Ma la psicoanalisi stupisce? Oggi, sistematicamente ridotta a tecnica psicoterapeutica, meno di ieri; tuttavia i saggi di Berti stupiscono proprio perché aperti alla scienza. Senza contare che ho un motivo personale di stupore. Gran parte di essi, infatti, li ho sentiti pronunciare dalla viva voce di Simone nei congressi cui abbiamo partecipato, organizzati tra Firenze e Livorno dalla compianta Giuliana Bertelloni. Lo stupore deriva dal riscontrare nella scrittura, che per sua natura codifica e fissa l’enunciato, la stessa leggerezza della fluente enunciazione vocale, risalente a qualche anno fa, per la verità non pochi, quasi venti.
Al di là della dote personale, lo stile di scrittura leggero deriva a Berti anche dalla sua frequentazione giovanile del filosofo della dischiusura, Martin Heidegger. Il punto è ben argomentato nel primo saggio della raccolta sulla domanda di guarigione dalla “malattia uomo”, che non è domanda per ottenere qualcosa, un ente, neppure quella cosa intesa in senso medico come ripristino della sanità mentale, ma è domanda esistenziale per sapere come dischiudersi all’essere nell’esserci; in tedesco è la differenza tra le due forme del verbo “domandare”, tra bitten e fragen.
Il secondo saggio sul Pensare insieme l’omogeneo e l’inconciliabile mette a tema proprio il tra. Qui la leggerezza diventa sottigliezza, cioè la capacità di passare tra: tra gli opposti, tra il dentro e il fuori, tipicamente tra il familiare e il perturbante. Il tra – sembra un gioco di parole – inaugura il transfert tra analista e analizzante. Riporta dentro al discorso dell’uno quel che sta fuori nell’altro. Il transfert è un discorso di frontiera sulla frontiera tra il soggetto e l’altro, direi alla Federn. Per questa via potrebbe inaugurarsi il discorso sul collettivo psicoanalitico, materializzato più a livello epistemico che ontologico dal pensare insieme prima che dall’essere insieme; in tedesco si potrebbe dire con un neologismo – peraltro colto con finezza clinica dallo psichiatra di Zurigo, Eugen Bleuler, sulla bocca di uno dei suoi schizofrenici – che il collettivo psicoanalitico è pervaso dal mitdenken, pensare con l’altro, sul calco di mitteilen, comunicare nel senso di compartecipare.
Nel terzo saggio Berti alleggerisce ulteriormente anche la sottigliezza. Non è un fatto fisico, come lo smagrire dell’anoressia; è un fatto simbolico come il Ritrovarsi altrove, situarsi altrimenti, fuori dalle convenzioni, quelle psicoanalitiche comprese. Quindi implica un buon tratto di lavoro analitico per aprire le porte che dischiudono un altro modo di esserci.
Il quarto saggio, che non ho sentito dalla viva voce di Simone, introduce un tema a me caro, affine alla leggerezza e alla sottigliezza: l’incompiutezza. L’incompiutezza discrimina tra episteme antica e moderna; la filosofia e la scienza antica, sotto forma di storia, erano complete; la filosofia e la scienza moderna, sotto forma di meccanicismo, sono incomplete. Lo stabilisce in aritmetica il teorema di Gödel, per cui se l’aritmetica è coerente, esistono enunciati che non si possono né dimostrare né confutare, a cominciare proprio dalla enuciazione della coerenza. Lo stabilisce in psicoanalisi il teorema di Freud, per cui esiste l’inconscio, cioè un sapere che non si sa di sapere, un-bewusst, non-saputo, prima che mancante di consapevolezza.
Se mai la psicoanalisi diventerà la “nuova scienza”, promessa e promossa da Freud, bisogna partire da questo assioma, magari rinforzandolo con due corollari: l’esistenza della rimozione originaria e l’acquisizione differita del sapere. La formazione analitica deve familiarizzare l’analizzante all’inadeguatezza “incorreggibile” del desiderio di sapere rispetto al desiderio del suo oggetto. C’è la verità, ma è inconscia; si può dire solo a metà, predicava Lacan. Con conseguenze sull’atto analitico, che sistematicamente esce dagli schemi professionali convenuti e sorprende, innanzitutto chi lo compie.
È una felice illusione? Avrà un avvenire? Le massicce opposizioni antiscientifiche, dai no-vax a tutte le multiformi negazioni che corrono sul Web, non lasciano molte speranze. Si preferisce lasciar fare ai maghi, agli omeopati e agli arruffapopoli, populisti buoni a promuovere la generale volontà di ignoranza, vera e propria anoressia del sapere, magari all’insegna del benessere, minacciato da qualche barbaro in transito. Si tratta di rompere questo nefasto incantesimo, propone Berti, rilanciando la presa di posizione di Serge Leclaire, a suo tempo in amichevole polemica con Lacan.
Leggerezza, sottigliezza, incompiutezza in psicoanalisi sono solo le punte di tre vettori mobili che ruotano attorno a un baricentro: la formazione del legame sociale tra analisti e analizzanti. Ne parla Berti nel penultimo saggio dove racconta l’esperienza di come a Firenze si sia formato un collettivo di pensiero psicoanalitico alla Ludwik Fleck, ispirato alle intuizioni di Claude Dumézil sul tratto del caso. Il caso non è l’analizzante, dovrebbe essere più spesso l’analista, con la sua ritrosia al sapere inconscio. Il caso sono gli analisti. Perché la verità, formulata da Freud a Groddeck nella lettera del 21 dicembre 1924, è che la psicoanalisi “è un’impresa squisitamente collettiva”
(https://www.analisilaica.it/2018/11/10/una-psicanalisi-squisitamente-collettiva/). Collettiva non vuol dire che un gruppo ruota intorno all’insegnamento magistrale di qualche guru; vuol dire confronto reciproco tra soggetti che interagiscono sul piano epistemico del sapere da ciascuno individualmente non saputo, ma collettivamente distribuito, a prescindere dalle inevitabili identificazioni ontologiche che caratterizzano questa o quell’altra scuola.
Ce lo dice il sottotitolo della raccolta di saggi di Berti: L’atto analitico tra invenzione e trasmissione. Ce lo dice ancora una volta la piccola preposizione della sottigliezza: TRA. La sottigliezza con cui familiarizzarsi – ci insegna lo psicoanalista di Firenze – è che la formazione psicoanalitica non è la formazione tecnico-professionale alla psicoterapia; è la formazione di un legame sociale inedito, perché basato su un sapere che non si sa ancora, ma produce effetti soggettivi – non solo di cura, ma in generale di cognizione – come se fosse un sapere già acquisito, precisamente acquisito in comune.
Chiuso il libro non rimane altro che pensare, magari mettendosi al lavoro per costruire collettivi di pensiero creativo in psicoanalisi: l’inconscio a Firenze, a Milano, a Parigi, là dove il desiderio “metacosciente” individuato da Freud fa capolino. Li chiamerei collettivi di metaanalisi.
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