MARGINALIA: Architettura e salute mentale: Vuoti di memoria
Questo filone tematico avrà come oggetto di indagine il rapporto tra psichiatria e architettura, relativamente poco dibattuto in letteratura, e in ogni caso da riscoprire. Partiremo dall'usare degli estratti di una brillante tesi di dottorato curata da Maria Pia Amore dell'Università degli Studi Federico II di Napoli, per allargare e complessificare, quando necessario, il discorso.
Questo filone tematico incentrato sull'"architettura della psichiatria" (ma anche sulla "psichiatria-psicologia dell'architettura") sarà curato da Maria Pia Amore.
Raffaele Avico, redazione Psychiatry on line Italia
Gli articoli pubblicati sono estratti della tesi di Dottorato in Architettura, XXXI ciclo, DIARC, Università degli Studi di Napoli Federico II dal titolo “RELAZIONI INEDITE. LA DEFINIZIONE DEL MARGINE TRA GLI EX MANICOMI E LA CITTÀ: APPUNTI PER UN INVENTARIO”. La dissertazione dottorale si incardina in un processo di sedimentazione e ibridazione tra le questioni architettoniche e quelle “psichiatriche” avviato nel 2013 quando per la prima volta ho messo piede nell’ex Manicomio provinciale di Napoli, il “Leonardo Bianchi”: una città dentro la città, silenziosa e dimenticata, ai più sconosciuta, quasi interamente abbandonata, dove la luce, filtrata tra le foglie di una rigogliosa vegetazione ormai selvaggia, restituiva una “strana bellezza” a un luogo per molti aspetti “inquietante”.
Libera Viva, Elisabeth Hölzl, Napoli, Ex Manicomio Provinciale “Leonardo Bianchi”, 2011
Vista aerea, Google Maps, Napoli, Ex Manicomio Provinciale “Leonardo Bianchi”, oggi
Con l’entrata in vigore della legge Basaglia gli Ospedali Psichiatrici hanno definitivamente perso la funzione per la quale sono stati costruiti: la rigida forma – con padiglioni, corridoi di distribuzione, cortili e recinti – è staccata dalla funzione che l’ha determinata. Se «la forma segue la funzione» [1] ma «noi continuiamo a fruire di elementi la cui funzione è andata da tempo perduta» [2], quando parliamo di eterotopie e istituzioni totali abbandonate, la funzione si sposta su qualcosa di diverso, di più complesso del semplice uso. La forma delle architetture – cittadelle con un riconoscibile impianto geometrico – tende a rimanere la stessa, ad eccezione delle modificazioni subite nel tempo dell’esercizio e del decadimento che segue l’abbandono. Inserendosi in una condizione del pensiero contemporanea che supera le dicotomie della Modernità, il tema trattato è stato sviluppato al di là del vocabolario autoreferenziale e limitato al binomio forma/funzione. Se l’Architettura è in grado di esprimere l’identità individuale e culturale di una società e di esplicare idee che trascendono le sue funzioni programmatiche e strutturali per essere elaborazione materiale e simbolica dello spazio della vita umana, la ricerca indaga lo spazio che non solo è oltre la dicotomia forma/funzione, ma anche lo spazio che è “tra” le istanze della tutela e quelle del cambiamento. Uno spazio complesso all’interno del quale trovano posto ricognizioni sulla natura fisica dei luoghi e perlustrazioni sul loro “senso” in relazione a un tempo trascorso e a uno in corso, in ragione dell’interesse per quello a venire. Cosa sarà di queste architetture – su cui gravitano fievoli interessi da parte della cultura architettonica e forti interessi economici da parte di chi ne detiene la proprietà – che sono state e continuano a essere estranee alla vita delle collettività urbane, off limits e offside da tutti i punti di vista? Non solo la loro funzione ma anche la loro architettura, in termini di posizione, di dimensione, di morfologia, di relazioni interne ed esterne, e perfino di estetica, è stata determinante nella costruzione di questa alterità.
