Relazione presentata durante i lavori del IV CONVEGNO NAZIONALE ISPS
Trascrizione a cura di Valeria Gaudiosi
Trascrizione a cura di Valeria Gaudiosi
E’ più o meno 35 anni che io lavoro utilizzando questa idea del dialogo aperto. L’ultimo luogo in cui ho lavorato è stato come professore di psicoterapia all’Universiità di Jyväskylä, in Finlandia, per venti anni. Prima di ciò, per circa 18 anni, ho fatto parte di un team nella Finlandia del nord in Lapponia, in un piccolo ospedale psichiatrico e ho cercato di riorganizzare l’intero sistema di cure in quella zona, cercando di trovare il modo migliore per lavorare con le famiglie in situazioni di crisi. Trovavo un sistema che permettesse di lavorare immediatamente, subito, nella crisi e di lavorare come gruppo. E’ stata la scoperta di un modo davvero nuovo di lavorare e siamo stati praticamente costretti dall’inizio a valutare le nostre pratiche perché ci sembrava di aver ottenuto dei successi, ma era una situazione anche un po’ confusa. Anche se noi l’abbiamo utilizzato prevalentemente per situazioni di psicosi, l’approccio del dialogo aperto non è specifico per le psicosi, ma si può utilizzare per qualsiasi tipo di problema. La maggior parte degli studi che sono stati fatti riguarda i primi casi di psicosi che sono accaduti nel territorio di nostra competenza, che è la Lapponia occidentale. Ci sono state tre coorti di pazienti, oggetti di tre studi diversi; la prima è stata i pazienti iniziati a seguire tra il ’92 e il ’93, la seconda, pazienti all’esordio, iniziati a seguire tra il ’94 e il ’97, e poi abbiamo valutato cosa è successo ai pazienti arruolati -tra virgolette- tra il 2003 e il 2005 e abbiamo avuto 108 pazienti con una psicosi all’esordio, in questi studi. E abbiamo visto che ci sono dei risultati di esito interessante, adesso abbiamo anche degli esiti dopo 20 anni. In questo articolo, che credo sia praticamente illeggibile, vista la dimensione dei caratteri che ho lasciato, e che comunque è pubblicato su Psychiatry Research, c’è la comparazione tra i pazienti seguiti con il dialogo aperto DIA in Lapponia e pazienti seguiti col trattamento abituale (…) in Finlandia e con grande sorpresa abbiamo visto che pare che ci sia una notevole differenza tra gli esiti e i risultati di questi due tipi di trattamento.
Il primo dato sulla mortalità, legata a malattie, è molto più alto nel gruppo seguito col trattamento abituale rispetto al gruppo del dialogo aperto. Stesso dato diverso, più alto, per più di trenta giorni di ospedalizzazione nell’anno, molto più alto del gruppo, è 94% dei pazienti seguiti col trattamento abituale, hanno avuto più di trenta giorni di ricovero in un anno, il 18% [invece]hanno avuto, dei pazienti seguiti con il dialogo aperto, hanno avuto più di 30 giorni di ricovero in un anno. Venti anni dopo l’esordio, la metà dei pazienti trattati con il trattamento abituale era ancora in cura, invece il 28% di quelli seguiti con il dialogo aperto. La differenza tra le percentuali di chi era in trattamento neurolettico in un gruppo e nell’altro è dell’ 81% in un gruppo e del 36% nell’altro. E questo forse è il dato che ci ha sorpreso di più, la differenza percentuale tra le persone nel gruppo del trattamento abituale che avevano la pensione di invalidità è praticamente il doppio rispetto a quella del dialogo aperto. Questa è una delle non molte ricerche sul lungo periodo a lungo termine che ci sono in psichiatria. La durata media di un follow up è di 5 anni. Il dato importante che emerge da questa ricerca è che, a venti anni dall’esordio della psicosi, ci sono delle conseguenze nella vita delle persone, conseguenze importanti. (Questa è una lettera ricevuta da un collega spagnolo che ha scritto a Jakko, che, dopo un seminario sul dialogo aperto, ha incominciato a utilizzarlo nel suo luogo di lavoro e quando hanno incominciato a organizzare dei team. Dialogo aperto viene applicato da gruppi di operatori, minimo 2, che è una cosa diversa da quello che succedeva nel loro tradizionale modo di lavorare, dove c’erano i medici, gli infermieri, gli assistenti sociali, qualche volta, non raramente, uno psicologo che faceva interventi di psicoterapia individuale, e oggi questo psichiatra scrive a Jakko e gli dice) “Ci abbiamo provato e i risultati sono stati assolutamente sorprendenti”, ha parlato in questa lettera della situazione di una persona che ha interrotto, nel giro