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NEUROSCIENZE: CAMBIAMENTI IN CORSO

1 Gen 19

A cura di bottac.fra

Apriamo questa importante collaborazione con Francesco Bottaccioli, presidente onorario della SIPNEI, che attraverso questa rubrica che abbiamo chiamato NON SOLO CARTESIO (con riferimento al lavoro di Antonio Damasio l'Errore di Cartesio), produrrà una serie di riflessioni incentrate sulla PNEI, una branca medica impegnata nel difficile ma importante tentativo di comprendere e rendere misurabili le interazioni mente (sistema nervoso e psicologia umana) – corpo (sistema immunitario, sistema endocrino). Da qui il nome Psico-neuro-endocrino-immunologia.
 
Sul sito della SIPNEI, leggiamo: "Studiare la Pnei, incontrare vitamine che si comportano da immunomodulatori, citochine che modificano l’umore, alimenti che spengono l’infiammazione, ormoni che influenzano capacità cognitive, è un’esperienza felice e stimolante….."

D'altronde, le contaminazioni attuali tra discipline un tempo apparentemnte incompatibili (neuropsicoanalisi, psicoterapie a razionale bottom-up- come la psicoterapia sensomotoria, psicobiotica), ci raccontano di quelli che sono i "cambiamenti in corso" citati da Bottaccioli in questo interessante articolo di apertura della rubrica, nonchè di un'attitudine finalmente inclusiva, orizzontale e post-ideologica, a orientare il lavoro della (neuro)scienza.

Raffaele Avico, redazione Psychiatry On Line
 

NEUROSCIENZE: CAMBIAMENTI IN CORSO
 

Il paradigma che domina le neuroscienze dalla loro fondazione, in sintesi, può essere così riassunto: l’organismo è dominato dal cervello, che, grazie alla selezione genetica naturale è strutturato in moduli specializzati che rispondono al meglio ai diversi input interni ed esterni. Da qui due conseguenze: la mente è uguale al cervello, nel senso che per conoscere l’attività della mente (cognitiva ed emozionale) basta conoscere l’attività dei neuroni; il cervello, quale dominus dell’organismo, geneticamente programmato, non è influenzato dalle attività psichiche, né dai comportamenti, né dalle attività dei sistemi biologici dell’organismo.

A questo paradigma, nel corso dei decenni, hanno contribuito molte figure di scienziati, psicologi e filosofi della mente (Bottaccioli F, Bottaccioli AG 2017, cap. 7). Il contributo che Antonio Damasio, Joseph LeDoux e Eric Kandel, celebri e influenti neuroscienziati, hanno dato alle idee nel campo delle neuroscienze è stato rilevante su tre aspetti: Damasio, a partire dal suo “Errore di Cartesio” (1994), ha evidenziato la centralità del corpo; LeDoux, con il suo “Cervello emotivo” (1996), ha segnalato, in pieno razionalismo cognitivista, la centralità delle emozioni; da Kandel, con “Psichiatria, Psicoanalisi e Nuova biologia della mente” (2005), è venuta la sottolineatura del ruolo biologico delle terapie psicologiche.

Pietre miliari che hanno segnato la strada della conoscenza, ma è pur vero che il loro contributo non ha scalfito il paradigma dominante, poiché Damasio, in tutte le sue opere, ha ribadito il ruolo gerarchico del cervello che, certamente, ha il corpo come preoccupazione, di cui ne mappa costantemente l’attività, ma dal quale non è influenzato. Dal canto suo, LeDoux, con le ricerche sull’amigdala, definita la sede della paura, ha rafforzato la visione modulare del cervello e l’identità mente-cervello nel senso che, dalla concettualizzazione di quelle ricerche, si poteva trarre la conclusione che le emozioni sono schemi reattivi innati, implementati nelle regioni profonde del cervello, in quel “cervello mammaliano”, antica eredità dell’evoluzione delle specie, teorizzato da McLean con la metafora del “cervello trino”. Infine, Kandel in tutte le sue opere ha costantemente evidenziato la centralità della genetica cerebrale e la validità del paradigma riduzionista in neuroscienze.

Negli ultimi tempi, registriamo cambiamenti di assoluto rilievo, che mi pare opportuno sottoporre all’attenzione di studiosi e operatori (gli argomenti che seguono sono ripresi in parte da Bottaccioli 2018).