- Nel famoso saggio The Tall Office Building Artistically Considered (1896) Sullivan conia l’efficace motto allitterante, poi divenuto slogan svuotato di molte delle sfumature del suo ideatore, “form follows function” inserendonsi nelle riflessioni ampiamente diffuse nella cultura architettonica del tempo sia in Europa che in America, grazie a Gottfried Semper. «Where function does not change, form does not change».
- Rossi A., L’architettura della città (I ed.1966), Quodlibet, Macerata 2011, p.55. Si veda anche ivi, Critica al funzionalismo ingenuo, pp.34-37
VUOTI DI MEMORIA
Sulla “distruzione dell’ospedale psichiatrico”, come “fatto urgentemente necessario”, Basaglia aveva scritto nel 1964: «Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale (risultato della malattia che Burton chiama “institutional neurosis” e che chiamerei semplicemente istituzionalizzazione); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento» [1].
Nella prefazione del testo I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento [2], la prof.ssa Cettina Lenza, ordinario di Storia dell’Architettura e coordinatore del Programma PRIN 2008 sul tema, accenna alla prolungata damnatio memoriae che ha rimosso dalla memoria collettiva gli ex ospedali psichiatrici. Con la «condanna della memoria» in genere si intende l’eliminazione consapevolmente eseguita del ricordo di persone o di eventi, trasposto della memoria damnata riportata dalle fonti del diritto romano [3]. La cancellazione di ogni ricordo, che in epoca moderna è stata esercitata anche nei confronti di ideologie e periodi storici particolarmente drammatici – valga come unico esempio la cancellazione dei simboli nazisti nella Repubblica Federale Tedesca negli anni del dopoguerra, accompagnata dal tentativo di rimozione degli eventi storici in sé intentata dal negazionismo dell’olocausto – ha contribuito a rendere i manicomi meno indagati rispetto ad altre architetture funzionali e più vulnerabili tra le categorie di beni dismessi. «C’erano una volta i manicomi, luoghi di barbarie assoluta» [4]. Il meccanismo della rimozione è per la psicoanalisi delle origini (di cui scrivo rea di una preparazione di certo inadeguata) una strategia di risoluzione di un conflitto: il contenuto inquietante e traumatico viene scacciato, rimosso dalla coscienza, dalla memoria. La storia dell’architettura manicomiale è indissolubilmente legata alla storia dell’istituzione manicomiale: la necessità di rimuovere dalla memoria gli errori e gli orrori di un’istituzione “violenta, coercitiva e discriminante” [5] ha trascinato nell’oblio le sue architetture. Omar Calabrese ci ricorda che l’oblio è definito come volontà di dimenticare, con accentuato senso di abbandono da parte della memoria e degli affetti: si vuole dimenticare un oggetto e si desidera disgiungersi da esso [6]. «Cancellare ha a che fare con nascondere, occultare, depistare, confondere le tracce, allontanare dalla verità, distruggere la verità. […] »[7].
Raymond Depardon, MANICOMIO
Si è cercato di consegnare all’oblio il ricordo di quei luoghi di violenza che fin dalle origini sono stati messi sotto accusa per le condizioni di vita dei ricoverati: dalla prima inchiesta del parlamento inglese nel 1851 a quelle del parlamento italiano prima e dopo la legge del 1904, fino al secondo dopoguerra, quando gli Stati Uniti scoprono la “fossa dei serpenti” [8], e ancora alle inchieste sui manicomi italiani del settimanale l’Espresso negli anni ’60 [9]. Nella complessa evoluzione del rapporto tra scienza, comunicazione e società, l’uso della fotografia, negli anni Settanta accompagna la presa di coscienza di un fare scientifico che ammette il fallimento dei suoi metodi e dei suoi luoghi: gli ospedali psichiatrici. Superando l’uso catalogatorio e didascalico, perfino “spettacolare” [10] della tecnica fotografica in psichiatria – strumento per individuare, osservare e classificare la malattia mentale prima, strumento celebrativo dell’ordine dell’istituzione poi [11] – un gruppo di fotografi socialmente impegnati entra nell’istituzione psichiatrica. In un primo momento la fotografia interpreta e denuncia l’orrore della vicenda sociale e scientifica della psichiatria istituzionale, testimoniando la necessità di chiudere gli istituti psichiatrici; in un secondo momento, diffusa fra i movimenti politici di quegli anni l’esperienza di Franco Basaglia [12] a Trieste, i fotografi abitano temporaneamente gli ospedali psichiatrici per scattare le immagini dell’apertura verso l’esterno [13].
Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin
Nel 1969 Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin entrano con le loro macchine fotografiche nel manicomio di Gorizia e poi in quelli di Parma e Firenze: le fotografie scattate non sono semplice rappresentazione e denuncia della violenza manicomiale, ma analisi per immagini dei temi, già centrali nel lavoro di Basaglia, del corpo e dell’istituzione [14].
«Le foto di Berengo Gardin e Cerati svolgono infatti un discorso puntuale sul corpo dell’istituzione – muri, porte, chiavi, grate, divise in spazi vuoti di relazioni umane – e sui corpi istituzionalizzati – sequenze di corpi, materassi, lavandini, gabinetti, alberi; corpi come le panche su cui siedono o i pavimenti su cui giacciono; sguardi non vinti che arrivano da corpi imprigionati; pianto, curiosità, solitudine cupa, tenerezza attraverso sbarre, grate, reti» [15]. Le potenti fotografie di Berengo Gardin e Cerati, memorie visive e occasioni di memoria, ritornano oggi “visibili” nell’esposizione mediatica del quarantesimo anniversario della legge 180/1978 riconosciuta come la prima e avanguardista espressione di legge a sancire il superamento e la fine degli Ospedali Psichiatrici.
Una rinnovata attenzione medica, etica e sociale richiesta anche nelle parole del libro, che “non avrebbe mai voluto scrivere”, del Premio Pulitzer Ron Powers, Chissenefrega dei matti [16]: nelle prime pagine l’autore racconta di un sogno ricorrente in cui immagina il suo equilibrio mentale appoggiato su una membrana sottilissima e fragile che facilmente si strappa aprendo sotto di lui l’abisso della follia, dove altri precipitano; «Non è tanto l’impossibilità a frenare la caduta che è spaventosa ma è orribile avvertire, intorno, il mondo indifferente». Il sogno ricorrente per dire dell’urgenza ossessiva che si impadronisce di lui: scrivere per persuadere il mondo, in qualche modo, a prestare attenzione.
Con la moltiplicazione di articoli su quotidiani, giornali on-line e blog, dei servizi dedicati trasmessi sulle reti televisive e radiofoniche, delle mostre, delle manifestazioni culturali e degli incontri di specialisti e non in tutta la penisola, la ristampa dei testi di Basaglia e la pubblicazione di libri che variamente declinano il tema, è riemersa una maggiore attenzione – ancora minima da parte della cultura architettonica [17] – anche per il corpo di quell’istituzione ormai superata.
La fisicità dei luoghi dell’istituzione manicomiale è in realtà riemersa nel tempo della dismissione e della perdita di funzione in una dimensione quasi estetica dell’abbandono, perturbante e sublime. Una nuova, ampia ed eterogenea documentazione fotografica [18] – agli scatti di professionisti si aggiungono numerose immagini catturate da amatoriali urban explorer – che ha denunciato lo stato di dimenticanza dei luoghi e la necessità di tutela del patrimonio, ha contemporaneamente registrato il fascino dell’inedito assetto, estremamente suggestivo, dei complessi architettonici fagocitati da una rigogliosa vegetazione. Si potrebbe accettare lo stato di abbandono degli ex complessi manicomiali come Manifesto del terzo paesaggio [19], aree di riserva della biodiversità da cui si esclude l’uomo: probabilmente buona parte della cultura (anti)psichiatrica considererebbe questa ipotesi il miglior epilogo per la rivoluzione basagliana.
