Una Heimeweh della Valsugana

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16 gennaio, 2019 - 11:01
«Si può dire che la vita umana è anche temporale
e che, come comprese Proust,
la vita inevitabilmente è un ritorno.
Questi due aspetti ovviamente sono intrecciati.
Il concetto stesso di presenza combina spazio e tempo,
perché la presenza si fa sentire in un posto,
proveniente da un posto e nel mezzo del tempo
»
Ralph Harper. Nostalgia [01].
 
 
 
Riassunto
Nel 1987, l’autore esordì nel campo editoriale con un testo sulla nostalgia dei migranti. Ad incoraggiarlo fu un carissimo amico il prof Alceo Riosa (1939-2011), titolare di Storia  Contemporanea alla Statale di Milano. Anche per la consuetudine di aver sempre ascoltato e poi ritrascritto l’anamnesi dei pazienti, si era illuso di nutrirsi di fonti storiche direttamente da chi quella vicenda l’aveva esperita (Lebensgeschichte, Verlauf des Lebens). Per questo gli “storici di professione”, diciamo, erano sempre state le sue grandi passioni e i suoi migliori amici. Aveva perfino tentato invano di convincere il primo dei suoi 5 figli, che poi finì per fare l’Architetto, a dedicarsi alla storia. Riosa, oltre ad invitarlo a tenere un corso universitario a Milano, gli scrisse una lusinghiera prefazione [02]. Ora, appena cessate le celebrazioni della prima guerra mondiale, a cento anni da quel 1918, forse ha compreso quale fu la molla più riposta di quell’antico progetto. La nonna materna, la dolce nonna Giustina, cacciata dalle sue terre, a causa di Caporetto, si portò in petto il Leone di Magritte. Una forma di angoscia disperante e grave, fortunatamente reversibile. Gli etnopsichiatri la classificano fra i disturbi culturalmente ordinati. Qui viene brevemente raccontato tutto il non detto personale che esitò in quella ricerca di 32 anni fa . Chi scrive non può negare, tuttavia, che la rincorsa alla rievocazione di questa vicenda sia anche partita tempo fa quando lesse su POL.IT on line Italia (4 novembre 2015) Paolo F. Peloso, “Pensieri Sparsi” 1915-18 Vincitori e vinti. Egli rammentava le parole di uno psichiatra dell’Università di Genova, Moissey Kobylinsky, «del novembre 1914, prima che l’inferno avesse inizio anche per l’Italia» … «poi fumide di sangue umano divennero anche le montagne del confine nord orientale» – Proprio quelle della Nonna Giustina e – «Ci vollero quasi quattro anni perché il buon grano della vita tornasse a germogliare in quei luoghi». Il Collega Peloso dedicava, giustamente, la sua memoria «ai vinti anziché ai vincitori. E con tale espressione non mi riferisco ai nemici austriaci vinti, ai quali pure va un’umana solidarietà, ma ai vinti che hanno pagato un duro prezzo alla vittoria del Paese vincitore. Vinti italiani. Come gli oltre 600.000 morti tra i militari, i loro cari che non li videro tornare, gli oltre 900.000 feriti e mutilati». La ferita di nonna Giustina fu transitoria, fortunatamente, ma anche per questo mi piace raccontarla. Trovo ancora utilissima la bibliografia indicata da Paolo F. Peloso,, fra cui prezioso il testo della storica Bruna Bianchi, che ho conosciuto, apprezzato e frequentato durante il mio periodo d’insegnamento a Ca’ Foscari. La passione per la “Grande guerra” è come una malattia esantematica, dalla quale non ci si vaccina mai, più ne sai, più ne vorresti sapere.
 