di 4 mesi, l’uso di farmaci e con la quale è stato fatto un lavoro di incontri di trattamento prolungato con la famiglia, alcune volte coinvolgendo anche altre persone, amici. Questa signora ha trovato un nuovo lavoro, ha preso la patente e si è iscritta all’Università e questo psichiatra ha detto: ‘Di solito non succede così alle persone che hanno esperienze psicotiche di cui ci occupiamo”. Alcuni concetti che riguardano l’idea di dialogo in generale, guardate io non penso mica, non sto assolutamente dicendo che c’è una specie di intervento miracoloso che abbiamo scoperto, penso che sia più che altro prendere in esame alcune idee di base su che cosa è la vita umana e sull’importanza del dialogo. Noi esseri umani diventiamo quello che siamo perché siamo involti in delle relazioni con altre persone, con cui ci esprimiamo e ci viene data una risposta, e se questo accade anche nella nostra pratica professionale e aiutiamo i nostri pazienti, facciamo sì che i nostri pazienti possano avere accesso alle loro risorse interiori, che ci sono, ci sono risorse in loro, ci sono risorse nelle relazioni all’interno della famiglia, nelle relazioni nella loro rete sociale e allora incominciamo forse a pensare a un’idea diversa di cosa sono i problemi di salute mentale e quindi, sulla base dei risultati degli studi di follow up che abbiamo visto prima, abbiamo cominciato a pensare in modo diverso anche a come definire la psicosi. Io non penso che la psicosi esista, e non ci sono differenze categoriali tra le persone che hanno un’esperienza psicotica e persone che non hanno un’esperienza psicotica. Quelli che sono i sintomi psicotici, sono non tanto i sintomi di una malattia, ma (qua usa il termine di embodied mind, mente incarnata, [per] noi italiani di formazione culturale cattolica questo probabilmente richiama dei concetti che possono in parte fuorviarci, comunque, quello che dice), i sintomi psicotici sono le strategie della nostra mente incarnata per sopravvivere a esperienze inusuali, esperienze molto difficili. Per esempio, persone che incominciano a udire voci, il problema non è in sé udire le voci, il problema è il tipo di strategia per sopravvivere a questa esperienza molto difficile che la persona crea. Non è qualcosa che succede nel cervello e basta; e quindi, se pensassimo quello, dovremmo medicare, curare il cervello, il problema è che persone con esperienze di questo tipo iniziano a isolarsi, a porsi a distanza dagli altri e a rimanere solo con le loro esperienze difficili. In queste situazioni creano delle strategie di sopravvivenza alquanto originali e nel mio modo di vedere questo è quello con cui ci confrontiamo quando incontriamo una persona in preda a un’esperienza psicotica: strategie psicologiche per sopravvivere, non abbiamo a che fare con dei sintomi che sono le allucinazioni. Quando ci incontriamo con una persona che ha da tanto tempo esperienza di questi problemi, non mi viene da pensare che abbiamo a che fare con un aggravamento o un approfondimento dei problemi, penso che abbiamo a che fare con un segno di fallimento dei trattamenti utilizzati, che non hanno funzionato, e quindi la persona si isola e crea le sue strategie bizzarre, originali, di sopravvivenza. Questi fallimenti nel trattamento fondamentalmente hanno due origini. Il nostro sistema di cura, di solito, non garantisce che possiamo incontrare la persona in crisi, immediatamente. Possono passare mesi o anni durante i quali la persona rimane isolata, e ha queste strategie personali e bizzarre di sopravvivenza. Uno dei risultati importanti di questo approccio nella Finlandia del nord, in Lapponia, è stato che la durata del periodo di psicosi non trattata è scesa a tre settimane, e questo cambia un po’ le carte in tavola; è diverso intervenire con una persona che è alle prese con un’esperienza psicotica da tre settimane o da qualche anno. La seconda origine dei problemi dei fallimenti terapeutici è nella non adeguata comprensione dei problemi della vita umana. Secondo me deriva dall’idea riduzionistica che possiamo semplificare la vita umana a modalità di funzionamento del cervello o che possiamo ridurre i problemi di salute mentale a cambiamenti strutturali del funzionamento del cervello, e dobbiamo invece cercare di considerare che tutto è collegato all’interazione con gli altri. Queste relazioni con gli altri riguardano la nostra rete sociale, le relazioni