«Io il male l’ho accettato
ed è diventato un vestito incandescente.
È diventato poesia.
È diventato fuoco d’amore per gli altri».
Alda Merini (1931-2009). Clinica dell’abbandono (Einaudi, 2015).
ed è diventato un vestito incandescente.
È diventato poesia.
È diventato fuoco d’amore per gli altri».
Alda Merini (1931-2009). Clinica dell’abbandono (Einaudi, 2015).
Riassunto
Erano passati una quindicina d’anni dal 1938, data della messa a punto dell’elettroschock, quando chi racconta fece il suo ingresso nella celebre Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, dell’Università di Roma, “La Sapienza”, al viale dell’Università, civico 30, per frequentare la “Corte” di Mario Gozzano (1898-1986). Vi era approdato, cedendo alle lusinghe di Cristoforo Morocutti (1927-2015), compagno di scuola bolognese al famoso Liceo Ginnasio “Luigi Galvani” in Via Castiglione 38, del fratello maggiore Aldo e suo coetaneo, entrambi del 1927 ed entrambi veneziani di nascita. Morocutti – che sarebbe divenuto Maestro insigne e continuatore della scuola romana alla cattedra di neurologia della “Sapienza” negli anni 80 e 90 del Novecento – amico di famiglia fin da Bologna, aveva stima di chi scrive, con molta franchezza gli disse «Lascia perdere Cesare Frugoni (1881-1978) tanto fra poco scade e alla “Clinica Medica” ci sale Luigi Condorelli (1899-1985) dalla “Patologia Medica”. “Il futuro” è la neurofisiologia di Mario Gozzano. Ha sbaragliato il campo in facoltà. Aprirà l’anno accademico 1951-52 per l’insegnamento della neuropsichiatria. Ha sconfitto il concorrente più temibile, Vito Maria Buscaino (1887-1978), che resterà a Napoli. Non posso più seguirti qui al Policlinico Umberto I, da Bruno Benetazzo (Aiuto Medico Ospedaliero nel seminterrato destro della Clinica Medica) perché ho vinto al Pio Istituto il concorso da Assistente medico al Santo Spirito “Ospedali Riuniti” e debbo prendere servizio [01]. Ti conviene attraversare la strada e andare alla “Neuro”. Ti presento io a Raffaello Vizioli (1926-2006) un Aiuto giovane della Clinica». Fu così che attraversai il Viale dell’Università per andare a specializzarmi in Clinica della Malattie Nervose e Mentali, la vecchia Clinica di Giovanni Mingazzini (1859-1929), dov’era passato anche Gozzano da giovane praticante di belle speranze. Mi sembrava che la “medicina interna” – grandissima disciplina – avesse qualcosa d’incompiuto rispetto alla “nevrologia” (come si diceva un tempo) specialità “perfetta”. Solo nel 1968, affascinato da Bruno Callieri (1923-2012), che mi aveva trascinato a Milano ad ascoltare Aldo Giannini (1927-1981) sulle “prepsicosi” introdotte da Giovanni Enrico Morselli (1900-1973) e Danilo Cargnello (1911+1999), sarei stato sedotto dalla psicopatologia fenomenologica, per sempre.
1. – Un passaggio d’epoca. Da Cerletti a Gozzano
Era un momento eccezionalmente straordinario quello della transizione da Ugo Cerletti (1877-1963) a Mario Gozzano. Ho potuto incontrare gli studiosi di una scuola prestigiosa, i cerlettiani, che per via dell’elettroschck un po’ se la tiravano, e i gozzaniani che con la neurofisiologia e l’elettroencefalografia introdotta dal caposcuola in Italia, dettavano legge. Mario Gozzano, era uomo raffinato, coltissimo di tradizione mitteleuropea, notoriamente tollerante, nel senso che non aveva cacciato via nessun docente di quelli che lo avevano preceduto nella clinica prima che lui la dirigesse, ma non amava la pratica di Cerletti e Bini. Era un eclettico. Se mai avesse proprio dovuto scegliere una terapia biologica, preferiva l’insulinoshocterapia (“terapia di Sakel”). Figurarsi lo stato d’animo di chi scrive nei primi anni Cinquanta. Gozzano ci raccontava di averla imparata direttamente a Vienna, ma ci diceva di aver demandato tale metodica ad un fantomatico “Aiuto”, tale Otto Gluch, che si era trascinato dietro dalla Germania fino a Pisa.
