Il mio contributo, mira a transitare dalla topologia alla psicoanalisi, considerando l’immagine del corpo come frontiera tra l’Io del soggetto e l’Io degli altri.
Sopra ho parlato di insiemi magri e di Baire. Riprendo il discorso considerandoli modelli rizomatici del soggetto collettivo. C’è un teorema, dovuto appunto a Baire, che potrebbe interessare lo psicoanalista, che si interessasse a teoremi. Tra gli spazi di Baire se ne trovano di quelli con due caratteristiche pertinenti al discorso sul collettivo:

1. sono separati e localmente compatti;
2. sono metrici e completi.

Ecco le definizioni (per chi interessano).
Spazio separato, o di Hausdorff, significa che, dati due punti, esistono due intorni, uno dell’uno, l’altro dell’altro, che non si intersecano. Gli spazi separati non sono massificati. Hanno intorni abbastanza piccoli da vedere i singoli punti.
Spazio localmente compatto significa che ogni punto ha un intorno compatto. Compattosignifica che da ogni ricoprimento, eventualmente infinito, si può estrarre un sottoricoprimento finito. In senso metrico un insieme compatto è chiuso e limitato. Se c’è qualcosa di infinito, lo si può impacchettare nel finito. La compattezza “addomestica” l’infinito.
Spazio metrico significa che si può calcolare la distanza tra punti; uno spazio metrico è separato.
Spazio completo significa che ogni successione di Cauchy converge a un certo limite, cioè i suoi termini si avvicinano quanto si vuole al limite. Una successione è di Cauchy se da un certo termine in poi le differenze dei suoi termini tendono a zero. Insomma, in uno spazio completo le successioni di Cauchy consentono un calcolo approssimato ma preciso quanto si vuole del limite.

Ce n’è abbastanza per abbozzare una psicologia collettiva?

Abbastanza, nel senso che le condizioni sono necessarie ma chiaramente insufficienti. Occorre sì che gli individui non si confondano l’uno con l’altro, cioè siano separati; che ogni individuo interagisca nel suo piccolo con un numero finito di individui diversi; che si possano fare calcoli, previsioni, progetti validi per molti individui con una certa approssimazione; ma ci vuol altro.

Bene, gli individui freudiani sono separati, addirittura isolati. [18] Ma le altre condizioni topologiche per loro non valgono. Non interagiscono tra loro; sono collettivamente morti, non interagendo l’uno con l’altro; [19] non si possono formulare considerazioni valide per più individui, diverse dall’identificazione al Führer, uguale per tutti; le uniche successioni di Cauchy sono le successioni costanti:Führer, Führer, Führer, …[20] Per Freud è inconcepibile una rete diffusa di interazioni transindividuali, la cosiddetta interconnessione, quale è oggi quella del Web. Oggi essere freudiani vuol anche dire fare i conti con la tara solipsistica del freudismo. [21]
La topologia risponde in parte alla domanda che mi assilla: perché Freud non trattò il collettivo? Freud non potevainventare una psicologia collettiva perché non aveva la topologia giusta. Ma perché non l’aveva? Forse perché non dovevapensare a una vera psicologia collettiva? Perché non si accorse che la psicologia collettiva da lui concepita in formato individualistico era proprio quella nazista che intendeva combattere, perché nemica del suo popolo?

Non ho la risposta sicura. Mi viene in parziale soccorso Mauro Bertani che tratta l’argomento nell’ultimo numero 379 di “aut aut”, intitolato “Il Freud che abbiamo rimosso”. [22] La tesi storicamente convincente di Bertani è che Freud dovette inventare la psicoanalisi per contrastare l’antisemitismo montante con il nazismo. Il popolo ebreo era minacciato. Freud tentò di salvare l’individuo ebreo, dotandolo di un inconscio che non si riducesse a nessuna forma che nei secoli ha assunto la coscienza civile, neppure alla forma ebraica del popolo eletto. Si precluse così ogni possibilità di fare una politica comune della (per la) psicoanalisi all’interno del movimento psicoanalitico.

Ma questa spiegazione vale anche per i freudiani di oggi? Chi mai li perseguiterebbe? Perché non formano popolo gli analisti e gli analizzanti, ma si disperdono in tante piccole scuole che non interagiscono tra loro?