con gli altri. Il dialogo aperto, ovviamente, è solo una delle possibilità di prendere in esame questo modo di considerare la vita umana. Ci interessa guardare alla completezza dell’essere umano nell’insieme delle sue relazioni sociali. Non è un trattamento dei sintomi, è un incontro con la vita intera. Siamo arrivati a questa idea dopo aver cercato per un po’ di applicare un approccio di terapia familiare e abbiamo scoperto che non funzionava troppo bene, perché erano poche le famiglie che potevano partecipare a questo tipo di trattamento e nel 1984 abbiamo cominciato a sentire dell’idea di trattamenti di incontri dialogici aperti, nata dal team del professor Yrjö Alanen, e quando abbiamo provato a utilizzarla, abbiamo detto: ‘Questa è la strada’. Di smetterla di fare riunioni di equipe per progettare il trattamento da fare con il paziente X, di smetterla di avere un incontro individuale al momento in cui il paziente arrivava in ospedale, quando il paziente incontra un solo operatore, ma fare incontri che coinvolgevano più operatori , e dall’altro lato anche la rete familiare del paziente, quindi abbiamo iniziato a invitare i familiari a questi incontri, ma non dicendogli: ’Venite a un incontro di terapia familiare’, e man mano che abbiamo utilizzato quest’idea, ce ne siamo resi conto progressivamente, è un’idea nuova che ci confondeva anche un po’, e siamo arrivati a due conclusioni. La prima conclusione è stata: c’è bisogno di valutare il sistema, di valutare quello che facciamo, per capire meglio cosa stiamo facendo; e questa è una ricerca che abbiamo iniziato e che continuiamo a fare e che credo che vada continuata. Quindi, il dialogo aperto è nato ed è cresciuto in questa relazione reciproca tra la pratica clinica e la ricerca. La seconda conclusione a cui siamo arrivati è stata che la formazione, il training abituale che abbiamo come operatori, non è sufficiente per lavorare in questo modo e quindi abbiamo iniziato a entrare nell’ordine di idee che ogni membro dello staff facesse un training in psicoterapia di tre anni nel luogo in cui lavoriamo, non da un’altra parte. Facendo questo lavoro per alcuni anni, abbiamo cambiato il sistema di cura, invece di ospedalizzare il paziente (lo spiego un po’ meglio, sono partiti da una situazione di ospedalino psichiatrico), abbiamo organizzato dei team mobili per intervenire sulla crisi, e l’idea è stata che questi team fossero raggiungibili da chiunque ne facesse richiesta, e che quando arrivava una richiesta, il team intervenisse rapidamente a casa, preferenzialmente, o anche in una situazione ambulatoriale. In una ricerca fatta dal professor Aaltonen tra il 94 e il 95, abbiamo cercato di analizzare, di definire, quali erano gli ingredienti costitutivi di questo sistema di cura e abbiamo trovato queste idee di base: il sistema di cura ottimale è quello che garantisce: 1) Aiuto immediato nella crisi 2) Possibilmente (ce l’ho aggiunto io) entro 24 ore dalla chiamata. Io penso che questo è davvero importante, perché durante la crisi le persone non funzionano tanto razionalmente, funzionano con questi meccanismi di incarnazione delle emozioni. In due giorni si può perdere la possibilità di intervenire su delle emozioni che magari erano disponibili. A me è capitato di vedere che le persone che hanno reazioni psicotiche tendono a parlare, tra virgolette, delle loro allucinazioni nel primo giorno e magari nel secondo no, nel primo giorno della crisi. La seconda idea è di coinvolgere sempre la famiglia e in diversi casi anche altri componenti della rete sociale e questo è quello che chiamiamo con il termine di prospettiva di rete sociale. Il terzo punto è di essere flessibili riguardo al metodo che si utilizza. Questo è un approccio adattato al bisogno. Gli studi, le ricerche iniziali di Alanen, parlavano di trattamento adattato al bisogno, quindi cerchiamo di usare il metodo di cura che si adatta meglio a quel paziente e a quella famiglia, quindi per alcuni può essere che ci vuole un intervento di psicoterapia individuale, in aggiunta all’intervento sulla famiglia nella crisi, qualcheduno ha bisogno di farmaci, qualcheduno ce la fa senza farmaci, qualcheduno ha bisogno di andare in ospedale per il rischio di suicido, qualchedun altro se la cava bene a casa col supporto di chi c’è lì; cercare di porsi la domanda di utilizzare il metodo che più si adatta a quella specifica situazione.