Libera Viva, Elisabeth Hölzl, Napoli, Ex Manicomio Provinciale “Leonardo Bianchi”, 2011
L’inevitabile e ricca contaminazione della ricerca con la storia e le ragioni della psichiatria – che potrebbero, estremizzandone un ruolo iconico, lasciare alla distruzione del tempo le architetture dell’istituzione manicomiale – non ha compromesso la volontà, accanto alla lettura critica di questa eredità immateriale, di richiamare l’attenzione, già sollecitata in termini storiografici dalla ricerca finanziata dal MIUR nell’ambito del Programma PRIN 2008, sul lascito materiale, sulla presenza fisica di questi corpi (architettonici) nel territorio contemporaneo. Corpi dimenticati, oggi spazi sottoutilizzati, abbandonati, vuoti.
Come scrive Ignasi de Solà Morales un luogo vuoto in una città «è anche un luogo apparentemente dimenticato dove sembra predominare la memoria del passato sul presente, un luogo obsoleto dove certi valori permangono malgrado un abbandono completo del resto dell’attività urbana, un luogo che è in definitiva esogeno ed estraneo, fuori dal circuito delle strutture produttive della città, un’isola interna disabitata, improduttiva e spesso pericolosa, contemporaneamente al margine del sistema urbano e parte fondamentale del sistema. Sembra infine come la contro-immagine della città, sia nel senso di una sua critica, che in quello dell’indizio di un suo possibile superamento. La relazione tra l’assenza di utilizzazione e il sentimento di libertà è fondamentale per cogliere tutta la potenza evocatrice e paradossale del terrain vague nella percezione della città contemporanea. Il vuoto è l’assenza, ma è anche la speranza, lo spazio del possibile. L’indefinito, l’incerto è anche l’assenza di limiti…La presenza del potere invita alla fuga dalla sua impresa totalizzante, il conforto sedentario chiama il nomadismo non protetto, l’ordine urbano chiama l’indefinito del terrain vague, vero indice territoriale delle questioni estetiche ed etiche che sollevano le problematiche della vita sociale contemporanea» [20]. Spazi vuoti di speranza e di possibilità a cui Giancarlo Mazzanti riconosce un potenziale valore di spazio collettivo, spazio che «è per sua natura uno spazio vuoto, ma il suo valore si definisce nel momento in cui viene occupato, utilizzato e riempito». Spazi vuoti che Kevin Lynch ci aiuta a leggere nelle logiche ecologiche e sostenibili del pensiero contemporaneo: «La parola waste viene dal latino vastus, che vuol dire disabitato o desolato, un termine affine al latino vanus (vuoto o vano), e al vocabolo sanscrito per mancante o difettoso. Così in origine esso significava grosso, vuoto, spoglio, inutile e ostile all’uomo. […] Lo scarto (waste) è ciò che non vale niente o non ha uso per scopi umani. È la riduzione di qualcosa senza risultato utile; è perdita ed abbandono, declino, separazione e morte. […] L’abbandono genera scarto. Noi ritiriamo il nostro interesse per qualcosa, permanentemente e senza alcun motivo, dal momento che l’oggetto ha esaurito il suo valore per noi» [21].
Frammenti di un passato appena trascorso che hanno esaurito il loro uso e significato originario, vuoti perché scartati e spesso abbandonati, vengono interpretati attraverso una prospettiva che ne comprende il senso della memoria nel contesto del progetto e delle esigenze dei tempi odierni. Il ritorno del rimosso [22], la riabilitazione al ricordo, il diritto di cittadinanza nella coscienza della cultura anche architettonica viene ricercato «con la consapevolezza del passato e la responsabilità del futuro […] esercitando da una parte la memoria, dall’altro la progettualità» [23].