Costui, i pazienti schizofrenici, in coma insulinico ce li teneva anche 1 ora e la metodica era giudicata valida se arrivava alla decerebrazione, suscitando il riflesso di suzione. Nessuno di noi, allievi romani, ebbe mai a conoscerlo codesto Aiuto germanico, perché morì sotto un bombardamento nella clinica Neuro di Pisa il 31 agosto 1943.
Per fortuna a Roma, c’era una copiosissima quantità di Maestri: chi giungeva, chi partiva e chi transitava. La “neuro” di Roma era un vero porto di mare. In fondo lo era sempre stato [02]. Per inciso la “Neuro” di Roma era anche la Sede Nazionale delle Libere Docenze (finché ci furono) ed io ero incaricato di mettere in ordine le cartelle dei malati da portare alla prova clinica.
Qui vale la pena di aprire una piccola parentesi per spiegare il miracolo Giovanni Bollea (1913-2011). Erano piemontesi entrambi Gozzano e Bollea, l’uno cuneese di Savigliano l’altro vercellese di Cigliano. Quindici anni li separavano, ma trovarono un accordo perfetto. Si racconta che il secondo chiedendo appoggio al primo si sentisse dire
– «Ben volentieri ma qui è tutto occupato dove ti metti?»
– «Ah! Per questo non c’è problema» – fu la risposta – «coi miei, veniamo presto al mattino e ci mettiamo nei locali del seminterrato a destra di chi entra. C’è il tempo per fare tutto il lavoro presto e finirlo bene. Visita, pielle, terapia, analisi, colloquio coi parenti. Prima delle 10 Siamo tutti al caffé del teatro Ateneo». Giovanni Bollea rilanciò la neuropsichiatria infantile in Italia, ma Gozzano fu determinante, nella “lunga marcia” a Via dei Sabelli. Ora, mi dicono, a serio rischio di chiusura per taglio di fondi.
Ho voluto citare di proposito questo inedito, certamente poco conosciuto, perché spesso ancora sento dire che “Bollea si era fatto da solo”. Sono sempre stato molto legato a Bollea ed al suo gruppo di collaboratori, perché con 5 figli piccoli, me ne portavo sempre qualcuno di loro a casa per la “controvisita pediatrica” del mattino [03]. Dopotutto ricordavo loro che Donald Winnicot (1896-1971), prima ancora di essere un pedopsichiatria, era un grande pediatra e quasi tutti mi raccontavano delle loro visite mirabolanti al Maudsly Hospital. Fortuna che abitavo in Via Borelli 1, tra l’istituto di Anatomia e quello di Odontoiatria, molto vicino alla “Neuro”.
Così come Bollea creò una sua scuola di pedopsichiatria nella cerchia di Gozzano, anche Beniamino Guidetti fece altrettanto con la scuola romana di neurochirurgia, senza mai bisogno di fare una lobotomia. Fra i suoi allievi, che definirei gozzaniani, voglio ricordare i due Aiuti anziani Antonio Riccio, Gianfranco Moscatelli. E poi Giampaolo Cantore, Bernardino Fraioli, Emanuele La Torre. Un vero sportivo col quale erano sfide infinite sul terrazzo della clinica Neuro: due aste per la flebo a delimitare le porte, una coppia su un lato e una sull’altro, il pallone stava sempre sul bagagliaio dell’automobile pronto per ogni evenienza.
2. – Il primo elettroschock.
Ma riprendiamo il filo del discorso e torniamo all’ESK. – “Attenzione la prima e pestifera le seconda è mortifera!”. Con queste parole del paziente che subì il primo elettroschock, il metodo di cura di Ugo Cerletti e Lucio Bini passò alla storia. Una storia poco studiata in verità e ingiustamente denigrata per via della corrente elettrica evocatrice della folgore di Giove tonante. Ciò che era sbagliato, non era tanto la corrente elettrica, quanto il principio fondamentale su cui si basavano tutte le cosiddette “Terapie Biologiche”. Vale a dire il presupposto assiomatico che tra epilessia e schizofrenia ci fosse incompatibilità, nel senso che laddove c’era la prima non poteva esserci la seconda. Unica voce dissacrante era quella del medico neuropsichiatra tedesco di Neuenbürg (Baden-Württemberg), Robert Gaupp (1870-1953), il quale in un suo articolo esprimeva forti perplessità sulla correlazione antitetica tra epilessia e schizofrenia.