LeDoux ripensa la paura


 

In un recente intervento (LeDoux 2018) il neuroscienziato newyorkese, ribadisce che sbagliò a etichettare “sistema della paura” il sistema cerebrale che identifica e risponde alle minacce. “Era un errore (mistake)” – aveva scritto in un altro testo (LeDoux 2015, p. 460). Errore corretto distinguendo i circuiti. Con un articolo su Neuron, LeDoux (2012) opera la fondamentale distinzione tra circuiti difensivi, centrati sull’amigdala, ed emozione di paura che viene elaborata a livello corticale. Più recentemente, in due altri articoli (LeDoux, Brown 2017; LeDoux, Hofmann 2018), egli prende di petto il paradigma dominante e i suoi costruttori, partendo da Darwin per arrivare a Panksepp e al Damasio dell’“Errore di Cartesio”.

LeDoux, in questi scritti, critica “il punto di vista convenzionale secondo cui le emozioni sono innate e programmate nei circuiti sottocorticali”, proponendo invece che “le emozioni siano stati di più alto ordine (higher-order states) stabiliti nei circuiti corticali”. In questa critica, il bersaglio sono le teorizzazioni di McLean e di Panksepp, che collocano, nel cervello umano, la cognizione in alto (corteccia) e le emozioni in basso (tronco dell’encefalo e sistema limbico). Panksepp, in particolare, riprendendo McLean, descrive tre livelli cerebrali: un livello primario, dove albergano le emozioni che condividiamo con tutti gli altri animali (per esempio, la paura e la gioia), un livello secondario, dove risiedono emozioni più elaborate (per esempio, l’empatia e l’orgoglio) e, infine, un livello terziario, esclusivamente corticale, dove albergano le funzioni di controllo cognitivo dell’emozioni (Panksepp, Biven 2014, p. 38).

Una teoria gerarchica evoluzionistica del cervello e della mente che ha ottenuto una grande audience. Per esempio, in Italia, Giovanni Liotti, su questa base, ha elaborato una “teoria evoluzionistica della motivazione” che si fonda su ciò che egli chiama approccio categoriale e cioè “ogni emozione primaria corrisponde a uno specifico modulo cerebrale sottocorticale, selezionato dall’evoluzione, relativamente indipendente dagli altri moduli, e solo debolmente influenzabile dalle attività sovramodulari delle reti neurali neocorticali” (Liotti et al. 2017, p. 47). Il fatto interessante e nuovo è che lo stesso Liotti, in questo testo, che è l’ultimo prima della sua scomparsa, senta la necessità di prendere le distanze dall’approccio categoriale, proponendo “un punto di incontro tra l’approccio categoriale e quello dimensionale-culturale” delle emozioni, sostenendo che queste vengono costruite dal cervello e dalla cultura umani e che, contrariamente alla visione McLean-Panksepp, non sono sovrapponibili a quelle dei rettili e dei topi (idem, p. 48).

Quindi, riprendendo la riflessione di Joseph LeDoux, possiamo con lui affermare che “la differenza tra un’esperienza emozionale e una non emozionale, non sta nel fatto che l’una ha un’origine subcorticale e l’altra corticale, ma piuttosto nel tipo di input processati dal network corticale”.

Le emozioni quindi sono costruite, a partire dalla registrazione e interpretazione dei segnali, che vengono dall’attivazione dei circuiti difensivi, ma che trovano il loro peculiare significato nelle categorie psichiche interpretative messe in campo dal soggetto, che sono il frutto della sua personale storia di sviluppo. Come scrive Lisa Feldman Barrett (2017, p. 104): “Le emozioni non sono reazioni al mondo. Sono la tua costruzione del mondo”.

Damasio ripensa i sentimenti

Damasio, nel suo ultimo libro “Lo strano ordine delle cose” (2018) e in una recente intervista (Cicerone 2018), critica esplicitamente la visione gerarchica dell’organismo umano centrata sul cervello. Lo fa ricostruendo il network che collega il sistema nervoso centrale a quello periferico e, per la prima volta, nei suoi scritti, anche agli altri sistemi biologici, tra cui segnatamente il sistema immunitario. Il quadro che emerge è schiettamente PNEI. E, infatti, dichiara a Pnei News che la “Psiconeuroendocrinoimmunologia è un’applicazione, in salute e medicina, della comprensione scientifica dell’insieme dei sistemi regolatori dell’organismo” (Cicerone 2018).

La descrizione che Damasio dà del network PNEI è limpida: “I sentimenti non sono eventi neurali isolati. È coinvolto in modo cruciale il corpo vero e proprio, un coinvolgimento che vede partecipare altri sistemi importanti e decisivi per l’omeostasi, come i sistemi endocrino e immunitario” (Damasio 2018, p.146).

Corpo e cervello comunicano e si modificano vicendevolmente: “Il corpo ha un accesso diretto, incondizionato, al sistema nervoso, ed è vero che il corpo dà libero accesso al sistema nervoso (…) come in un ‘dare e avere’ che chiude in modo saldo molteplici cicli di segnali, dal corpo al cervello, di ritorno al corpo, e poi ancora al cervello. In altre parole, come conseguenza dell’informazione che il corpo offre al cervello sul proprio stato, il corpo viene modificato a giro di posta” (idem, p. 148).