Sopra stavano i “Cimbri”
«Situ Cimbro?» Era l’interrogazione che mi son sempre sentito rivolgere a Valstagna. Prima dalla Nonna Giustina, come risuono antico e familiare, poi distintamente da tutte le Zie materne, quando venivo loro affidato da mia madre, bambino vivace curioso e disobbediente che  faceva finta di non capire. Per tutti loro il massimo della estraneità e della diversità erano i “Cimbri” popolazione di origine germanica stanziata ad Asiago sull’altopiano dei Sette Comuni, in particolare Roana. I Cimbri costituiscono la minoranza etnica e linguistica attualmente stanziata in pochi centri sparsi nell'area montuosa compresa tra le province di Trento (Luserna), Vicenza (Asiago), e Verona (Tredici Comuni, in particolare Giazza).
Una minuscola isola cimbra, di origine più recente, si trova inoltre sull'altopiano del Cansiglio (province di Belluno e Treviso). Benché il loro idioma distintivo, la lingua cimbra, sia ormai in forte regressione e parlato solo da una sparuta minoranza, i cimbri possono comunque essere considerati un gruppo etnico a sé stante con usanze e tradizioni derivate dalla loro ascendenza germanica.I miei antenati di parte materna erano boscaioli, coltivatori di tabacco e allevatori di vacche sotto gli altipiani di Asiago. Vi salivano l’estate per fare stare al fresco le bestie La stazione della ferrovia si chiama Carpanè-Valstagna, la strada ferrata è la Valsugana, che da Mestre sale su fino a Trento Costeggia un fiume famoso, non come il Piave, né come l’Isonzo, ma di una certa notorietà, che scende in Laguna: il Brenta. Sopra scorre tra Asiago e il Monte Grappa e racchiude le “Grotte di Oliero”, splendido esempio di “carsismo”. Scendendo passa sotto il “Ponte di Bassano” e questo lo rende importante.
Non erano né nobili né ricchi, ma guadagnavano a sufficienza per decidere che il primo investimento da fare fosse quello di ospitare stabilmente un “Aio” [03], nella loro casa a Valstagna, contrada Londa, sulla riva destra del Brenta; 82 km sotto Trento, a 14 km dal confine con l’Austria-Ungheria, Primolano, e 13 sopra Bassano del Grappa. Mio nonno Giovanni era sceso di 4 km sulle riva sinistra del Brenta ed era andato a prender moglie a San Nazario (Sanazario). Le malelingue dicevano che trovasse sempre la fidanzata a casa, ma la nonna Giustina aveva una sorella gemella: la Maria. In ogni caso il nonno Giovanni era conservatore e tradizionale in tutto, dunque “mogli e buoi…”. Nacquero 6 figli: 3 maschi e 3 femmine. Quando cominciai a studiare le radici delle parole iniziai a pensare che il loro cognome potesse derivare dal fatto che erano alti e robusti, come dei “Cristoni” chiamati Giovanni, per dire.
Nei primi tre lustri del secolo scorso, la vita procedeva tranquilla, poi scoppiò la  "Grande Guerra" e da quelle parti, come in altre d’Europa, successe il finimondo. Per mia madre, che me ne parlava spesso, al contrario di mio padre che sull’argomento manteneva il più assoluto riserbo, era stata una vera sofferenza. Difficile comunque che, quando l’estate andavo a Valstagna, i parenti non me ne parlassero e poi non ne parlassero ai nipoti, i miei figli. Io, dal canto mio, da quando avevo letto Un anno sull'Altipiano il libro di memorie di Emilio Lussu mi ero molto documentato storicamente, anche con mappe e cartine geografiche. Successivamente, scoperto Il buon soldato Sc'vèik, di Jaroslav Hašek, come tra i più efficaci antidoti al militarismo, lo lessi avidamente. Per cercare almeno di attenuare un po’ lo sbigottimento a fronte della crudeltà e della stupidità degli alti comandi fino alla sostituzione di Luigi Cadorna (1850-1928).
Talvolta mi bastava solo l’incipit per non imprecare. «Quale Ferdinando, signora Müller?" domandò Sc'vèik senza cessare di massaggiarsi i ginocchi. "Io conosco due Ferdinandi: il primo è commesso dal droghiere Prušy, e una volta si bevve per isbaglio una bottiglia di lozione per capelli; e poi conosco anche Ferdinando Kòkoška, che raccoglie lo sterco di cane. Per tutti e due non sarebbe un gran male» [04]. Poi, di recente, tornando sull’argomento, sono venuto a spere della “strana morte” del generale Alberto Pollio (1852-1914) – favorevole alla “Triplice Alleanza” – due giorni dopo l’attentato di Sarajevo [05]. Per gli appassionati di storia critica e controfattuale l’attuale grande successo di Alessandro Barbero è più che giustificato.
 