Quarto punto, quello sulla responsabilità. I professionisti devono prendersi la responsabilità del trattamento. Quindi gli operatori sono disponibili sempre, quindi c’è una contattabilità degli operatori sulle 24 ore, (se qualcheduno notasse che dico delle cazzate clamorose, per favore lo dica) e cercare di utilizzare l’idea che quando qualcheduno ci chiama, non possiamo dirgli: ‘Hai chiamato nel posto sbagliato, devi andare da un’altra parte’. Quindi, rispondere a qualsiasi richiesta di intervento, dicendo: ‘Hai chiamato nel posto giusto, vediamoci domani’, questo è l’inizio di quella che è la continuità psicologica. Possiamo formare, quindi, un team che lavora con quella famiglia, composto da operatori che provengono da servizi diversi, magari uno che si occupa di dipendenze, c’è un operatore di quel servizio e un operatore dei servizi sociali e questo team si fa carico dell’intero processo di trattamento per tutto il tempo necessario, quindi è importante essere consapevoli che questo non è solo un intervento sulla crisi, questo team non interviene solo tre o quattro volte nell’acuzie. C’è, e continua a lavorare con il paziente e con la famiglia per tutto il tempo necessario. Veniamo agli ultimi due punti che forse sono i più importanti, perché l’idea che ha a che fare con queste cose pratiche è di aumentare la sicurezza per le persone che sono in crisi e riuscire a tollerare una situazione in cui non ci sono ancora delle risposte pronte. Se riusciamo a mettere in piedi una situazione in cui troviamo una sicurezza di base sufficiente, allora è possibile tollerare l’incertezza e lavorare per promuovere l’utilizzo delle risorse del paziente e della rete sociale e delle persone a lui vicine. Nella pratica quotidiana questo significa prendersela calma, non correre a conclusioni affrettate e cercare sempre di apertamente vedere , chiedere, punti di vista diversi. Questo spiega perché l’idea di dialogo è così importante, queste riunioni, questi incontri di cura sono per trovarsi insieme, cercare di capire cosa è successo. L’obiettivo degli incontri di cura non è quello di esplicitamente (aggiungo io) promuovere dei cambiamenti nel paziente o nella famiglia o di rimuovere i sintomi. Gli operatori non arrivano lì con l’idea che devono convincere il paziente o la famiglia a fare qualche cambiamento, no. L’idea, l’obiettivo, la base degli incontri, è quello di costruire, di ascoltare quello che le persone dicono, e cercare di trovare delle parole, di costruire un linguaggio per quello che non ha ancora parole, per le esperienze che non hanno ancora parole. Noi professionisti non abbiamo parole migliori di quelle che possono tirar fuori i pazienti e i familiari, e questo per me, come terapeuta, è una faccenda che mi sfida, non è semplice, perché il mio training come terapista familiare negli anni 80 era interamente focalizzato sull’idea che il nostro modo di relazionarsi, di intervenire con la famiglia, era finalizzato a produrre dei cambiamenti ; oppure eravamo istruiti, formati a pensare che riformulare l’approccio ai problemi potesse cambiare gli schemi di comportamento della famiglia, e qua è l’opposto. Noi non siamo quelli responsabili dell’incontro, sono i nostri clienti che si prendono cura dell’incontro, questi incontri sono sempre aperti da domande aperte, la domanda aperta tipica è: ‘Come volete utilizzare il tempo di questo incontro? ‘, poi noi lo sappiamo benissimo che in certi meeting sarebbe il caso di affrontare certi problemi, ma si parte sempre da qui, da una domanda aperta: ‘Come volete utilizzare questo incontro ’. Se abbiamo delle cose che a tutti i costi dobbiamo dire, diciamole alla fine dell’incontro, non all’inizio, e in questo modo cerchiamo di rispettare e accettare, senza condizioni, la voce del cliente. Cerchiamo di domandarci ‘Quali sono le idee che potrebbero aver contribuito a determinare i risultati positivi visti prima’. Penso che ci sono quattro aspetti che si operano simultaneamente. Quando incontriamo una persona in crisi, incontriamo una persona che è alle prese con una esperienza emotiva forte, e questa situazione, questa specifica situazione, crea le migliori possibilità per introdurre nuovi argomenti, nuovi temi di cui parlare, ma non è abbastanza, non è sufficiente, devi anche incontrare le persone giuste per riuscirci, i componenti della tua famiglia, se hai una famiglia, magari i tuoi compagni di scuola, se vai a scuola, o le persone con cui vivi nelle istituzioni in cui sei temporaneamente ospitato, e il coinvolgimento di queste persone non è solo una volta, ma è per tutto il percorso del processo di trattamento. E il terzo punto è che nell’incontro ci concentriamo sul dialogo, cioè sul dare uno spazio e ascoltare ogni voce, senza giudicare. E questo vuol dire che le persone riescono anche ad ascoltare qualcosa di più della loro stessa voce e possono sperimentare l’ascolto delle voci degli altri componenti della famiglia in un modo che prima non era avvenuto. Il quarto punto è che, cercando di lavorare in questo modo, e quindi evitando il più possibile l’uso non necessario di farmaci, evitiamo quelli che sono gli effetti dannosi dei neurolettici, e quindi lasciamo alle persone più risorse psicologiche per poter ritornare a studiare o lavorare. Penso che in questo percorso di sviluppo del dialogo aperto abbiamo fatto un passaggio da qualcosa di metodologico, riguardante la tecnica, a qualcosa che riguarda più la vita umana, il senso della vita umana, e ovviamente nella vita umana non c’è valore più fondamentale dell’amore. E questo è quello che i componenti della famiglia ci riportano tante volte nell’intervista di follow up che facciamo durante gli studi. Ci possono dire che è stato un processo molto doloroso, ma che ‘Mi ha permesso di tornare ad amare, a voler bene a mio figlio in un modo che non accadeva da 18 anni, da quando si era ammalato’, questa è una idea molto curativa. Peterson, che è l’autore di queste parole, è un linguista (critico letterario), scrive: La vita è dialogica, la vita è dialogo.