La tesi prevalente, negli anni precedenti la “Grande Guerra” e quelli immediatamente successivi, in ciò che fu l’avanguardia viennese del sapere medico universitario della Capitale dell’Austria Felix, era che provocando l’accesso epilettico intenzionalmente si sarebbe “curata” la psicosi schizofrenica o anche quella bipolare maniaco-depressiva. Visti oggi, a distanza di oltre ottantanni, sia la tesi di fondo che la “macchina”, vien da sorridere, pensando che quest’ultima fu combattuta come la sedia elettrica e ad essa paragonata. Era soltanto l’ultima, delle tante crudeltà, con cui da sempre, gli esseri umani, avevano tentato di affrontare l’inaccettabilità e l’insopportabilità della follia.
Basterebbe rievocare brevemente una sintesi di cattiverie rovesciate sui “matti” per capire come la faccenda sia molto complessa e anche spinosa. In primo luogo non è affatto facile comunicare, un’esperienza “dispercettiva di sensorialità” o un’intuizione di trasformazione del sentire la realtà, posto che lo si voglia fare, che si trovino le parole giuste per dirlo e chi t’ascolti. Ammettendo che si trovi anche la persona adatta a ricevere questa tua straordinaria confessione di sconvolgimento interiore strano e indimostrabile. Ecco, tanto per farla breve e semplice, non è per niente facile trovare due soggetti, poniamo l’uno incamminato sulla strada della pazzia, posto che sia in grado di percepirlo e trasmetterlo, e l’atro tranquillamente a spasso per la strada della normalità, disposto ad ascoltarlo. Supponiamo ancora che il primo dica al secondo – «Fermati! Io sono il Padreterno e ti voglio salvare». Il secondo atterrito fa un balzo indietro e urla – «Ma che sei matto?»
Non è la sceneggiatura di un film scemo ed è assolutamente improbabile che questa eventualità si possa mai verificare, state tranquilli. È solo per raccontarvi come potrebbe essere andato – in via puramente ipotetica – il primo incontro tra il “ non compos mentis” e il “mens sana in corpore sano”. Ossia, il tutto, all’insegna del terrore e dell’incredulità. Se, ascoltando la persona che ci fa una rivelazione come quella sopra detta (persona evidentemente cara e conosciuta con accesso alla nostra intimità), proviamo per un attimo a partire dal sentimento dello sgomento e dal rifiuto istintivi, tutto ciò nel profondo convincimento che la persona ci stia “recitando” una grande impostura o una terribile menzogna, perchè è impossibile crederle, allora si può essere più disposti a percorrere a ritroso la lunga strada della pazzia. Ma forse, nel nostro caso, è preferibile parlare di “malattia”, “disturbo della mente” anche se nessuno sa in cosa propriamente consista, pur cogliendo perfettamente il senso di chi sta fuori di testa, allorché non-è-più-con-noi. Per questo, tutti noi, ormai da molti anni, non smettiamo un attimo di rovistare attentamente tra i vissuti prepsicotici. «Quando ancora tutto si tiene» come ebbe a dire magistralmente Mario Rossi Monti [04].
3. – Maltrattamenti corporali e punizione degli dei avevano una comune radice psichiatrica?
Greci e Latini sapevano benissimo che «Quos vult Iupiter perdere, dementat prius».
Senza alcun dubbio vi è un’origine religiosa o magico-religiosa nelle pratiche dei trattamenti psichiatrici antichi. Per taluni di quelli ancora in auge oggidì è inutile citare gli esorcisti e gli esorcismi [05]. L’intenzione, quasi sempre punitiva, era quella di scacciare dal corpo del folle uno spirito cattivo, il demonio, il maligno, che lo faceva sragionare. Famoso resta lo scoglio di Leucade da cui venivano precipitati in mare i “pazzi”, legati ad uccelli come paracadute, per farli rinsavire attraverso il grande spavento di cadere nel vuoto. Per inciso, i malfattori venivano frullati giù senza “paracadute”.