Caporetto in casa dei miei nonni.
Ma cos’era successo in realtà 103 anni fa, 30 prima che io nascessi? Chi scrive ha memoria della propria nonna  Giustina, valsuganotta che, nel 1916, fu costretta dagli eventi bellici ad andare profuga a Benevento. Il ricordo di mia madre sedicenne era nitido e il racconto mi fu ripetuto più volte, quasi ad esorcizzarlo ogni volta che lo rievocava. Era venuto il sindaco trafelato a casa loro, a “Londa”, a percuotere la porta, con la voce strozzata, dicendo di prendere qualche bagaglio in fretta e furia, bisognava scappare. Il nemico aveva sfondato a Caporetto e stava arrivando. Non un nemico qualunque: gli Austriaci di “Cecco Beppe”, “i Crucchi”, insomma. Era notte o il mattino presto del 24 o del 25 ottobre 1917, buio comunque,  faceva freddo e l’angoscia paralizzava.
L’appuntamento era per tutti alla stazione di Carpanè-Valstagna. Non fu facile giungervi, le strade erano intasate, dovunque truppe che fuggivano prese dal panico. Qualcuno mi disse anche che il nonno, a quelli del posto che conosceva e che praticavano il “tutti a casa”, anticipando quello che sarebbe successo l’8 settembre 1943, intimava di raggiungere immediatamente la compagnia, la propria un'unità militare, altrimenti avrebbero conosciuto guai peggiori.
Quando i miei parenti furono sui binari era appena arrivata una tradotta con  quattro carrozze. Da ognuna erano scesi “cavalli sei, uomini dieci”. Com’era scritto con la vernice sul grigioverde. Cominciò per loro un lungo esodo. Prima tappa Verona. Una baraonda incredibile, le immediate retrovie intasate, gran confusione, Stato Maggiore preso di sorpresa, generali dell’alto comando nel pallone. Quando Dio volle ripresero il cammino per il Sud e, per i buoni uffici del Sindaco, una persona sveglia, si fermarono a Benevento. Sapeva che coltivavano tabacco e domandò se potevano restare. Il mestiere era il medesimo, solo il dialetto era diverso, ma erano tutti Italiani, si capivano.
Espiantata da casa, nonna Giustina la prese malissimo. Mia madre invece era felice. Mai vista tanta verdura di tutti i tipi, un fantastico “Eden”. La campagna di Benevento, mi diceva da bambino, nelle sue lunghe rievocazioni, era praticamente un “paradiso terrestre”. E poi c’era Telese dove andavano i reali a "passare le acque" e prima ancora c’erano state “le forche caudine”. Capiva benissimo il dialetto anche se non lo parlava. Aveva lasciato lassù, nella propria casa, sulle rive del Brenta, il cuore e una foto con dedica «la tua Gianna di sedici anni compiuti» al “tenentino dalla scarpe gialle” di Palermo, che scriveva benissimo e parlava ancor meglio. Era felice a “Chillo paese”, come chiamava quei territori incantati. Mi diceva del Calore Irpino: «come il Brenta. Riva destra, riva sinistra, paesani da visitare un po’ di qua un po’ di là», mi parlava di Solopaca, di un certo vino rosso che piaceva a suo padre, nonno Giovanni. Era molto interessata al nuovo secolo che si era aperto con la sua nascita, lei era di Maggio del 1901 ed era andata a Fiume dal fratello Angelo nominato ispettore delle dogane a vedere D’Annunzio.
Non amava, invece, i generali. Secondo lei ce n’erano di due tipi. Quelli che comandavano le truppe per fare la guerra e quelli che ordinavano ai soldati di sparare sui civili che protestavano per fare le repressioni. Mi diceva di Fiorenzo Bava Beccaris quello delle cannonate di Milano (1898) ad altezza d’uomo da 80 morti per i “moti del pane” e di Franz Conrad von Hötzendorf autore della “strage di Piazza della Borsa” a Trieste (1902) dove caricò alla baionetta i fuochisti del Lloyd Austriaco in sciopero e poi li prese a fucilate, una strage da 14 morti e 50 feriti. Quest’ultimo generale, era già detestato da mia madre, per via della spedizione punitiva di Asiago e perché detestava i meridionali italiani. «Vedi – mi diceva – ai miei tempi c’erano poi le vendette popolari con l’anarchico Bresci che a Monza (1900) uccideva Umberto I, due anni prima Luigi Luchéni a Ginevra (1898) aveva ucciso Elisabetta di Baviera, moglie di “Cecco Beppe”, Gavrilo Prinzip aveva sparato all’Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este (1914), poi nel 1918 era stata sterminata la famiglia dei Romanov (Ekaterinburg). Dovevano stare attenti ai miei tempi!».
 