Il primo dato sulla mortalità, legata a malattie, è molto più alto nel gruppo seguito col trattamento abituale rispetto al gruppo del dialogo aperto. Stesso dato diverso, più alto, per più di trenta giorni di ospedalizzazione nell’anno, molto più alto del gruppo, è 94% dei pazienti seguiti col trattamento abituale, hanno avuto più di trenta giorni di ricovero in un anno, il 18% [invece]hanno avuto, dei pazienti seguiti con il dialogo aperto, hanno avuto più di 30 giorni di ricovero in un anno. Venti anni dopo l’esordio, la metà dei pazienti trattati con il trattamento abituale era ancora in cura, invece il 28% di quelli seguiti con il dialogo aperto. La differenza tra le percentuali di chi era in trattamento neurolettico in un gruppo e nell’altro è dell’ 81% in un gruppo e del 36% nell’altro. E questo forse è il dato che ci ha sorpreso di più, la differenza percentuale tra le persone nel gruppo del trattamento abituale che avevano la pensione di invalidità è praticamente il doppio rispetto a quella del dialogo aperto. Questa è una delle non molte ricerche sul lungo periodo a lungo termine che ci sono in psichiatria. La durata media di un follow up è di 5 anni. Il dato importante che emerge da questa ricerca è che, a venti anni dall’esordio della psicosi, ci sono delle conseguenze nella vita delle persone, conseguenze importanti. (Questa è una lettera ricevuta da un collega spagnolo che ha scritto a Jakko, che, dopo un seminario sul dialogo aperto, ha incominciato a utilizzarlo nel suo luogo di lavoro e quando hanno incominciato a organizzare dei team. Dialogo aperto viene applicato da gruppi di operatori, minimo 2, che è una cosa diversa da quello che succedeva nel loro tradizionale modo di lavorare, dove c’erano i medici, gli infermieri, gli assistenti sociali, qualche volta, non raramente, uno psicologo che faceva interventi di psicoterapia individuale, e oggi questo psichiatra scrive a Jakko e gli dice) “Ci abbiamo provato e i risultati sono stati assolutamente sorprendenti”, ha parlato in questa lettera della situazione di una persona che ha interrotto, nel giro di 4 mesi, l’uso di farmaci e con la quale è stato fatto un lavoro di incontri di trattamento prolungato con la famiglia, alcune volte coinvolgendo anche altre persone, amici. Questa signora ha trovato un nuovo lavoro, ha preso la patente e si è iscritta all’Università e questo psichiatra ha detto: ‘Di solito non succede così alle persone che hanno esperienze psicotiche di cui ci occupiamo”. Alcuni concetti che riguardano l’idea di dialogo in generale, guardate io non penso mica, non sto assolutamente dicendo che c’è una specie di intervento miracoloso che abbiamo scoperto, penso che sia più che altro prendere in esame alcune idee di base su che cosa è la vita umana e sull’importanza del dialogo. Noi esseri umani diventiamo quello che siamo perché siamo involti in delle relazioni con altre persone, con cui ci esprimiamo e ci viene data una risposta, e se questo accade anche nella nostra pratica professionale e aiutiamo i nostri pazienti, facciamo sì che i nostri pazienti possano avere accesso alle loro risorse interiori, che ci sono, ci sono risorse in loro, ci sono risorse nelle relazioni all’interno della famiglia, nelle relazioni nella loro rete sociale e allora incominciamo forse a pensare a un’idea diversa di cosa sono i problemi di salute mentale e quindi, sulla base dei risultati degli studi di follow up che abbiamo visto prima, abbiamo cominciato a pensare in modo diverso anche a come definire la psicosi. Io non penso che la psicosi esista, e non ci sono differenze categoriali tra le persone che hanno un’esperienza psicotica e persone che non hanno un’esperienza psicotica. Quelli che sono i sintomi psicotici, sono non tanto i sintomi di una malattia, ma (qua usa il termine di embodied mind, mente incarnata, [per] noi italiani di formazione culturale cattolica questo probabilmente richiama dei concetti che possono in parte fuorviarci, comunque, quello che dice), i sintomi psicotici sono le strategie della nostra mente incarnata per sopravvivere a esperienze inusuali, esperienze molto difficili. Per esempio, persone che incominciano a udire voci, il problema non è in sé udire le voci, il problema è il tipo di