Dunque, se vogliamo almeno concedere il beneficio della buona intenzione, nei sacerdoti “terapeuti”, animati da umanità, altruismo e filantropia, mettiamola in questi termini, nella speranza che una grande paura facesse rinsavire i “folli”, (supposti impostori o mentitori) e rincuorare i loro parenti (supposti “sani” e veritieri), che venivano nell’isola Ionia di Leucade a chiedere il miracolo del rinsavimento del congiunto, agli asclepiadi del famoso tempio di Apollo, sulla cima del promontorio meridionale dell’isola. La celebre rupe adatta alla “funzione”, si eleva a picco sul mare (Capo Doukàto). Da lì, una leggenda racconta, si fosse lanciata nel vuoto la poetessa Saffo di Lesbo, amica di Alceo, per amore non corrisposto del giovane Faone, anche se alcune composizioni poetiche pare provino sia giunta in tarda età.
Una Storia della psichiatria, partendo dalla Grecia antica, è raccontata da Yves Pelicier (1926-1996) nel suo brillante testo. Una ricostruzione della psichiatria, ci dice che i Templi hanno sempre avuto una buona frequentazione di pellegrini e credenti, con qualche pietoso trattamento. «Malgrado le asserzioni di Aristofane» – scrive l’Autore – «è poco probabile che le Asclepiadi di Epidauro abbiano usato inganni grossolani riguardo al fervore dei malati pellegrini». Anche a proposito di casi psichiatrici, prosegue «I diversi templi d’Asclepios sembrano di aver messo in opera oltre ai mezzi abituali (piante, chirurgia) delle vere e proprie psicoterapie di suggestione. Preparato da digiuni, abluzioni e purificazioni morali, il paziente partecipava a delle processioni e si impregnava dell’ambiente mistico del luogo. A Pergamo, confessava i propri sogni; a Trofonios, trascorreva lunghe ore in una grotta angusta e subiva la suggestione verbale. A Epidauro, la guarigione poteva sopraggiungere durante il sonno, facilitata dalle fumigazioni e dalle pozioni (incubazione)» [06].
Ciononostante, innumerevoli furono le crudeltà “terapeutiche” rispettivamente somministrate e subite dai malati mentali nel tempo. In Francia, per esempio, all’epoca della Rivoluzione, erano contenuti con catene legate a ceppi.
Philippe Pinel (1745-1826), giudicandole condizioni disumane e illiberali, fu il primo che osò spezzarle, liberando gli infermi di mente. sfidando l’opinione corrente che pur gridava con grande euforia le parole “Liberté, Egalité, Fraternité”. Fu, però, severamente redarguito dai membri del Consiglio Rivoluzionario, che gli chiesero se per caso fosse diventato pazzo lui stesso.
Dal punto di vista storico non è proprio detto che Pinel sia stato il primo a togliere i ceppi ai “mentali” con l’inserviente Pussin il 25 agosto 1793 nell'asilo di Bicêtre [07]. Pare sia stato preceduto da Vincenzo Chiarugi (1759-1820) nel Granducato di Toscana. Si fa risalire al 1785 l'incontro tra Chiarugi e Pietro Leopoldo di Lorena, Granduca della Toscana. In pari tempo fu promulgata un'ordinanza granducale con la quale si ordinava il totale rinnovamento dell'Ospedale di Bonifazio e si pubblicava il celebre testo “Dei metodi curativi per i dementi”.
Vito Maria Buscaino (Trapani 1887-1978 Napoli), maestro di neuropsichiatria all’Università di Catania e di Napoli tra gli anni ’30 e ‘50, nonostante fosse un rappresentante di spicco della corrente organicista della psichiatria, parlava senza mezzi termini di «bastonate date ai pazzi… prima bastonate vere e proprie, quelle che consigliava Celso; ora sono sempre bastonate, quelle che si somministrano, ma non più fisiche: chimiche… anzi biochimiche».