La malattia nostalgica.
La nonna Giustina, invece, viveva una cupa tragedia depressiva. Per tutto il periodo del soggiorno forzoso, si mantenne, dapprima taciturna, in seguito si rifiutò decisamente di uscire di casa e di parlare con parenti e compaesani. Si racconta che digiunasse spesso e con ostinazione, fin quasi a morirne. Aveva anche sviluppato un’ostilità delirante verso i propri figli al fronte, che accusava apertamente di non combattere per non volerla far tornare al paese. Invano fu curata dai medici locali che il marito amorevolmente le recava a casa. Invano cercarono di convincerla. Ed è una fortuna che si fosse tappata in casa, sorda a tutto. Pensate cosa sarebbe successo se avesse sentito un campanaccio o un canto alpino. Ai mercenari Svizzeri in servizio all'estero era proibito, pena la morte, cantare o intonare il suono del canto dei vaccai. Lo ricorda Jean-Jacques Rousseau nel suo Dictionnaire de musique (1767), che riporta tale diceria. Il motivo del canto dei vaccai che provocava la nostalgia divenne noto in tutto il mondo ed entrò a far parte della storia della letteratura e della musica: ranz de vaches e kune raine erano i motivetti più noti.
Davvero sarebbe morta, la mia povera nonna Giustina se, per una fortuita circostanza, quando le cose militari migliorarono, non avesse ottenuto il “permesso”. Solo una carta scritta, fattale avere da mio nonno, d’accordo con il sindaco. Uno scritto timbrato che autorizzava la partenza di Mocelin Giustina, appena possibile, per un campo profughi a Verona. Un artifizio astuto ed efficace. Si dice che, appena salita sul treno del ritorno, prese a ridere, a scherzare, a parlare con tutti, e ingoiò tutto d’un fiato due barattoli di latte condensato (di cui andava golosa), i quali le causarono non pochi guai intestinali per alcuni giorni. Peraltro, questo problema fisico fu superato benissimo, quasi con gioia, nella sua terra veneta, ancorché Verona distasse poco meno di 100 chilometri dal suo paese, coricato sul Canal del Brenta, dove ancora si combatteva aspramente. Il semplice riavvicinamento era bastato a sconfiggere la sua provvisoria follia.
Cos’era successo? Era stata colpita da un disturbo che affliggeva i soldati svizzeri del 500: l’heimweh. Meno male che nessuno glielo disse perchè mia nonna mai e per nessuna ragione al mondo avrebbe voluto qualcosa di germanico. Io non ero nato e queste robe le dovevo ancora studiare. Molti anni dopo ne parlai con mia madre, persona sempre curiosa, che sembrava molto interessata. Vediamo di chiarire meglio, altrimenti sembra una mia cosa di famiglia.
Non è facile enucleare dall’immaginazione nostalgica, il concetto di nostalgia patologica. Tuttavia, la vastità del materiale concettuale in proposito è sterminata.
Accanto agli aspetti letterari e metafisici della nostalgia esistono indubbiamente anche gli aspetti psicopatologici e clinici della sofferenza nostalgica. E la sofferenza dell’uomo, con i suoi correlati di coraggio o di sgomento nell’affrontarla, non può lasciare indifferente lo psicopatologo.
Un tentativo di sistematizzare un approccio psicologico e antropofenomenologico al tema della nostalgia e ai vari problemi che essa pone restano pur sempre un bel rompicapo. La mitologia greca racconta che Teseo Re e legislatore di Atene, domò e sottopose a supplizio, con lo stesso metodo, il leggendario brigante dell’Attica antica Damaste o Polifemone, soprannominato Procuste o Procruste (lo stiratore). Costui usava assalire i viandanti in transito presso il monte ateniese di Coridallo per poi costringerli a distendersi in un suo letto di ferro, allungando o mutilando loro le membra, a seconda dei casi, fino a quando i corpi dei malcapitati non si fossero adeguati alla dimensione di questo letto. Ebbene, Carl Gustav Jung — a proposito della nostalgia degli Svizzeri, giudicata malattia nazionale — ebbe ad osservare, con estrema acutezza, che lo studio di questo fenomeno psichico si presenta di una complessità tale «che ogni teoria espressa finora diventa un letto di Procuste» [06]. Ebbene, la montagna della nostalgia può essere scalata, sia pure con qualche remora sociologica, anche dal versante psicopatologico. Il problema è semmai non dare coperture psichiatriche a problemi che affondano le loro radici nel sociale e nell’economia più in generale, giacché la materia trattata è la nostalgia dei migranti per lavoro, per guerra, persecuzioni, minacce naturali, carestie, ecc. Si tratta, in buona sostanza, d’incontrarsi sulla cima di questa montagna senza preconcetti, con spirito critico, e un valido contributo che possa essere comprensibile anche in chiave epistemo1ogica ed euristica. In tempi remoti la nostalgia-malattia è stata alternativamente accettata e rifiutata dai medici, successivamente accolta solo dagli psichiatri e, per ultimo, ancora espunta dal novero delle sindromi psichiatriche ad opera di sociologi, filosofi ed anche psicopatologi, che hanno contestato la permanenza della nostalgia nell’ambito della nosologia delle malattie mentali. Vediamo di orientarci in questo ginepraio. Come si fa strada la nozione di nostalgia-malattia?
 