La comunicazione non è solo di tipo nervoso: “Il processo è [anche] umorale: segnali chimici che viaggiano nei capillari sanguigni inondano certe regioni del sistema nervoso prive di barriera ematoencefalica e possono così informare direttamente queste regioni cerebrali” (idem, pp.151-152).

Anche in Damasio, come nel caso di LeDoux, la critica nei confronti del cognitivismo, nella versione classica e in quella moderna della intelligenza artificiale, s’accompagna ad accenti autocritici.

Due esempi: uno di autocritica implicita e l’altro esplicita.

Il primo riguarda anche qui i conti con la tradizionale visione McLean-Panksepp: “Tradizionalmente – scrive Damasio alle pp. 150-51 – si dice che il corpo trasmette al sistema nervoso centrale informazioni usando varie strategie che consegnano l’informazione alle cosiddette parti ‘emozionali’ del cervello. La descrizione classica fa riferimento (…) al ‘cervello limbico’ e al ‘cervello rettiliano’. È facile capire perché queste espressioni hanno preso piede in letteratura. Tuttavia oggi il loro uso è di scarsa utilità. Negli esseri umani, queste strutture ‘più antiche’ includono settori ‘moderni’, come se si trattasse di vecchie case dotate di bagni e cucine ristrutturate con maestria; né l’attività di questi settori è indipendente. Piuttosto, è interattiva”.

Conti chiari con Panksepp, anche se non espliciti, poiché un attento lettore può agevolmente rintracciare in tutte le opere di Damasio, dall’ “Errore di Cartesio” fino al “Il sé viene alla mente”, una esaltazione del lavoro di Panksepp, presentato come “una notevole eccezione” rispetto alle idee dominanti, soprattutto per l’enfasi che ha posto sulla “collocazione dei sentimenti primordiali nel tronco dell’encefalo” (Damasio 2012, pp. 34-37 e passim).

Nel secondo esempio, l’autocritica è esplicita: riguarda l’intestino e al suo sistema nervoso. Damasio, nel “Lo Strano ordine delle cose” scrive che “il sistema nervoso enterico viene raramente citato nei corsi di medicina, e, quando succede, è considerato in genere una componente periferica del sistema nervoso. Solo in tempi recenti è stato studiato in dettaglio. È pressoché assente nelle trattazioni scientifiche dell’omeostasi, dei sentimenti e delle emozioni, anche nelle incursioni che io stesso ho fatto in quelle aree, dove i riferimenti al sistema nervoso enterico sono stati a dir poco cauti” (Damasio 2018, p.156, corsivo mio). Quindi Damasio, per sua ammissione, è stato per lo meno troppo cauto nel valutare l’importanza del sistema nervoso intestinale. Ma, occorre chiedersi: perché?

Una risposta sembrerebbe stare nella dichiarata novità dell’argomento: non si conosceva fino a poco fa il ruolo del sistema nervoso enterico. Eppure le cose non stanno così.

La prima monografia moderna sul tema è del 1987 (Furness, Costa) e sono del 1994 due ampie review (Gershon et al.; Costa, Brookes) mentre nel 1996 (Goyal, Hirano) l’ Enteric Nervous System ha fatto la sua dettagliata comparsa (inclusi i risvolti clinici) nel New England Journal of Medicine, una rivista che non passa sotto silenzio. Tant’è che, nella prima edizione del mio libro Psiconeuroimmunologia (settembre 1995), ho dedicato un paragrafo dal titolo “Anche la pancia ha il suo cervello” (Bottaccioli 1995, pp.18-19) e poi, qua e là, diversi spunti anche di tipo clinico (pp.224-226), conseguenti a queste nuove conoscenze: nuove nei primi anni ’90, quando mi dedicai alla scrittura di quel libro.

Quindi le evidenze, iniziali ma ben supportate, sul ruolo del “secondo cervello”, c’erano un quarto di secolo fa. Perché Damasio non le vide? Perché non aveva gli occhiali per vederle. Difettava di un paradigma sistemico, che illuminasse tutte le connessioni bidirezionali del nostro organismo. La sua ricerca, pur anomala, era tuttavia interna al paradigma riduzionista dominante.

Kandel per un nuovo umanesimo scientifico

Le tesi che il premio Nobel per la medicina porta avanti da un ventennio, presentate per la prima volta in un celebre articolo su American Journal of Psychiatry (1998), sono state recentemente riprese e ampliate in un testo di sintesi (2018) “The disordered Mind” (ed it. “La mente alterata. Cosa dicono di noi le anomalie del cervello”). Al centro c’è “la nuova biologia della mente” frutto dell’incontro tra scienze diverse, tra la filosofia della mente, la scienza cognitiva e le scienze del cervello.