Gli ex complessi manicomiali sono identificati all’interno della ricerca sia con il termine luogo che con quello di spazio: in questa tensione tra passato e futuro, prendendo in prestito la distinzione operata da Aleida Assmann tra raum e ort nell’introduzione Geschichte findet Stadt al testo Kommunikation – Gedächtnis – Raum [24] si giustifica un uso indiscriminato dei due. Raum (spazio) è qualcosa che va costruito, cui si deve dar forma, che s’intende sfruttare, occupare; è un dispositivo per attori intenzionali (conquistatori, architetti, urbanisti, politici). Ort (luogo) localizza una situazione passata, in cui si è agito, ne restano tracce, relitti, incisioni, cicatrici, ferite, orme. “Se dunque gli spazi sono gravidi di futuro, i luoghi sono gravati di passato”. Nello spazio dicotomico definito tra due opposte tendenze, schierate dietro i dogmi del heritage e i principi del recycle, tra il passato e il presente-futuro, potremmo ricorrere a un’investigazione “interstiziale”. «Che cos’è l’ interstiziale in architettura? Se l’architettura per tradizione localizza, allora “interstiziale” significa essere tra un luogo e un non-luogo. Se l’architettura per tradizione riguarda il “topos”, ovvero un’idea di luogo, allora interstiziale significa creare un “atopos”, l’atopia all’interno del topos. […] Il nuovo topos dei nostri giorni va cercato esplorando la nostra ineluttabile atopia del presente. Che non esiste in una nostalgia estetizzante del banale, ma nell’interstizio tra topos e atopia. Per realizzare tutto ciò, occorre anche analizzare criticamente il modo in cui si manifesta oggi il significato. Anche l’architettura […] deve mettere sotto esame le sue verità […]. Da Aristotele in poi, la verità ha condizionato la metafora. La metafora per definizione consiste nel rapportare un referente alla verità di una cosa nota. È però possibile ricorrere ad altri tropi retorici e in tal modo mettere in discussione lo status della metafora. Esiste un tropo chiamato catacresi che parla a ciò che è “interstiziale”. La catacresi seleziona la verità e rende possibile osservare quello che la verità reprime. […] Tafuri dice che esistono due tipi di architetti: il mago e il chirurgo. Oggi bisogna essere chirurghi: selezionare la metafora per scoprire la catacresi, sezionare l’atopos per scoprire un nuovo topos» [25].
Nello spazio della soglia tra l’atopos e il topos, in una zona intermedia che interagisce tra gli opposti, si articola un pensiero chirurgico in-between tra memoria e amnesia. L’in-between [26] nasce come lo spazio della soglia, una zona intermedia che interagisce tra ambiti spaziali comunicanti: appartenendo contemporaneamente ad entrambi, questo “spazio abitabile tra le cose” favorisce il contatto e la relazione tra “mondi diversi” e spazi distinti. Con l’introduzione del termine “intermedio” nella poetica di Van Eyck, lo spazio in-between si sostanzia attraverso un desiderio di reciprocità che egli definisce attraverso il concetto dei “fenomeni-gemelli”: «[...] in inglese between comprende il termine twain (entrambi), che a sua volta si ricollega a twin (gemelli) e a two. Il between è il segno dello spazio che inerisce la differenza, spazio che contemporaneamente “separa” e “tende verso”» [27]. Gli opposti sono considerati sempre in relazione alla realtà-gemella che ne è stata sottratta. Nell’età postmoderna il concetto dell’ in-between è stato utilizzato per decostruire i codici e i canoni classici attraverso i quali, per secoli, si è interpretata la realtà, per ampliare lo spettro di lettura e riprodurre nuove complessità spaziali. Oggi, privato delle ideologie che hanno attraversato il secolo scorso, l’in-between può esprimere la condizione intermedia e terza del contemporaneo. Nell’architettura contemporanea il principio concettuale dell’in-between è stato diffusamente recuperato come base teorica dell’agire progettuale; qui l’in-between viene esplorato come pensiero legato a principi di congiunzione, coordinazione e correlazione che si insinua tra le coppie oppositive proposte per inquadrare il tema, heritage e recycle, memoria e amnesia, pubblico e privato: è la complessità dei fenomeni analizzati e dei casi studio presi in esame a suggerire di procedere per le differenze e le interferenze che sussistono “tra”. «In mezzo, fra, entre-deux, l’in-between è il luogo dell’intermedio, dell’interstizio, dell’intervallo: lo spazio che apre e smuove l’autodefinizione dei termini [...] e dunque, luogo del movimento, dello sviluppo o del divenire, dove la sintesi è unità conflittuale, campo problematico di forze e finalità, capaci di realizzare una possibilità virtuale dello spazio architettonico» [28].