La gamma delle nostalgie
Che la nostalgia fosse un’esperienza talvolta più pericolosa di un semplice rimpianto del tempo e delle cose perdute, che fosse cioè una crisi dell’esistenza di cui si può anche morire, era noto fin dall’antichità [07].
In tempi meno remoti – nella seconda metà del ‘500 – il problema della nostalgia-malattia si pone allorché numerosi giovanotti svizzeri, arruolati come soldati mercenari nelle guarnigioni di stanza in Italia, in Francia, in Olanda, cadono preda di una singolare «malattia», spesso mortale, chiamata Heimweh, che significa nostalgia o, meglio malattia del paese [08]. Fra questi rudi militari, lontani da casa, capita sovente che si instauri subdolamente una forma di apatia, di abulia o di tristezza con facile commozione, che può giungere fino ad uno stato stuporoso, al rifiuto del cibo, alla morte. Si constata, tuttavia, che tale condizione è reversibile con il rimpatrio e, cosa sorprendente, un miglioramento può perfino iniziarsi sin dal momento in cui ad essi venga semplicemente mostrata l’ordinanza di rientro.
Che cos’è dunque questa misteriosa Heimweh che viene man mano configurandosi come una malattia nazionale degli Svizzeri? Si disserta a lungo se sia il cibo o l’aria o l’ambiente a far ammalare il corpo. Si disquisisce dottamente se sia lo squilibrio psichico a determinare la patologia somatica o viceversa (i moderni concetti della medicina psicosomatica o somatopsichica, non erano ancora stati enunciati con chiarezza). In ogni caso si evita accuratamente di prendere in esame la situazione di un individuo che, sia pure volontariamente e dietro il miraggio di un buon compenso, ad un certo momento della sua condizione di «emigrato» avverte oscuramente e prepotentemente il desiderio del ritorno e intuisce che nessun guadagno può più compensarlo del dolore della lontananza dal proprio paese. Nella fattispecie non si tratta di migranti qualsiasi, ma di manodopera eccellente per combattere, ossia di soldati. E qualche sospetto che il cibo e l’aria avessero poco a che vedere con questa malattia-nostalgia, i capi dei mercenari svizzeri dovevano pur nutrirlo, dal momento che avevano tassativamente vietato alle loro truppe di suonare o fischiettare un motivo musicale svizzero molto popolare come la Kühe-Reihen, che ricordava le loro vallate e li faceva piangere come vitelli [09].
Letteralmente nostalgia è una parola composta, derivante dalle espressioni greche nòstos (usata da Omero nell’Odissea per indicare il rientro in patria degli Achei) che significa ritorno e àlgos che vuol dire dolore. E proprio questo ultimo termine complica le cose, perché - come abbiamo già visto - il dolore, la sofferenza, vengono a legittimare, in qualche modo, l’intervento della medicina.
Fu, infatti, un giovane studente di medicina, lo svizzero Johannes Hofer (1669-1752), ad usare per primo la parola nostalgia in una trattazione scientifica: la «Dissertatio medica» del 1688. Non ancora ventenne, Hofer si era cimentato in maniera originale con lo studio sistematico della Heimweh e, poiché scriveva in latino, non avendo trovato in questa lingua un termine idoneo a definirla, aveva pensato di utilizzare il greco. Pur nell’ambito delle conoscenze mediche del tempo, improntate al più rigido organicismo, egli prospettò l’ipotesi che la causa principale di questa malattia consistesse in una distorsione dell’immaginazione originata in larga misura da motivi che oggi diremmo psico-socio-ambientali, fra i quali faceva spicco la continua polarizzazione del pensiero verso il paese lontano [010]. Per la verità, qualche tempo dopo, nel 1705, un naturalista svizzero Johann Jacob Scheuchzer (1672-1733), come avviene nelle migliori tradizioni scientifiche, espose una tesi contraria a quella di J. Hofer per dare una spiegazione dell’Heimweh. In proposito si può avere la più ampia informazione in D. Frigessi Castelnuovo e M. Risso «A mezza parete», cit., pp. 16-18.
Una dettagliata ricerca su questo argomento è esposta nel libro di Frigessi Castelnuovo e Risso, A mezza parete, dove a pag. 8, si legge «Il “Sonneberg è morto di heimweh...”, scriveva laconicamente nel 1569 Ludwig Pfyffer, uomo di Stato elvetico, al Consiglio Lucernese». Nella nota a piè di pagina, gli stessi AA. riportano il seguente commento: «La data dimostra che il termine Heimweh non nasce nell’epoca romantica, come spesso si crede, anche se è stato ripreso dalla letteratura romantica [011].
 