4. – Secolo XIX -Anni 20-60. Mezzo secolo di “terapie somatiche”. [08]
Al proposito “terapeutico” di epilettizzare periodicamente pazienti schizofrenici aveva dato inizio il neurologo di Wels, cittadina dell’Alta Austria (la "Ovilava" dei Romani antichi) Julius von Wagner–Jauregg (1857-1940). Lo aveva fatto nel 1917 con la “malario-terapia”. Si trattava di squassanti scosse febbrili piuttosto che di convulsioni, inoculando nei pazienti il plasmodium vivax agente della “terzana benigna” o “primaverile”. Per tale “conquista scientifica” fu insignito del Nobel per la Medicina e la Fisiologia nel 1927. Si dice che avesse simpatie naziste, ma allora era considerata opinione personale. Come in Italia aderire al fascismo, giudicato “peccato veniale” a giochi fatti, senza che si siano mai fatti, seriamente, i conti con la storia tra chi ebbe ragione e chi ebbe torto. Tuttavia, nel 1919, il nostro Wagner-Jauregg, ricevette un processo per maltrattamento ai pazienti (dove gli testimoniò contro, anche Freud) in cui emersero il suo antisemitismo, la sua adesione all’eutanasia e la sua propensione per l’eugenetica, che tanto “veniali”, come peccati, non erano.
Seguì nel 1933 un giovane medico di Nadwirna, ridente cittadina termale a ridosso dei Carpazi, quando faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico essendo contesa tra l’Ucraina e la Polonia. Si chiamava Manfred Joshua Sakel (1900-1957), i genitori lo mandarono all’Università di Vienna ed a 33 anni propose l’insulino-shock-terapia, per la “cura della schizofrenia”. La “proposta terapeutica”
– che a Roma ebbi a sentire definire “ormonica, dunque naturale”, da qualche collega, ovviamente anticerlettiano, riscosse una risonanza mondiale e molti giovani psichiatri di allora andarono a Vienna per studiarla, direttamente in loco. Tra questi ricordo. Antonio Mendicini, Francesco Bonfiglio, Ferdinando Accornero, di Roma. Anche qui si trattava di indurre il coma nel paziente (e tenervelo per almeno un’ora) somministrando giornalmente dosi crescenti d’insulina. Sakel era più giovane di Gozzano di 2 anni. Fu costretto ad emigrare in USA nel 1938 per l’ascesa al potere di Hitler, inizialmente sottovalutato, come “caporale austriaco”, da una fragilissima Repubblica di Weimar, che tentò di vivacchiare tra il 1919 ed il 1933. Anni turgidi di grandi eventi nefasti, codesti postbellici europei della “Grande Guerra”. Da li a poco, il 1 settembre 1939, Hitler avrebbe scatenato la sua guerra lampo (Blitzkrieg), e la Mittel Europa avrebbe udito distintamente le deflagrazioni di Danzica e Stettino ed assistito, sbigottita e impotente, all’attraversamento velocemente aggressivo dei confini polacchi. Tanto per cominciare.
Era un rincorrersi su queste buscainiane “bastonate” ai poveri schizofrenici nella fretta di “curarli” meglio. Così due anni dopo, nel 1935, lo psichiatra di Budapest Ladislas Joseph Meduna (1896-1964) che, per ragioni editoriali ed altro ancora, nascondendo il suo cognome ebreo sefardita, in quello di Ladislao von Meduna, mise a punto un metodo convulsivante chiamato cardiazol-shock-terapia. La sua impresa “terapeutica” non fu semplice. Provò dapprima con alcaloidi tipo stricnina, tebaina, o coramina, per indurre convulsioni col minor rischio possibile. Ottenne qualche risultato incoraggiante usando dell’olio canforato. Per proseguire, però, fu costretto a spostarsi da Vienna dove lavorava come Aiuto, a Lipotmezö alle porte di Budapest, dove c’era un ospedale psichiatrico. Quivi nel 1934 mise in atto il suo primo tentativo con un paziente catatonico iniettandogli della canfora. Nel 1935 pubblicò un articolo riguardo l'uso sperimentale della canfora, nel quale parlava di una sostanza più solubile e ad azione più rapida della canfora, il pentilentetrazolo, meglio conosciuto come cardiazol in Europa e come metrazolo negli USA. [09]. In buona sostanza, anche questa “metodologia terapeutica” consisteva nell’indurre accessi convulsivi in pazienti psichiatrici attraverso l’introduzione endovenosa di cardiazol. Anch’egli emigrò negli Usa nel 1937 e morì a Chicago. Anche dall’altra sponda dell’Atlantico trovò avversari che lo accusarono di “soffocare i propri pazienti coll’ossido di Carbonio, più che shoccarli“. Si trattava dell’ungherese di Budapest Franz Alexander dell'Università dell'Illinois psicoanalista esperto di psicosomatica che lo aveva preceduto di poco nell’immigrazione dall’Europa nazifascista. Ciò significava che era già in atto nel Nuovo Continente una lotta accanita tra psicoanalisti e non, dopo le famose 5 conferenze di Freud del 1909 [010].