Il risultato è una nuova visione dell’organizzazione del cervello, delle funzioni mentali e dei disturbi psichiatrici (quest’ultimi sono l’oggetto prevalente de “La mente alterata”). Anche se Kandel rimane decisamente convinto che la genetica, con i test clinici del DNA ci darà, in tempi prossimi, la possibilità di conoscere in modo penetrante le persone ad alto rischio di disturbo mentale – previsione che francamente appare per lo meno molto ottimistica – è rilevante che lo studioso della memoria dell’Aplysia metta in primo piano il ruolo dello stress, della psicoterapia, dell’alimentazione e dell’attività fisica perché i geni non agiscono nel vuoto, si esprimono in relazione con l’ambiente. In questo libro non si parla di epigenetica. E non è un caso perché, a mio avviso (Bottaccioli 2014), se la ricerca epigenetica entrasse pienamente nel paradigma di Kandel, ridimensionerebbe drasticamente la fiducia nella ricerca genetica riduzionista che traspare in ogni pagina dei suoi scritti e darebbe, al tempo stesso, un fondamento ancor più solido al ruolo delle psicoterapie che lo scienziato sostiene risolutamente. Infine, in un’epoca dominata dal cognitivismo e dal disprezzo per tutta la variegata tradizione psicodinamica, non è di poco conto che, con la sua autorità, Kandel scenda in campo invitando a un esame storico e scientifico delle idee psicoanalitiche in un quadro di costruzione di una nuova cultura psicologica, che richiede un coraggioso ripensamento dei bagagli tradizionali. Processo dal cui esito dipenderà anche la formazione di quel nuovo umanesimo scientifico che è l’orizzonte che lo scienziato indica ai due grandi dipartimenti della conoscenza: quello biofisico e quello antropologico.

La neurologia fuoriesce dal cervello

Di indubbio interesse è anche il sommovimento in corso nella disciplina più antica, nella scienza regina del cervello, nella neurologia.

La demenza, il Parkinson, la sclerosi multipla, per citare le più note e antiche patologie del neurologo, dopo la snervante e infruttuosa ricerca del virus e/o del gene responsabili della patogenesi, sempre più vengono studiate nelle loro relazioni con l’ambiente esterno (Mirza et al 2017), con lo stato interno dell’organismo (Spielman et al. 2018; Skaper et al. 2018) e con lo stile di vita occidentale (Matveeva et al. 2018), segnatamente: attività fisica (Adami et al. 2018), nutrizione (Taylor et al. 2018; Wang et al 2017), stress (Hoeijmakers et al. 2018; Hasselgren et al. 2018).

Una fuoriuscita della neurologia dal cervello, favorita dall’irrompere delle neuroscienze e dalla ricerca inter- e transdisciplinare, che quindi include la ricerca psicologica e la psicoterapia clinica, ma anche la scienza della nutrizione e altre discipline mediche e comportamentali.

Questo cambiamento viene costantemente alimentato anche dalla ricerca di base che documenta le influenze dei comportamenti sulla cosiddetta plasticità cerebrale, mostrando la via e le modalità con cui la psiche, la cultura e l’organismo intero retroagiscono sull’assetto dei circuiti nervosi modellandoli in senso adattativo o disadattativo (Dutcher, Creswell 2018; Valk et al. 2017).

Per concludere

Nell’ambito delle neuroscienze, le più recenti elaborazioni di Antonio Damasio e Joseph LeDoux vanno nella direzione del superamento radicale del riduzionismo, a favore di una visione sistemica dell’organismo umano, in un quadro di interazione tra la psiche, il cervello e gli altri sistemi biologici. Da parte sua Eric Kandel approfondisce e arricchisce la sua tradizionale proposta di fusione tra le scienze biologiche e le discipline umanistiche, enfatizzando il ruolo della psicoterapia come mezzo di influenzamento della biologia. La stessa neurologia, sospinta da un crescendo di evidenze sulle influenze cerebrali dei sistemi biologici periferici, della psiche e dei comportamenti, è costretta a un ripensamento generale del suo statuto scientifico aprendosi a nuove idee ed esperienze cliniche di tipo sistemico.

Questo quadro di cambiamenti va connesso con i cambiamenti in corso in psicologia, dove, anche qui, non mancano le novità.

In ambito psicologico e psicoterapeutico, le due principali tradizioni, la psicodinamica e la cognitiva, sono percorse da correnti critiche che prospettano il superamento di alcuni capisaldi del loro rispettivo patrimonio tradizionale, a favore di un avvicinamento che, in alcuni, è esplicito progetto di integrazione

teorica e pratica. Ma di questo, scriveremo in un prossimo articolo.

 

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