Le ricerche dei medici militari
L’Heimweh, dunque, era un fenomeno di grande preoccupazione presso le Armate e doveva essere assolutamente prevenuto o curato. Probabilmente qualche cosa di simile abbatté il morale dei contadini russi in divisa da marinaio imbarcati sulla squadra dell’ammiraglio Rozestvenskii che, nel 1905, dopo aver percorso diciannovemila miglia di peripezie inenarrabili, circumnavigando l’Europa e l’Africa furono fatti a pezzi dalla flotta giapponese dell’ammiraglio Togo nella famosa battaglia navale di Tsushima. Probabilmente ancora oggi la nostalgia costituisce un’insidia non trascurabile per gli eserciti. I soldati, materiale prezioso per fare la guerra, devono avere morale saldo e spirito combattivo, è un assioma da sempre.
La seguente rassegna può essere interessante non tanto per il valore di testimonianza storica sul concetto nostalgia-malattia, quanto per cogliere il tentativo di delega del sociale al biologico di talune condizioni, costringendo la medicina – a quel tempo, va detto a sua attenuante, molto approssimativa – a contorsionismi impossibili per far entrare nel letto di Procuste della nostalgia, una esperienzialità che ben poco aveva a che vedere con le leggi del bios. Bartoli, medico militare delle armate napoleoniche, osservava ai primi dell’Ottocento che la nostalgia era una delle cause principali di mortalità tra i giovani coscritti; quanto dire che ne uccideva più la nostalgia che il cannone [012]. Più o meno nello stesso periodo Froget descriveva sulle navi una forma di ipocondria per gli ufficiali e una forma di nostalgia semplice per i giovani marinai [013]. Questa particolare discriminazione fra la malattia dei comandanti e le reazioni dei subalterni, nascondeva, probabilmente, la preoccupazione di giustificare con qualcosa di più grave l’infermità dei primi, mentre lasciava scoperto il sentimentalismo primitivo dei secondi, giudicato, appunto, congruo con la presunta ignoranza, l’istintività, la rozzezza della loro natura. Van Swieten, crede di identificare la causa etiologica della melancolia e dello scorbuto nella nostalgia [014]. Certi pregiudizi sono duri a morire: anche oggi taluni stati melanconici di emigranti sono curati con antidepressivi e vitamina C. La causa organica della nostalgia, intorno al 1820, viene indicata da Laugier e da Devaux in tumori e cisti cerebrali [15] che evidentemente rinvengono nelle loro autopsie di «decessi nostalgici». Nel 1834, Begin rifiuta il parallelismo della nostalgia con le malattie infettive e dunque nega che esista una diffusione epidemica della stessa tra le Armate. Di nostalgia, sentenzia, si può guarire, si può impazzire cronicamente o ci si può suicidare. Nel 1874 Haspel, adombrando l’ipotesi di una possibile genesi infettiva della nostalgia, prende contro l’opinione di taluni psichiatri, tra i quali, non uno qualunque, ma il sommo Pinel, che ritengono la nostalgia come una monomania. Nostalgia e follia - egli dice - sono due entità separate, tanto più che le malattie mentali non guariscono con le parole, non svaniscono nel nulla se si finisce in Manicomio è segno che si è matti, non nostalgici (Sic!) [016]. Lasègue, il neuropsichiatra famoso per il segno del mal di schiena, è più o meno dello stesso parere. Egli, infatti, sostiene l’impossibilità che uno stato reattivo della nostalgia conduca alla malattia mentale: «... il “mal del paese” è molto più adatto alle poesie elegiache che non alle descrizioni mediche» [017]. La nozione di nostalgia-malattia mentale, va cedendo ormai sotto i vigorosi colpi della critica neuropsichiatrica, ma Chenu, intorno al 1880, si sente ancora in grado di ipotizzare che nel cervello del malato nostalgico «la sovreccitazione persistente si cambia in una vera infiammazione» [018]. Infine Labetzki sanziona lo stato di  estinzione della nostalgia come malattia mentale a sé stante: «Dopo il 1880 nessuno scrive più sulla nostalgia... un’altra affezione ha preso il suo posto: la neurastenia, della quale essa non è che una forma».[019]. Si tratta solo di una mutazione semantica? Oggigiorno il concetto di neurastenia così come lo aveva enunciato George Miller Beard nel 1869 è molto controverso, se non del tutto abbandonato. Parimenti difficile collocazione nosografica riescono ancora a trovare nei trattati di psichiatria altri più antichi capisaldi della psicopatologia descrittiva come l’ipocondria e l’isteria. Sarebbe istruttivo riandare su questi argomenti per curiosare in soffitta se sono finiti da qualche parte coperti di polvere. Sempre meglio che aspettare il prossimo DSM-5 o il futuro ICD-10 per andare a vedere dove tornano a star di casa le nostre patologie.
Del resto tutto il materiale umano pregiato, da esportazione, merita particolari attenzioni. Si pensi agli sforzi che i dirigenti delle squadre calcistiche fanno per combattere la nostalgia di taluni giocatori stranieri pagati miliardi. In questi casi sembra che le probabilità di «ammalarsi» di nostalgia, siano maggiormente frequenti nei calciatori provenienti dai paesi latino-americani, cioè situati oltre oceano. Pare anche che la migliore ricetta anti-nostalgia sia il pagamento anticipato di un certo numero annuo di viaggi di andata-ritorno per il paese di origine.
Non risulta, invece, che ci sia stata pari tutela o pari interesse di studio del fenomeno nostalgico presso i lavoratori migranti, materiale umano ovviamente meno pregiato. A questo tipo di nostalgia, solitamente viene dedicato uno spazio convenzionale caratterizzato da canzoni popolari, immagini folcloristiche e cartoline di maniera. Più vicine alla realtà sono certamente le lettere dei contadini veneti emigrati, raccolte da Emilio Franzina [020].
 
