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NOTE INVERNALI SU 6 LETTURE ESTIVE. Ricci e Valent, Greco, Boido, Winchester, Benvenuto, Pezzoni e Buscaglia

11 Nov 18

A cura di chiclana

Il primo dei sei volumi letti quest’estate che vorrei qui segnalare è Quaderno rosso. Dialogo tra filosofi e psichiatri per curarsi della follia a cura di Alessandro Ricci e Graziano Valent (Moretti & Vitali, 2017) che rende conto di vent’anni di lavoro effettuato nel corso delle giornate di studio del gruppo di Orzinuovi e raccoglie testi di numerosi autori (Alessandro Ricci, Romano Màdera, Eugenio Borgna, Fulvio Marone, Emanuele Severino, Vieri Marzi, Umberto Galimberti, Sergio Piro, Salvatore Natoli, Ialo valent. Paolo Tranchina, Maria Grazia Giannichedda, Graziano Valent, Maria Rosa Tinti, Andrea Tagliapietra) e si interroga su alcuni temi centrali nel rapporto tra psichiatria e filosofia. Dal tempo al corpo, al dolore considerato nelle sue varie pieghe, alla parola, alla psicoterapia, l’alterità, la fondazione filosofica della realtà, e poi la relazione tra custodia e cura, i servizi, i luoghi e i modi del ricovero.  E soprattutto quello “stare nella contraddizione” e incessantemente interrogarsi che rappresenta – come Alessandro Ricci sottolinea nell’introduzione – il nucleo più scandaloso e caratterizzante (e forse più spesso scotomizzato e rimosso) del pensiero basagliano. E’ un libro davvero denso, importante, a tratti di non facilissima lettura, che meriterebbe senz’altro per le questioni che affronta e la competenza e profondità dei riferimenti una recensione e una discussione ben più ampie della segnalazione a cui devo limitarmi in questa sede. Probabilmente occorrerà quindi ritornarci.
Proseguiamo con i temi più strettamente legati alla psichiatria, questa volta nella sua relazione con la storia, con  I demoni del mezzogiorno. Follia, pregiudizio e marginalità nel manicomio di Girifalco (1881-1921) di Oscar Greco (Rubettino, 2018), con prefazione di Mary Gibson. Il tema centrale è la storia del manicomio calabrese di Girifalco, fondato dallo psichiatra genovese Dario Maragliano, ma rispetto a un altro testo, di natura soprattutto documentale, che mi era capitato di leggere su quell’istituzione anni fa (Domenico Marcello, Un secolo di manicomio: storia del manicomio di Girifalco, Catanzaro, Ursini) qui il respiro è decisamente più ampio e la vicenda del manicomio calabrese è inscritta con grande competenza all’interno di quella della psichiatria italiana e del meridione d’Italia nel quarantennio considerato, toccando tra l’altro diverse tematiche di storiografia psichiatrica particolarmente delicate. Così, la lettura di questo testo ha potuto soddisfare per me numerose curiosità su Girifalco, che aveva evocato la visione, in occasione di “180 x 40”, la serie di eventi con i quali Genova ha voluto celebrare il quarantennale della legge 180, del film-documentario “Uscirai sano” di Barbara Rosanò e Valentina Pellegrino (Italia, 2017). Tra i temi storici approfonditi con grande competenza nel libro di Oscar Greco segnalo così quelli relativi alla cultura degli psichiatri operanti a Girifalco, in particolare rispetto al rapporto tra la cultura psichiatrica del nascente manicomio e i pregiudizi degli psichiatri positivisti  – Lombroso in primis – verso il meridione negli anni del banditismo (valgano per tutti i casi del brigante Musolino e del soldato Misdea, sul quale Luigi Benevelli si è soffermato su questa rivista). L’altro tema è il contributo del manicomio di Girifalco, ad onta della distanza dal fronte, allo sforzo bellico della psichiatria italiana durante la Grande Guerra, un tema questo sul quale disponiamo ormai, grazie anche alle iniziative di  questo centenario, di studi relativi a numerose realtà asilari italiane tra i quali questo di Greco si va opportunamente e a pieno titolo a inserire.
Questi, dunque, due testi più propriamente riferiti alla psichiatria, ai suoi aspetti epistemologici, alla sua storia. Ma l’estate è anche tempo di vacanze ed è giusto che le letture spazino maggiormente, e proseguirò dunque con un saggio di carattere sociologico che mi ha decisamente intrigato, portandomi per mano in un mondo del quale non conoscevo prima l’esistenza.