strategia per sopravvivere a questa esperienza molto difficile che la persona crea. Non è qualcosa che succede nel cervello e basta; e quindi, se pensassimo quello, dovremmo medicare, curare il cervello, il problema è che persone con esperienze di questo tipo iniziano a isolarsi, a porsi a distanza dagli altri e a rimanere solo con le loro esperienze difficili. In queste situazioni creano delle strategie di sopravvivenza alquanto originali e nel mio modo di vedere questo è quello con cui ci confrontiamo quando incontriamo una persona in preda a un’esperienza psicotica: strategie psicologiche per sopravvivere, non abbiamo a che fare con dei sintomi che sono le allucinazioni. Quando ci incontriamo con una persona che ha da tanto tempo esperienza di questi problemi, non mi viene da pensare che abbiamo a che fare con un aggravamento o un approfondimento dei problemi, penso che abbiamo a che fare con un segno di fallimento dei trattamenti utilizzati, che non hanno funzionato, e quindi la persona si isola e crea le sue strategie bizzarre, originali, di sopravvivenza. Questi fallimenti nel trattamento fondamentalmente hanno due origini. Il nostro sistema di cura, di solito, non garantisce che possiamo incontrare la persona in crisi, immediatamente. Possono passare mesi o anni durante i quali la persona rimane isolata, e ha queste strategie personali e bizzarre di sopravvivenza. Uno dei risultati importanti di questo approccio nella Finlandia del nord, in Lapponia, è stato che la durata del periodo di psicosi non trattata è scesa a tre settimane, e questo cambia un po’ le carte in tavola; è diverso intervenire con una persona che è alle prese con un’esperienza psicotica da tre settimane o da qualche anno. La seconda origine dei problemi dei fallimenti terapeutici è nella non adeguata comprensione dei problemi della vita umana. Secondo me deriva dall’idea riduzionistica che possiamo semplificare la vita umana a modalità di funzionamento del cervello o che possiamo ridurre i problemi di salute mentale a cambiamenti strutturali del funzionamento del cervello, e dobbiamo invece cercare di considerare che tutto è collegato all’interazione con gli altri. Queste relazioni con gli altri riguardano la nostra rete sociale, le relazioni con gli altri. Il dialogo aperto, ovviamente, è solo una delle possibilità di prendere in esame questo modo di considerare la vita umana. Ci interessa guardare alla completezza dell’essere umano nell’insieme delle sue relazioni sociali. Non è un trattamento dei sintomi, è un incontro con la vita intera. Siamo arrivati a questa idea dopo aver cercato per un po’ di applicare un approccio di terapia familiare e abbiamo scoperto che non funzionava troppo bene, perché erano poche le famiglie che potevano partecipare a questo tipo di trattamento e nel 1984 abbiamo cominciato a sentire dell’idea di trattamenti di incontri dialogici aperti, nata dal team del professor Yrjö Alanen, e quando abbiamo provato a utilizzarla, abbiamo detto: ‘Questa è la strada’. Di smetterla di fare riunioni di equipe per progettare il trattamento da fare con il paziente X, di smetterla di avere un incontro individuale al momento in cui il paziente arrivava in ospedale, quando il paziente incontra un solo operatore, ma fare incontri che coinvolgevano più operatori , e dall’altro lato anche la rete familiare del paziente, quindi abbiamo iniziato a invitare i familiari a questi incontri, ma non dicendogli: ’Venite a un incontro di terapia familiare’, e man mano che abbiamo utilizzato quest’idea, ce ne siamo resi conto progressivamente, è un’idea nuova che ci confondeva anche un po’, e siamo arrivati a due conclusioni. La prima conclusione è stata: c’è bisogno di valutare il sistema, di valutare quello che facciamo, per capire meglio cosa stiamo facendo; e questa è una ricerca che abbiamo iniziato e che continuiamo a fare e che credo che vada continuata. Quindi, il dialogo aperto è nato ed è cresciuto in questa relazione reciproca tra la pratica clinica e la ricerca. La seconda conclusione a cui siamo arrivati è stata che la formazione, il training abituale che abbiamo come operatori, non è sufficiente per lavorare in questo modo e quindi abbiamo iniziato a entrare nell’ordine di idee che ogni membro