Breve commiato.
Concludendo l’abbiamo fatta un po’ lunga perché una ricerca storica e psicopatologica ha le sue forme da rispettare, quella familiare altrettanto. Questi lontanissimi ricordi sbiaditi, che si affacciano alla mente dopo tantissime incertezze, peraltro, non hanno la minima pretesa di ricerca storica. In ogni caso vorrei tranquillizzare i miei nonni e mia madre, ove mai potessero ascoltarmi che la povera Giustina non aveva nulla di germanico e nessun difetto innato personale. Si sarebbe potuto pensare perfino all’ingenuità di Jean-Jacques Rousseau che si era permesso di propagare l'idea secondo cui un campanaccio di vacca avrebbe avuto il potere di far disertare i “mercenari svizzeri” colpiti dal «delirium melancholicum» dell’Heimeweh! O anche semplicemente una nenia alpina, tipo:
 
Quando sarémo fòra
fòra per la Valsugana
noi andrém trovàr la mama
al vedér vedér come la stà
 
La mamma la sta bene
e il papà l è ammalato
il mio ben partì soldato
chissà quando chissà quando l tornerà…
 
E invece no! Nient’affatto. Pensate un po’ al contadino demartiniano del campanile di Marcellinara, alla morriña per i Galiziani di lingua gallega, all’añoranza per gli Spagnoli in generale, alla saudade pei Lusitani e pei Brasiliani, al baladi (“del mio paese”) per gli Egiziani e i cairoti, alla locuzione hal hanin  per gli Arabi, e così via.
 
 
Note al testo Una Heimeweh della Valsugana
 
[01]. Ralph Harper, Nostalgia. Una esplorazione esistenziale della brama e della realizzazione nel mondo moderno. Traduz. di P.G. Weston e P.F. Callieri), Roma, Il Pensiero Scientifico, 1976, p. 44.
[02]. Sergio Mellina. La nostalgia nella valigia. Emigrazione di lavoro e disagio mentale. Quaderni della “Fondazione Giacomo Brodolini”. Marsilio Editori, Venezia, 1987.  Dalla Prefazione di Alceo Riosa «Questo quaderno costituisce un prezioso contributo, anche se da un’ottica inconsueta, ad uno dei settori di ricerca e di studio che la Fondazione sviluppa ormai da anni, in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri… Ne è autore lo psichiatra Sergio Mellina, che ha condensato in queste pagine il tema di un corso integrativo di Storia dei movimenti sindacali presso la Facoltà di Scienze Politiche della Statale di Milano a lui affidato nell’anno accademico 1983-84… Senza trascurare il contributo che queste pagine potrebbero offrire ad un ripensamento delle direttive, ancora inadeguate, dello Stato nei confronti dell’assistenza all’emigrante, che si estenda ai vari momenti della sua esistenza quotidiana all’estero, e operi come veicolo di inserimento non solo lavorativo del nuovo arrivato nella vita complessiva della comunità ospitante. Molto c’è da fare in questo campo, e pertanto contributi alla riflessione del tipo di quella di Mellina vanno decisamente incoraggiati per la solidità scientifica che li sostiene e per la passione civile che li anima. Alceo Riosa»
[03]. Un tempo, chi educava i bambini nelle famiglie nobili, o agiate, il precettore, l’istitutore.
[04]. Jaroslav Hašek - Il buon soldato Sc’vèik. Parte prima. Incipit. Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2010.
[05]. Il tenente generale casertano Alberto Pollio, capo di Stato maggiore con un curriculum di tutto rispetto: proveniente dal Collegio militare borbonico della “Nunziatella” di Napoli, poi transitato per la Scuola militare di fanteria e cavalleria di Modena ed infine diplomato alla Scuola di Applicazione di Artiglieria di Torino. Studioso e brillante conferenziere di guerre napoleoniche, ammogliato con una nobildonna austriaca quand’era stato addetto militare italiano a Vienna, amico personale di Moltke “il giovane” e di Conrad quello della Strafexpedition, triplicista naturale e antifrancese, avversario di Cadorna, morto improvvisamente di miocardite a 62 anni, due giorni dopo Sarajevo. Cfr. Giovanni d'Angelo, La strana morte del tenente generale Alberto Pollio. Capo di stato maggiore dell'esercito. 1º luglio 1914, Valdagno, Rossato, 2009.
 