Prendendo in prestito le parole di Venturi, «sono per la ricchezza piuttosto che per la chiarezza del significato; per la funzione implicita come per la funzione esplicita; preferisco «e-e» a «o-o»: bianco e nero, e a volte grigio, a bianco e nero. Un’architettura valida stimola molti poli di interesse e molti livelli di significato: il suo spazio e i suoi elementi sono leggibili e fruibili contemporaneamente in molti modi allo stesso tempo. Ma un’architettura basata sulla complessità e sulla contraddizione richiede un impegno speciale verso l’insieme: la sua reale validità deve essere nella sua totalità, o nelle sue implicazioni di totalità. Essa deve perseguire la difficile unità dell’inclusione piuttosto che la facile unità dell’esclusione. Il più non vale di meno» [29].
1. Basaglia F., La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione. Mortificazione e libertà dello «spazio chiuso». Considerazioni sul sistema «open door», Comunicazione al I Congresso internazionale di psichiatria sociale, Londra 1964, in «Annali di Neurologia e Psichiatria», LIX, 1965.
2. Ajroldi C., Crippa M. A., Doti G., Guardamagna L., Lenza C., Neri M. L. (a cura di), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, Electa, Milano 2013, p.8
3. L’imputato in un processo di alto tradimento, dopo essere stato giustiziato, veniva condannato alla completa «pena della memoria», cioè veniva tramutato nel suo opposto il normale precetto al lutto e al ricordo.
4. Lupatelli P., I basagliati. Percorsi di libertà, Crace, Perugia, 2009
5. Scrive Franco Basaglia in Morire di calsse, 1969 «l’istituzione manicomiale ha in sé, nel suo carattere violento coercitivo discriminante, una più nascosta funzione sociale e politica: il malato mentale, ricoverato e distrutto nei nostri manicomi, non si rivela soltanto l’oggetto della violenza di un’istituzione deputata a difendere i sani dalla follia; né soltanto l’oggetto della violenza di una società che rifiuta la malattia mentale; ma è insieme, il povero, il diseredato che, proprio in quanto privo di forza contrattuale da opporre a queste violenze, cade definitivamente in balia dell’istituto deputato a controllarlo. […] L’irrecuperabilità del malato è spesso implicita nella natura del luogo che lo ospita. Ma questa natura non dipende direttamente dalla malattia: la recuperabilità ha un prezzo, spesso molto alto, ed è quindi un fatto economico-sociale più che tecnico-scientifico».
6. Calabrese O., Genio e smemoratezza, «Sfera»,n. 5, 1989, p. 104 e in Marini S., Corbellini G. (a cura di), Recycled Theory: Dizionario illustrato, Quodlibet, Macerata, 2016, al lemma Oblio, p. 378-379
7. Rossi P., Il passato, la memoria, l’oblio. Otto saggi di storia delle idee, Il Mulino, Bologna, 1991, p.25
8. Film drammatico di Anatole Litvak (1948, titolo originale The Snake Pit), tratto dall’omonimo romanzo di Mary Jane Ward, sul ricovero in una clinica psichiatrica di una giovane donna che ha perso la memoria. Il titolo dell’opera fa riferimento all’antica credenza per cui si pensava che abbandonando un malato di mente in un luogo che avrebbe fatto impazzire un sano come una fossa gremita di serpenti, il malato sarebbe diventato sano. Il film ha ispirato sostanziali cambiamenti nelle condizioni delle istituzioni psichiatriche degli Stati Uniti.