A chi mi avesse chiesto: chi è Manuel Agnelli, che cos’è X Factor? Confesso che, prima di leggere Fenomenologia di Manuel Agnelli. Social e narrazione mitica ai tempi di  X Factor di Cristiana Boido (Dissensi, 2017) non avrei davvero saputo ché rispondere. Forse per X Factor sì, sapevo che era una trasmissione televisiva che aveva a che fare con la musica, ma non ne avevo mai visto neanche una scena. Quanto al primo, era davvero un perfetto sconosciuto; e ciò nonostante l’autrice si riferisca giustamente a lui, fin dal sottotitolo, in termini di “mito” moderno. Non che, ciononostante, non vivessi e respirassi come tutti, ma pare che si trattasse di due gravi lacune (forse anche un po’ snob), perché il primo ha un mondo di numerosissimi fan che parlano incessantemente di lui sui social, e la seconda è una trasmissione di grande successo. Ora so invece che Manuel Agnelli è il cantante degli Afterhours, un gruppo musicale della scena underground attuale tra i più importanti (e anch’esso, a me colpevolmente ignoto), che ha accettato di ergersi a giudice nella trasmissione televisiva X Factor, forse la più seguita nel campo del talent scout musicale. Il problema non è nuovo; giusto per spostarlo su un terreno che mi è più congeniale, ai miei tempi si poneva per i “colleghi cantautori eletta schiera che si vende alla sera” di gucciniana memoria, o per il rapporto complesso, ma sostanzialmente quasi del tutto anoressico direi, con le tette opulenti e dissetanti dell’industria culturale del Claudio Lolli di ”Autobiografia industriale”. Pare, e non posso che affidarmi in questo al parere dell’autrice che qui conduce una certosina e sterminata ricerca in un mondo di social anch’esso per me fino a poco tempo fa ignoto (e ancora oggi poco noto), che Manuel però sia stato particolarmente bravo. E’ riuscito a entrare nel sistema senza lasciarsi corrompere, con buona pace dei fan più rigidi e timorosi, e si è creato un personaggio, velato di tratti mitici e cavallereschi, di giudice duro e spietato ma giusto, tenebroso e sensuale, mitico e “istituzionale”, presuntuoso ma culturalmente e musicalmente impeccabile tanto da poterselo permettere, ecc.  Ma, vicende personali del sig. Agnelli a parte, direi proprio che la sensazione più sconvolgente che il libro mi ha trasmesso è quella dell’esistenza, qui e ora, di un mondo parallelo  di tali dimensioni – dove migliaia di persone discutono, giudicano, si appassionano, litigano, piangono, sono felici – la cui esistenza mi era ignota; e che avrei dovuto invece almeno lontanamente immaginare. Giusto perché, come scriveva Terenzio (e Marx insegnava alla sua bimba), nulla dell’umano deve esserci totalmente ignoto. E poi perché, per il mestiere che facciamo, se incontreremo qualcuno dei, pare non tanto rari, spettatori di X Factor o fan degli Afterhours, dovremo pure avere qualcosa di cui poter parlare anche con loro.
Fin qui la saggistica dunque, psichiatrica e non; e passiamo adesso alla narrativa.
E’ scritto con rara eleganza e fa riferimento a una vicenda senz’altro originale e poco nota un altro libro che ho letto quest’estate, Il professore e il pazzo di Simon Winchester (trad. it. Adelphi, 2018). E’ la storia dell’incrocio fortuito tra due biografie che parrebbero destinate a non incontrarsi, quella dell’aristocratico professor James Murray, della Philological Society di Londra, e quella di un oscuro medico americano, il dottor W.C. Minor, richiuso nel manicomio criminale di Broadmoor per un omicidio commesso nel pieno di un delirio paranoicale. E’ lì, nelle infinite giornate vuote della sua cella di detenuto ricco e privilegiato dell’istituto dove si trova “at her Majesty pleasure” che il dottor Minor scopre del tutto casualmente la possibilità di svolgere un ruolo nella ciclopica impresa alla quale sta lavorando quello che sarà poi, in occasione dell’incontro, il suo interlocutore, cioè la redazione dell’Oxford English Dictionary destinato a essere il primo dizionario nel quale viene codificata la lingua inglese. Collaborare con intelligenza e dovizia, fino a diventare la principale fonte bibliografica, diventa da quel momento per lui un’occasione per occupare il tempo e, infondo, rendersi anche socialmente utile. Di qui la necessità per il professore di andare a ringraziarlo, senza lontanamente immaginare – fino all’arrivo – quale sia l’indirizzo dal quale il misterioso collaboratore gli scrive.        