dello staff facesse un training in psicoterapia di tre anni nel luogo in cui lavoriamo, non da un’altra parte. Facendo questo lavoro per alcuni anni, abbiamo cambiato il sistema di cura, invece di ospedalizzare il paziente (lo spiego un po’ meglio, sono partiti da una situazione di ospedalino psichiatrico), abbiamo organizzato dei team mobili per intervenire sulla crisi, e l’idea è stata che questi team fossero raggiungibili da chiunque ne facesse richiesta, e che quando arrivava una richiesta, il team intervenisse rapidamente a casa, preferenzialmente, o anche in una situazione ambulatoriale. In una ricerca fatta dal professor Aaltonen tra il 94 e il 95, abbiamo cercato di analizzare, di definire, quali erano gli ingredienti costitutivi di questo sistema di cura e abbiamo trovato queste idee di base: il sistema di cura ottimale è quello che garantisce: 1) Aiuto immediato nella crisi 2) Possibilmente (ce l’ho aggiunto io) entro 24 ore dalla chiamata. Io penso che questo è davvero importante, perché durante la crisi le persone non funzionano tanto razionalmente, funzionano con questi meccanismi di incarnazione delle emozioni. In due giorni si può perdere la possibilità di intervenire su delle emozioni che magari erano disponibili. A me è capitato di vedere che le persone che hanno reazioni psicotiche tendono a parlare, tra virgolette, delle loro allucinazioni nel primo giorno e magari nel secondo no, nel primo giorno della crisi. La seconda idea è di coinvolgere sempre la famiglia e in diversi casi anche altri componenti della rete sociale e questo è quello che chiamiamo con il termine di prospettiva di rete sociale. Il terzo punto è di essere flessibili riguardo al metodo che si utilizza. Questo è un approccio adattato al bisogno. Gli studi, le ricerche iniziali di Alanen, parlavano di trattamento adattato al bisogno, quindi cerchiamo di usare il metodo di cura che si adatta meglio a quel paziente e a quella famiglia, quindi per alcuni può essere che ci vuole un intervento di psicoterapia individuale, in aggiunta all’intervento sulla famiglia nella crisi, qualcheduno ha bisogno di farmaci, qualcheduno ce la fa senza farmaci, qualcheduno ha bisogno di andare in ospedale per il rischio di suicido, qualchedun altro se la cava bene a casa col supporto di chi c’è lì; cercare di porsi la domanda di utilizzare il metodo che più si adatta a quella specifica situazione.
Quarto punto, quello sulla responsabilità. I professionisti devono prendersi la responsabilità del trattamento. Quindi gli operatori sono disponibili sempre, quindi c’è una contattabilità degli operatori sulle 24 ore, (se qualcheduno notasse che dico delle cazzate clamorose, per favore lo dica) e cercare di utilizzare l’idea che quando qualcheduno ci chiama, non possiamo dirgli: ‘Hai chiamato nel posto sbagliato, devi andare da un’altra parte’. Quindi, rispondere a qualsiasi richiesta di intervento, dicendo: ‘Hai chiamato nel posto giusto, vediamoci domani’, questo è l’inizio di quella che è la continuità psicologica. Possiamo formare, quindi, un team che lavora con quella famiglia, composto da operatori che provengono da servizi diversi, magari uno che si occupa di dipendenze, c’è un operatore di quel servizio e un operatore dei servizi sociali e questo team si fa carico dell’intero processo di trattamento per tutto il tempo necessario, quindi è importante essere consapevoli che questo non è solo un intervento sulla crisi, questo team non interviene solo tre o quattro volte nell’acuzie. C’è, e continua a lavorare con il paziente e con la famiglia per tutto il tempo necessario. Veniamo agli ultimi due punti che forse sono i più importanti, perché l’idea che ha a che fare con queste cose pratiche è di aumentare la sicurezza per le persone che sono in crisi e riuscire a tollerare una situazione in cui non ci sono ancora delle risposte pronte. Se riusciamo a mettere in piedi una situazione in cui troviamo una sicurezza di base sufficiente, allora è possibile tollerare l’incertezza e lavorare per promuovere l’utilizzo delle risorse del paziente e della rete sociale e delle persone a lui vicine. Nella pratica quotidiana questo significa prendersela calma, non correre a conclusioni affrettate e cercare sempre di apertamente