9. Giannichedda M. G., Il Corpo e l’istituzione, Semestrale di ricerca e divulgazione sociale Sconfinamenti, Editore Duemilauno Agenzia Sociale, Muggia (TS), 2008, ricostruzione volume Einaudi Morire di classe (1968).
10. Georges Didi-Huberman scrive, definendolo un paradosso dell’atrocità, che è quasi costretto a considerare l’isteria, nella misura in cui è stata “fabbricata” alla Salpêtrière nell’ultimo terzo del diciannovesimo secolo, come un capitolo nella storia dell’arte. Nel 1862 Jean-Martin Charcot diventa direttore della Salpêtrière, l’ospedale parigino dove Pinel libera le folli dalle catene nel 1795. La “città dolorosa”, abitata da “donne infernali”, diventa per Charcot un “museo patologico vivente”. Didi-Huberman G., Invention of Hysteria. Charcot and the Photographic Iconography of the Salpêtrière, Translated by Alisa Hartz, The MIT Press Cambridge, Massachusetts London, 2003
11. Manzoli F., La follia per immagini. Storia fotografica della fine dei manicomi, ICS - Innovations in the Communication of Science, SISSA, JCOM 3, Trieste, 2004
12. Franco Basaglia, medico italiano il cui apporto è ritenuto determinante nella riforma legislativa del 1978 alla quale si deve, in linea di principio, la soppressione degli ospedali psichiatrici. Tra le opere: L’istituzione negata (1968); La maggioranza deviante (1971) in collaborazione con la moglie F. Ongaro; Crimini di pace (1975). Postumi, gli Scritti (2 voll., 1981-82), curati dalla moglie.
13. Ricordiamo le potenti fotografie di Raymond Depardon, vincitore del Premio Pulitzer nel 1977, sull’isola di San Clemente a Venezia; Luciano D’Alessandro, che nella seconda metà degli anni Sessanta entra per primo in un manicomio per documentare la situazione degli internati dell’ospedale psichiatrico di Materdomini (Nocera Superiore); Mimmo Jodice a Napoli nel 1977; Gian Butturini, Paola Mattioli, Uliano Lucas, Neva Gasparo, fotografi che hanno tradotto in immagini il momento dell’apertura degli ospedali psichiatrici, e in particolare di quello di Trieste, avamposto delle lotte del movimento basagliano.
14. Sul tema del corpo e delle forme del dominio sul corpo poste in essere dall’istituzione totale ma anche dalla medicina e dalle nuove tecniche più pervasive di controllo, Basaglia ritorna in tutto il suo lavoro. Negli anni la ripresa di questo interesse si vede nei frequenti riferimenti al tema del “corpo organico”, “corpo economico” e “corpo sociale”, che si trovano in Conferenze brasiliane (2001), in Legge e psichiatria (1979) e Follia/delirio (1982).
15. Giannichedda, op.cit.
16. Powers R., No one cares about crazy people. The Chaos and Heartbreak of Mental Health in America, Hachette Books, New York, 2017, trad. it. Lo Iacono G., Prefazione all’edizione italiana di Peppe Dell’Acqua, Chissenefrega dei matti. Il caos e lo strazio della salute mentale, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento, 2018.