Attendo lumi; smarrito come sono, trovo solo alberi; non mi sono perso nel bosco, ho perso il bosco. Cosa direbbero oggi le mie Schwestern?

Il lume che attendo è importante anche per la clinica individuale. Se l’immagine del corpo fa parte dell’immagine del corpo sociale, i fenomeni di transfert collettivo si vedranno anche nella clinica analitica individuale. Il setting freudiano non è chiuso ma aperto; non ha frontiere. Analista e analizzante non sono isolati; non sono morti come prevede Massenpsychologie. Sono immersi in “un sapere nel reale”, come dicevo nel precedente post; [23] è un sapere dato in estensione nel collettivo, contrapposto al sapere dato in intensione nell’individuo. È nelle stesse acque epistemiche che i due protagonisti della vicenda analitica nuotano e talvolta affogano. Il transfert non è mai un segmento orientato dal passato al presente (o viceversa), dall’analizzante all’analista (o viceversa), ma è sempre un poligono, per lo meno un triangolo, i cui lati escono dalla stanza d’analisi e che vanno analizzati come tali, come tutte le formazioni dell’inconscio: i sogni, i lapsus, i falsi ricordi, i sintomi. Nella fattispecie, il legame sociale che si stabilisce tra gli allievi della stessa scuola di psicoanalisi è materiato di un transfert esterno collettivo che si sovrappone all’interno della seduta individuale. Ma tra interno ed esterno c’è poca differenza, insegna la topologia; anzi c’è osmosi, come tra transfert e controtransfert, insegna la clinica analitica.

Un grande matematico del secolo scorso, Marshall Stone, che passò la vita a generalizzare teoremi di altri (Weierstrass, von Neumann, Cech…), consigliava: “Topologizza sempre”. Topologizzare è generalizzare, cioè fare scienza. Se così posso dire, la psicologia freudiana delle masse non generalizza; si limita alla banale identificazione (religiosa) di tutti all’uno, perché di topologia ne ha poca e inadeguata. La via regia per generalizzare passa per la topologia come la via regia per l’inconscio passa per l’interpretazione del sogno. Anche Freud lo sapeva quando elaborava le sue topiche. Procedendo alla cieca, tentava di vedere il bosco, cioè di generalizzare.