vedere , chiedere, punti di vista diversi. Questo spiega perché l’idea di dialogo è così importante, queste riunioni, questi incontri di cura sono per trovarsi insieme, cercare di capire cosa è successo. L’obiettivo degli incontri di cura non è quello di esplicitamente (aggiungo io) promuovere dei cambiamenti nel paziente o nella famiglia o di rimuovere i sintomi. Gli operatori non arrivano lì con l’idea che devono convincere il paziente o la famiglia a fare qualche cambiamento, no. L’idea, l’obiettivo, la base degli incontri, è quello di costruire, di ascoltare quello che le persone dicono, e cercare di trovare delle parole, di costruire un linguaggio per quello che non ha ancora parole, per le esperienze che non hanno ancora parole. Noi professionisti non abbiamo parole migliori di quelle che possono tirar fuori i pazienti e i familiari, e questo per me, come terapeuta, è una faccenda che mi sfida, non è semplice, perché il mio training come terapista familiare negli anni 80 era interamente focalizzato sull’idea che il nostro modo di relazionarsi, di intervenire con la famiglia, era finalizzato a produrre dei cambiamenti ; oppure eravamo istruiti, formati a pensare che riformulare l’approccio ai problemi potesse cambiare gli schemi di comportamento della famiglia, e qua è l’opposto. Noi non siamo quelli responsabili dell’incontro, sono i nostri clienti che si prendono cura dell’incontro, questi incontri sono sempre aperti da domande aperte, la domanda aperta tipica è: ‘Come volete utilizzare il tempo di questo incontro? ‘, poi noi lo sappiamo benissimo che in certi meeting sarebbe il caso di affrontare certi problemi, ma si parte sempre da qui, da una domanda aperta: ‘Come volete utilizzare questo incontro ’. Se abbiamo delle cose che a tutti i costi dobbiamo dire, diciamole alla fine dell’incontro, non all’inizio, e in questo modo cerchiamo di rispettare e accettare, senza condizioni, la voce del cliente. Cerchiamo di domandarci ‘Quali sono le idee che potrebbero aver contribuito a determinare i risultati positivi visti prima’. Penso che ci sono quattro aspetti che si operano simultaneamente. Quando incontriamo una persona in crisi, incontriamo una persona che è alle prese con una esperienza emotiva forte, e questa situazione, questa specifica situazione, crea le migliori possibilità per introdurre nuovi argomenti, nuovi temi di cui parlare, ma non è abbastanza, non è sufficiente, devi anche incontrare le persone giuste per riuscirci, i componenti della tua famiglia, se hai una famiglia, magari i tuoi compagni di scuola, se vai a scuola, o le persone con cui vivi nelle istituzioni in cui sei temporaneamente ospitato, e il coinvolgimento di queste persone non è solo una volta, ma è per tutto il percorso del processo di trattamento. E il terzo punto è che nell’incontro ci concentriamo sul dialogo, cioè sul dare uno spazio e ascoltare ogni voce, senza giudicare. E questo vuol dire che le persone riescono anche ad ascoltare qualcosa di più della loro stessa voce e possono sperimentare l’ascolto delle voci degli altri componenti della famiglia in un modo che prima non era avvenuto. Il quarto punto è che, cercando di lavorare in questo modo, e quindi evitando il più possibile l’uso non necessario di farmaci, evitiamo quelli che sono gli effetti dannosi dei neurolettici, e quindi lasciamo alle persone più risorse psicologiche per poter ritornare a studiare o lavorare. Penso che in questo percorso di sviluppo del dialogo aperto abbiamo fatto un passaggio da qualcosa di metodologico, riguardante la tecnica, a qualcosa che riguarda più la vita umana, il senso della vita umana, e ovviamente nella vita umana non c’è valore più fondamentale dell’amore. E questo è quello che i componenti della famiglia ci riportano tante volte nell’intervista di follow up che facciamo durante gli studi. Ci possono dire che è stato un processo molto doloroso, ma che ‘Mi ha permesso di tornare ad amare, a voler bene a mio figlio in un modo che non accadeva da 18 anni, da quando si era ammalato’, questa è una idea molto curativa. Peterson, che è l’autore di queste parole, è un linguista (critico letterario), scrive: La vita è dialogica, la vita è dialogo.
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