Il riferimento è tratto dal lavoro di Charles Zwingmann, Das nostalscgische Phänomen, dove si menziona una lettera di Carl Gustav Jung, cfr. C. Zwingmann (a cura di) Zur pshychologie der Lebenskrisen, Frankfurt am Main, Akademische Verlagsgesellschaft, 1962, p. 309.
[06]. Edipo, alla notizia della morte di Pòlibo (ossia di colui che ritiene essere il proprio padre), reagisce dicendo: - «A sentir loro, avrei dovuto uccidere mio padre; e invece ecco, ora giace nelle tenebre della terra, ed io sono qui senza aver toccato spada... a meno che sia morto di nostalgia per me» - (Sofocle, Edipo Re, Trad. F. Ferrari, Milano, Rizzoli, 1982, p. 231).
[07]. Una dettagliata ricerca su questo argomento è esposta nel libro di Delia Frigessi Castelnuovo e Michele Risso, A mezza parete, Emigrazione, nostalgia, malattia mentale, Torino, Einaudi, 1982.
[08]. D. Frigessi Castelnuovo e M. Risso, ibid., pp. 19, 41-42, 49.
[09]. Cfr. F. Ernst, Vom Heimweh, pp. 63-72, Fretz und Wasmuth, Zürich, 1949; in D. Frigessi Castelnuovo e M. Risso, A mezza parete, cit., p. 7.
[010]. Si veda, a questo proposito, Ina-Maria Greverus (1929-2017), Heimweh und Tradition, in “Schw. Archiv. Für Volkskunde”, 61, 1/2, Basel 1961, p. 1». Archivio di Folclore e Demologia.
[011]. La Frigessi Castelnuovo e Risso, cit. riportano due saggi molto accurati di M. Bachet, del 1950, sugli stati di nostalgia, dove si può leggere un po’ di tutto, fino alle ipotesi mediche più astruse. Naturalmente nell’Ottocento prevalgono gli studi medici sui militari. Bachet stesso occupandosi della etiologia della nostalgia afferma sorprendentemente che esisteva una nostalgia delle Armate e una nostalgia della Marina (p. 180).
[012]. Cfr. Frigessi Castelnuovo e Risso, A mezza parete, cit., p. 51, 47.
[013]. Ibid., p. 43.
[014]. Ibid., p. 50.
[015]. Ibid., pp. 47-48.
[016]. Ibid., pp. 49-50.
[017]. Ibid., pp. 50-51.
[018]. Ibid., p. 48.
[019]. Ibid., pp. 51.
[020]. In una di esse la «Lettera di Francesco Magro» da Treviso, inviata dal Brasile nel 1889, si legge una struggente nostalgia per i figli lasciati a casa, oltre oceano: «… ma io qui sento nel quore, li bisogni de la mia familgia... Fammi sapere cosa è dei miei figli ad uno ad uno. Pietro lo veggo e li altri li sento nel cuore, cioè Giovanni e Angelo». Emilio Franzina, Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America Latina 1876-1902, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 155.
 
Bibliografia particolare della nostalgia e stati assimilabili.
– Karl Jaspers, Heimweh und Verbrechen, 1909 (rist. 1996)
– Ernst Fritz. Vom Heimweh, Zürich 1949.
– Ina-Maria Greverus. «Heimweh und Tradition», in SAVk, 61, 1965, 1-31
– Karl Brunnert, Nostalgie in der Geschichte der Medizin, 1984.
– Antonio Prete (a cura di), Nostalgia: storia di un sentimento, 1992.
– Christian von Schmid-Cadalbert, «Heimweh oder Heimmacht», in SAVk, 89, 1993, 69-85
– André Bolzinger. Histoire de la nostalgie, Éditions Campagne première, 2007.
– Simon Bunke. Heimweh, 2009
– Theodor Zwinger. Fasciculus Dissertationum Medicarum Selectiorum. 1710.
– Guy Serge Métreaux. Le ranz de vaches

 

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