17. Il Giornale dell’Architettura il 15 maggio 2018 pubblica tre puntate dell’inchiesta sull’architettura manicomiale, «un sistema di riconosciuto valore storico-edilizio e urbano che a 40 anni dalla Legge Basaglia versa per lo più in stato di abbandono». Le alte fonti recenti, citate nel testo, sono l’espressione di un interesse al tema non imputabile alla fortuna mediatica del quarantennale. In ogni caso, gli anniversari aiutano sempre a risvegliare le memorie sopite: nel maggio del 2008, per i tren’anni della legge Basaglia, ANANKE esce con un Dossier nel n.54 dedicato al futuro degli ospedali psichiatrici in Italia, pp. 82-153
18. Oltre ai lavori dei fotografi italiani - il progetto “PERSISTENZE” (2006) di Giacomo Doni, “Libera Viva” (2012) di Elisabeth Hölzl, “Prigioni della Mente: quel che resta di Quel che era” (2013) di Ivan Agatiello – che si intrecciano con il più ampio progetto “Hospitalia” di Elena Franco, si segnalano, tra gli altri, gli scatti dell’austriaco Thomas Windisch “Asylums” (2017) dei manicomi abbandonati in Italia e il lavoro “Abandoned Asylums” (2016) di Matt Van der Velde sugli ex manicomi degli Stati Uniti.
19. Clément G., Manifeste du Tiers paysage, Sujet/Objet, Parigi, 2004 trad.it. Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2005. Con l’espressione “Terzo paesaggio”, Gilles Clément indica tutti i “luoghi abbandonati dall’uomo”: i parchi e le riserve naturali, le grandi aree disabitate ma anche gli spazi più piccoli e diffusi, le aree industriali dismesse dove crescono rovi e sterpaglie, le erbacce al centro di un’aiuola spartitraffico. Spazi diversi per forma, dimensione e statuto, accomunati solo dall’assenza di ogni attività umana, ma che presi nel loro insieme sono fondamentali per la conservazione della diversità biologica.
20. de Solà Morales I., Urbanitè Intersticielle, in «Inter Art Actuel», n.61, Québec, 1995, pp.27-28
21. Lynch K., Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, a cura di M. Southworth, CUEN, Napoli, 1992, pp.201-206
22. In propoisto, Aleida Assmann scrive: «In Freud all’atto della rimozione fa seguito necessariamente il riaffiorare del rimosso. Quintessenza di questo «oblio non pacificato» sono gli spiriti vaganti dei morti assassinati o insepolti, che ritornano come fantasmi spettrali. [...] Un passato non pacificato risorge inaspettatamente come un vampiro e cerca di insediarsi nel presente». Assmann A., Ricordare: forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 194. D’altra parte, come nota Elena Agazzi, «Freud viene costantemente coinvolto negli studi sulla memoria culturale che implicano l’elemento traumatico, perché il momento terapeutico – come concepito nelle sue teorie – si colloca tra l’esser stato (Gewesenheit) del paziente e un passato (Vergangenheit) che egli si è costruito ad hoc per rimuovere i ricordi dolorosi»; cfr. «Memoria culturale», in Cometa M. (a cura di), Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma, 2004
23. Tortora G. (a cura di), Semantica delle rovine, Manifestolibri, Roma, 2006, pp. 10-11
24. Csáky M., C. Leitgeb, Kommunikation – Gedächtnis – Raum. Kulturwissenschaften nach dem «Spatial Turn», Transcript Verlag, Bielefeld, 2009
25. Eisenman P., Cianografica in Inside Out. Scritti Scelti 1963-1988, Quodlibet, Macerata, 2004, p. 366
26. L’in-between è un concetto che nasce nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso come risposta alla visione dualistica del Moderno ed è assunto come spazio tra le cose o gli elementi del progetto da Aldo van Eyck e da altri architetti appartenenti al Team X
27. Teyssot G., Soglie e pieghe. Sull’intérieur e l’interiorità, in «Casabella» n. 681, 2000, pag. 33
28. Gregory P., New Escapes, Territori della complessità, in «Testo&immagine», n.138, 2004
29. Venturi R., Nonstraightforward architecture: a gentle manifesto in Complexity and Contradiction in Architecture, Museum of Modern Art, New York, 1966, p. 22; trad.it. Un’architettura non semplice: un manifesto gentile in Complessità e contraddizione in Architettura, Dedalo, Bari, 2002, p.16