Le tecniche di brain imaging consentono di osservare in tempo reale le zone del cervello che vengono coinvolte durante particolari accadimenti. In questo studio del 2012 i ricercatori osservarono la gestione del contatto oculare e le conseguenza di essere sottoposti a uno sguardo “diretto” tra persone con e senza stress post traumatico (PTSD).
Lo stress post traumatico potrebbe essere genericamente definito come un insieme di sintomi che si presentano conseguenti a un trauma (unico e grande, o minore ma ripetuto), tra cui problemi di insonnia, flashback vividi in cui ci si trova mentalmente immersi nel ricordo o scena traumatica, e una serie di sintomi riguardanti il corpo e le ripercussioni sul corpo del rivivere le memorie traumatiche (ricordi che, per usare una terminologia informatica, divengono embedded, o incarnati).
In questo esperimento, che utilizzava un software con un avatar che volgeva uno sguardo diretto al partecipante, veniva in tempo reale osservata la risposta al contatto oculare diretto. Si osservava che i due gruppi avevano risposte diverse: nel gruppo senza PTSD veniva coinvolta una zona del cervello più recente ed evoluta, con cui rappresentiamo la mente dell’altro e ci mettiamo in connessione. Nel gruppo con i soggetti soggetti a PTSD, invece, si osservava l’intervento di zone più antiche e profonde, all’interno del tronco dell’encefalo, che si attivano solitamente in caso di pericolo di vita e minaccia. L’attivazione di queste zone, tra l’altro, disconnette le altre parti del cervello che ci permettono di entrare in contatto con gli altri, rendendoci di fatto a-sociali nel senso più letterale del termine, ovvero “non in grado” di affiliarci e creare connessione agli altri.
Questo studio ben evidenzia come, per coloro che sopravvivono a un trauma o più traumi cumulativi, la gestione del contatto oculare può rappresentare un primo ostacolo verso la possibilità di introdursi all’interno di un gruppo di pari, di creare un legame. Quando anche solo uno sguardo diretto è in grado di allarmarci, poiché percepito come intrusivo e violento, la gestione del rapporto nel suo divenire (che dovrebbe avvenire in un contesto di sicurezza percepita e assenza di ansia), diviene problematico e difficoltoso. Uno sguardo, per chi sopravvive a storie traumatiche, è in grado di riattivare vissuti di minaccia: viene caricato di significati che spesso non trovano giustificazione nella situazione presente, ma hanno senso se pensati come connessi a qualcosa di passato, antico e mai veramente elaborato e digerito in senso relazionale.
QUALE L'APPROCCIO TERAPEUTICO PIÚ EFFICACE?
In questo articolo (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0272735817302271#bb0370) gli autori hanno fatto una ricapitolazione di 32 studi focalizzati sulla psicoterapia dello stress post-traumatico, effettuati dal 1980 al 2015 su circa 3400 pazienti, senza l’ausilio di farmaci (che sarebbe stato una variabile confondente). L’obiettivo era indagare i 6 mesi successivi la fine dei percorsi di psicoterapia, così da valutare quale tipo di intervento psicoterapico fosse maggiormente efficace nel tempo, se la sua efficace durasse nel tempo e per quali “fattori”. Le popolazioni studiate all’interno dei diversi studi, dovevano inoltre essere almeno composte da 30 individui, così da evitare bias di tipo statistico e rispettare un rigoroso metodo di analisi dei dati.
Le variabili dello studio includevano diversi fattori: i pazienti affetti da PTSD potevano per esempio appartenere o meno alla categoria “veterani di guerra”, così come essere affetti da trauma di tipo sessuale o meno, etc. Lo studio voleva mettere sul piatto molteplici variabili per correlarle e trarne delle conclusioni affidabili intorno a quali siano i migliori strumenti clinici da usare con il PTSD.
Nella discussione dei risultati, gli autori fanno notare che tra le varie tipologie di trattamento messe in atto con i pazienti (terapia cognitivo-comportamentale, terapia espositiva, terapia con EMDR, terapia cognitiva “mista” -che cioè prevedeva interventi psico-educativi, social skills training, etc), la terapia espositiva sembrò, a distanza di 6 mesi, mantenere in modo più efficace i risultati che si erano ottenuti a fine percorso. Non emerge in ogni caso dallo studio una metodologia che spicca tra le altre in termini di efficacia: tutte corroborano le evidenze che già nelle linee guida per il trattamento del PTSD erano state messe in luce: l’uso di una psicoterapia a base “espositiva” consente di ottenere i migliori risultati, indipendentemente dal tipo di trauma, dalla lunghezza del trattamento e del tipo di paziente.
Un ulteriore punto di interesse, è l’osservazione della forte comorbilità tra PTSD e depressione maggiore, osservata, come si legge qui (https://uncch.pure.elsevier.com/en/publications/the-co-occurrence-of-major-depressive-disorder-among-individuals), in più del 50% dei casi.
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