[1] Per evidenziare il riferimento gestaltista, che non ha mai attecchito in psicoanalisi, si potrebbe tradurre: “Vedere le tessere, non vedere il mosaico”.
[2] La questione si riacutizza in un allievo ebreo di Freud, Alfred Adler, fondatore della psicologia individuale. Chi parla di inconscio collettivo è Carl Gustav Jung, protestante, originariamente sin dai tempi di Lutero ostile agli ebrei.
[3] La tentazione di cedere al vitalismo è sempre presente. Il vitalismo è un discorso illusorio: la vita non viene prima degli elementi viventi; viene dopo come risultato delle loro interazioni.
[4] Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XII, p. 462. La traduzione della lezione si trova al link https://www.analisilaica.it/2018/05/20/freud-e-la-lezione-del-transfert/.
[5] Euclide, Elementi, libro XII, proposizione 2.
[6] D. Anzieu, L’Io-pelle(1985), trad.A. Verdolin e M. Sghirinzetti, Cortina, Milano 2017.
[7] Il termine topologico per dire contatto è aderenza, che indebolisce la nozione di appartenenza. Un punto aderisce a un insieme, pur non appartenendovi, se ogni suo intorno interseca l’insieme. Chi scrive questo post aderisce al freudismo, pur non appartenendo ad alcuna scuola freudiana.
[8] Il tema del contatto materno fu estesamente sviluppato da J. Bowlby nella trilogia: L’attaccamento alla madre, La separazione della madre, La perdita della madre. Il tema del contatto è accennato ma non sviluppato da Freud nel Progetto di una psicologiadel 1895, dove parla delle sinapsi neuronali come Kontaktschranken, “barriere di contatto”, termine contraddittorio che realizza il contatto nel momento in cui impedisce il flusso di materia da un elemento all’altro. (S. Freud, “Entwurf einer Psychologie” (1895 postumo, Progetto di una psicologia), in Sigmund Freud gesammelte WerkeNachtragsband, p. 391).
[9] La posizione di Federn nel movimento psicoanalitico è interessante come quella di chi non è ortodosso ma neppure eretico, cioè sta alla frontiera dell’ortodossia. Il testo di riferimento è la conferenza di Paul Federn a Innsbruck del 1° settembre 1927, pubblicata con il titolo “Narzissmus im Ichgefüge” (Il narcisismo nella struttura dell’Io), in Int. Z. Psychoanal. vol. XIII.4, pp. 420-438, 1927. Il termine che vi ricorre è “Körperich-Grenze” (confine dell’Io-corpo, inteso come Io somatico), di regola associato a “Körperich-Gefühle” (senso dell’Io-corpo), sua rappresentazione psichica. La traduzione italiana è nella raccolta di scritti curata da Edoardo Weiss: P. Federn, Psicosi e psicologia dell’Io(1952-56), trad. G. Bianchi, Boringhieri, Torino 1975, p. 46. Scelgo di sostituire “confine”, proposto da Weiss, con “frontiera” o “bordo”, usuali in topologia.
[10] Come il sottoscritto Federn non era realista. V. il post “Perché non sono realista”. http://www.psychiatryonline.it/node/7664.
[11] E. Weiss, Sigmund Freud come consulente (1970), trad. G. Guidi, Astrolabio, Roma 1971, p. 34.
[12] American Imago, vol. 1, 65-80, 1940.
[13] P. Schilder,The Image and Appearance of the Human Body.Studies in the Constructive Energies of the Psyche(1935), Routledge and Kegan, London1950. Riporto l’incipit: “The image of the human body means the picture of our own body which we form in our mind, that is to say the way in which the body appears to ourselves” (Ivi, p. 11). È chiaro l’approccio fenomenologico. Esiste un testo precedente in tedesco, citato da Federn nell’articolo riferito, P. Schilder, Das Körperschema. Ein Beitrag zur Lehre vom Bewusstsein des eigenen Körpers, Springer-Verlag, Berlin1923.
[14] F. Dolto, L’image inconsciente du corps, Seuil,Paris 1984.
[15] J. Lacan,“Remarque sur le rapport de Daniel Lagache: “Psychanalyse et structure de la personnalité” (1958, Osservazione sulla relazione di Daniel Lagache: “Psicoanalisi e struttura della personalità”), in Id., Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 675.
[16] D. Anzieu, Il pensare. Dall’Io-pelle all’Io-pensante (1994), Borla, Roma 1996, p. 178.
[17] P. Schilder, cit., p. 227.
[18] In topologia si dice che un punto è isolato se non aderisce all’insieme cui appartiene, cioè se esiste un suo intorno che non contiene punti dell’insieme. Intuitivamente, un punto isolato non ha punti vicini. Il freudismo ha una topologia totalmente disconnessa, fatta di punti isolati, le cui componenti connesse si riducono ai singoli punti.
[19] La sua Massenpsychologie esce un anno dopo il riconoscimento da parte di Freud della pulsione di morte.
[20] Nelle scuole di psicoanalisi da me attraversate la litania non era molto diversa: Lacan, Lacan, Lacan… Il maestro è un dittatore del sapere.
[21] Pur rimanendo, a suo dire, di confessione ebraica, Freud non aderì al movimento sionista.
[22] M. Bertani, “Sull’utilità della storia in psicoanalisi”, aut aut, 379, 2018, p. 18. Bertani mi scrive: “Mi chiedo se più che l’incapacità di pensare il collettivo in termini diversa da quelli che descrivi egregiamente sotto le specie dell'identificazione e fissazione iterative al Führer, non agisca la volontà/necessità di confrontarsi con quel che potremmo chiamare la totalizzazione dell’universale, la trasformazione di un insieme aperto in un sistema chiuso che Hegel, ad esempio, illustrerà nella definizione del Geistcome “Io che è Noi e Noi che è Io”, preludio dell’eticità incarnata dallo e nello Stato. Fondare in tal modo il Medesimo avrà come corollario, come sai meglio di me, l’espulsione/incorporazione (distruttiva) dell'Altro.”
[23] “Perché non sono realista” http://www.psychiatryonline.it/node/7664.

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