In “Come le lucciole”(2009) Didi-Huberman perora la causa di una “politica delle sopravvivenze”. Pur esprimendo ammirazione nei confronti di Pasolini e Agamben, assume una posizione critica nei confronti di quella che egli considera, una loro visione “apocalittica” senza via d’uscita.
Nel 1973 Pasolini affermava che mentre il fascismo non era riuscito a sconfiggere le “culture particolari”, “oggi, al contrario, l’adesione di modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata”. Due anni dopo paragonava il tramonto delle particolarità, il processo inesorabile della loro omologazione, alla scomparsa delle lucciole causata dall’inquinamento. Negli stessi anni Agamben sosteneva che l’uomo contemporaneo è stato espropriato della propria esperienza: della capacità di fare, scambiare e trasmettere esperienze
La critica a Agamben comprende la congiunzione da lui operata tra la concezione schmittiana dell’opinione pubblica come forma moderna di acclamazione e la tesi di Guy Debord che la “società dello spettacolo” nelle democrazie di oggi è il corrispettivo di ciò che nei regimi totalitari di ieri è stato l’assoggettamento delle folle. La congiunzione conduce Agamben ad attribuire alla forma mediatica dell’immagine, colta nel suo flusso luminoso, “glorioso”, il potere di ipnotizzare, asservire le masse popolari.
Didi-Huberman obietta che in questo modo l’immagine diventa funzione del potere, essa perde il suo potenziale di insurrezione contro la luce dei riflettori in cui viviamo immersi. Per lui le immagini sono lucciole che continuano a alloggiare nel buio, non sono scomparse. Al processo dell’asservimento vuole opporre una politica delle immagini che sopravvivono nella loro intermittenza, pronte a risorgere e riappropriarsi del futuro.
Mentre Pasolini e Agamben invitano a inquietarsi della distruzione delle differenze e dell’esperienza, Didi-Huberman si affida a una missione salvifica delle immagini, alla loro capacità di sopravvivere in luoghi protetti dalla luce mediatica. Il potere di questa luce, tuttavia, sta proprio nel suo essere in grado di appropriarsi di ogni tipo di immagine, ovunque si trovi, espropriandola del suo senso.
L’immagine non ha un significato in sé -se non quello della costruzione di una realtà artificiale- senza il gesto che la fa nascere, l’esperienza di cui essa è fatta, produce e promuove.Tutta la sua potenza è nell’essere aperta, sempre in movimento tra effettività e potenzialità, tra definizione e sperimentazione. I reperti di immagine sepolti nella polvere del passato, tra cui quelli lasciati da chi è morto nelle camere di gas, non hanno per noi significato se l’esperienza che li ha creati non incontra la nostra esperienza, se il mondo diventa un campo di concentramento.
Poiché è ancora sul punto di diventarlo, la nostra risorsa più importante non è la capacità di resistere per sopravvivere (consone alla logica del totalitarismo), ma il resistere per vivere, mantenere integra la nostra capacità di fare esperienza. Ciò significa combattere, far vincere l’esperienza contro la morte psichica che minaccia il mondo.
Le lucciole sono una metafora che risale alla nostra infanzia. Sono le stelle che scendono tra di noi a indicarci i sentieri della vita nel buio della notte. Ci rassicurano sulla continuità tra giorno e notte, tra veder chiaro e immaginare, intuire. Non sono intermittenze, ma chiarori che appaiono qui e là. Dicono che la vita respira anche quando si dorme, sono un collegamento tra il sogno e il sorgere del sole, sono piccoli orizzonti, limiti e aperture, al tempo stesso, che indicano il nostro posto e le nostre possibilità di movimento nel gioco del mondo.
Nel 1973 Pasolini affermava che mentre il fascismo non era riuscito a sconfiggere le “culture particolari”, “oggi, al contrario, l’adesione di modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata”. Due anni dopo paragonava il tramonto delle particolarità, il processo inesorabile della loro omologazione, alla scomparsa delle lucciole causata dall’inquinamento. Negli stessi anni Agamben sosteneva che l’uomo contemporaneo è stato espropriato della propria esperienza: della capacità di fare, scambiare e trasmettere esperienze
La critica a Agamben comprende la congiunzione da lui operata tra la concezione schmittiana dell’opinione pubblica come forma moderna di acclamazione e la tesi di Guy Debord che la “società dello spettacolo” nelle democrazie di oggi è il corrispettivo di ciò che nei regimi totalitari di ieri è stato l’assoggettamento delle folle. La congiunzione conduce Agamben ad attribuire alla forma mediatica dell’immagine, colta nel suo flusso luminoso, “glorioso”, il potere di ipnotizzare, asservire le masse popolari.
Didi-Huberman obietta che in questo modo l’immagine diventa funzione del potere, essa perde il suo potenziale di insurrezione contro la luce dei riflettori in cui viviamo immersi. Per lui le immagini sono lucciole che continuano a alloggiare nel buio, non sono scomparse. Al processo dell’asservimento vuole opporre una politica delle immagini che sopravvivono nella loro intermittenza, pronte a risorgere e riappropriarsi del futuro.
Mentre Pasolini e Agamben invitano a inquietarsi della distruzione delle differenze e dell’esperienza, Didi-Huberman si affida a una missione salvifica delle immagini, alla loro capacità di sopravvivere in luoghi protetti dalla luce mediatica. Il potere di questa luce, tuttavia, sta proprio nel suo essere in grado di appropriarsi di ogni tipo di immagine, ovunque si trovi, espropriandola del suo senso.
L’immagine non ha un significato in sé -se non quello della costruzione di una realtà artificiale- senza il gesto che la fa nascere, l’esperienza di cui essa è fatta, produce e promuove.Tutta la sua potenza è nell’essere aperta, sempre in movimento tra effettività e potenzialità, tra definizione e sperimentazione. I reperti di immagine sepolti nella polvere del passato, tra cui quelli lasciati da chi è morto nelle camere di gas, non hanno per noi significato se l’esperienza che li ha creati non incontra la nostra esperienza, se il mondo diventa un campo di concentramento.
Poiché è ancora sul punto di diventarlo, la nostra risorsa più importante non è la capacità di resistere per sopravvivere (consone alla logica del totalitarismo), ma il resistere per vivere, mantenere integra la nostra capacità di fare esperienza. Ciò significa combattere, far vincere l’esperienza contro la morte psichica che minaccia il mondo.
Le lucciole sono una metafora che risale alla nostra infanzia. Sono le stelle che scendono tra di noi a indicarci i sentieri della vita nel buio della notte. Ci rassicurano sulla continuità tra giorno e notte, tra veder chiaro e immaginare, intuire. Non sono intermittenze, ma chiarori che appaiono qui e là. Dicono che la vita respira anche quando si dorme, sono un collegamento tra il sogno e il sorgere del sole, sono piccoli orizzonti, limiti e aperture, al tempo stesso, che indicano il nostro posto e le nostre possibilità di movimento nel gioco del mondo.
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