Cos’è stato il ’68? Quali segni ha lasciato nell’attualità? Ci se lo è chiesti in molte occasioni quest’anno; e, nella mia città, è stata preziosa la mostra dell’anno precedente al munizioniere di Palazzo Ducale, con gli eventi che l’hanno aperta e chiusa. Se ne è parlato, però, forse meno di quanto mi aspettassi, ed è segno forse dei tempi. Ma invece il ’68 è stato molte cose, ed è stato anche un momento nel quale molte cose si sono decise per i 50 anni a venire, quelli nei quali la maggior parte della vita di tutti noi (bene o male) è trascorsa. Non è stato propriamente una rivoluzione politica (se non nel caso, sfortunato, della Cecoslovacchia), perché negli altri casi è stato soffocato prima anche solo di concepirne il disegno. Ma è stato certamente un’istanza di rivoluzione politica, dove i problemi delle disuguaglianze all’interno della società opulenta – e tra la società opulenta del nord del mondo e il sud razziato dall’imperialismo – è stato avvertito da molti nel corpo e sulla pelle (un emblema per tutti, il volto di Che Guevara assassinato l’anno prima e agitato nelle piazze di tutto il mondo). E forse, se qualcosa di questa istanza fosse passato allora, oggi molti problemi si porrebbero in modo meno drammaticamente dilaniante. Io non nascondo che del ’68 è stato questo l’aspetto al quale sono personalmente più sensibile. Ma è stato senz’altro anche una rivoluzione del costume: la legittimazione del desiderio, la liberazione sessuale, l’emancipazione della donna, l’inizio della legittimazione dei comportamenti LGBT, l’enfasi sulla libertà individuale e i diritti civili, e poi altri modi di stare insieme, di vestire, di parlare, di fare arte e cultura, di guardare alle diverse forme della diversità e alla follia, il che in Italia ha dato i risultati come è noto più concreti. Meno direttamente antagonista rispetto agli interessi del capitale, mi permetto di sintetizzare, è stato questo secondo aspetto a essere in larga misura “integrato” e a lasciare quindi oggi le tracce più vistose e durature. E mi pare che sia proprio di questo secondo aspetto, che certo è stato importante e si è embricato con modalità spesso originali e potenzialmente feconde col primo, che dà una testimonianza giovanilmente appassionata e vivace lo psicoanalista (oggi) Sergio Benvenuto nel suo Godere senza limiti. Un italiano nel maggio ’68 a Parigi (Mimesis, 2018), che è un diario interessante, soprattutto per noi allora troppo giovani, dei giorni caldi di quel magico maggio trascorsi, appunto, dall’autore nella capitale francese. Lì dove più che altrove è sembrato per un mese o poco più che l’immaginazione potesse davvero andare al potere (o almeno potesse svilupparsi fottendosene del potere). Lì dove era possibile in quel momento, quasi in un nuovo Rinascimento italiano, passare dalla bottega di Foucault a quella di Lacan, a Barthes, e poi Althusser o Sartre, senza fare troppa strada. Formidabili quegli anni, insomma, come scriveva anni fa un protagonista del ’68 italiano, Mario Capanna? Beh, oggi sento parlare i due vicepremier, il premier che è al loro servizio, e poi anche coloro che avrebbero dovuto fermarne la resistibile ascesa, sento denigrare il sentimento di giustizia a buonismo, l’esigenza di un mondo diverso a illusione; e mi viene da dire non senza tanta invidia e tanto rimpianto: sì, proprio formidabili davvero! °Un’occasione per molti aspetti persa, purtroppo!
Protagonisti due psichiatri, infine, che indagano su morti misteriose e orrende e a far da sfondo una Genova travisata, stralunata e folle dove non c’è incubo che non sia lasciato libero di correre a briglia sciolta. E tutto intorno le tifoserie calcistiche di Genoa e Samp, travisate anch’esse in una violenza che per fortuna non le ha mai caratterizzate, la questione eugenetica e i feroci retaggi del nazismo, l’ambiente della psichiatria genovese e la spregiudicatezza dell’industria farmaceutica. Parlo de L’artiglio del grifone, il giallo scritto da due psichiatri dei servizi della Liguria, Franca Pezzoni e Giacinto Buscaglia (ArabaFenice, 2018). Confesso una certa fatica nelle prime pagine, nel dover cogliere qualcosa d’inquietante e sinistro in un simbolo che a me trasmette semmai rassicurazione (capisco, però, che questo simbolo severo e orgoglioso della città e della squadra possa evocare in altri timori arcani…). Ma poi la vicenda prende, incuriosisce e trascina perciò dritti al finale nel quale quello che appariva solo incubo e allucinazione svela una sua prosaica razionalità. Ad essere pignoli, lascia un po’ perplessi quell’ultima pagina, un po’ stonante con quelle che la precedono; o un po’ frettolosa per riaprire davvero la porta dell’incubo. Una lettura piacevole e gustosa, comunque, senz’altro. Un insieme decisamente avvincente, colpi di scena si succedono rapidi, apparentemente indipendenti uno dall’altro fino allo svelarsi solo alla fine della trama che tutto collega, personaggi eterogenei, robusti e sempre ben caratterizzati, ambienti descritti a tinte efficaci fino ad farsi concreti e  visibili. Non so se sia capitato ad altri, ma io, leggendo, non ho potuto fare a meno di avvertire il tutto come la sceneggiatura potenziale  di un film. E allora chissà….  

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