Come si può facilmente intuire, il povero psichiatra danubiano Meduna, si ebbe la stessa sorte del collega Sakel. Dovette emigrare alla tragica ascesa al comando incontrastato della Germania nazional-socialista, del caporale austriaco. Un terribile sciamanizzatore necrofilo con un micidiale istinto di morte verso l’umanità intera. Un essere negativo di un intero grande popolo, quello Germanico, che ancor oggi stenta ad elaborare un grande e memorabile lutto [011].
5. – Lobotomia. Variante efferata e disumana delle terapie biologiche.
Apriamo una parentesi particolare sull’orrore, per parlare brevemente di una questione inaudita soltanto a pensare che qualcuno dell’area medica, sanitaria ufficiale e legittima, perfino accademica, si fosse messo in testa di “curare la pazzia” distruggendo una delle parti più nobili del cervello. Uccidendo, per l’appunto, il polo prefrontale. O diciamo altrimenti di proporre come trattamento della schizofrenia o disordini psichici a lungo decorso, la demolizione di quella “centralina” che intenziona l’essere, lo motiva, lo organizza e lo programma. Questa trasformazione dell’essere in automa fu chiamata inizialmente leucotomia, ovverosia una operazione chirurgica con due fori sulla teca cranica per accedere ai poli frontali e distruggere (anche chimicamente) le fibre che li collegano alle altre parti del cervello. Successivamente fu chiamata lobotomia perché i chirurghi si moltiplicarono e gli strumenti pure. Spunzoni, punteruoli, rompighiaccio, martelli per conficcarveli e altre diavolerie. Tanto s’era capito che non era necessario andare per il sottile, distinguere e selezionare. Via tutto! Mesenchima Parenchima. Sostanza bianca, grigia, nera. Fibre, fasci, assoni, dendriti. Via tutte le cellule! I neuroni, gli astrociti (le “cellule mute” che ora, invece, pare parlino), quelle del Purkinje, radere al suolo i loro alberi dendritici senza pietà! Sistema piramidale extrapiramidale fasci somato-sensitivi. Deforestare il “cervello davanti”. Tutto via! Anche se non completamente, almeno il 50% del prefrontale, per manomettere “la cabina di regia” della guida dei pensieri e delle azioni in accordo ai propri obiettivi.
La mission era quella di sopprimere la “sala superiore di comando strategico” allocata in questa parte della neocorteccia, che concerne alcune forme di ragionamento e d’integrazione, per l'accensione di talune emozioni e stati d’animo adeguati in continua mutazione. Dunque, partecipando all’esistenza siamo facilmente influenzabili e passibili di cambiamento d’opinione. Sappiamo per certo che il “prefrontale” o comunque quest'area, è in grado di intervenire a ridimensionare e inibire le reazioni istintive e spesso eccessive dell'amigdala legate agli archetipici programmi di sopravvivenza. Togliere questa parte del corpo (o del cervello) ad un individuo, significava ridurlo in una miseria intellettuale inimmaginabile, violentarla noi suoi diritti umani elementari. Gettarlo nella povertà più nera: quella della demenza, indipendentemente da quale fosse stato il livello cognitivo prima del crimine.
In buona sostanza tra le pratiche mediche più discusse della storia, ormai completamente abbandonata, è la lobotomia. Nondimeno, questa tecnica chirurgica raccapricciante, ha goduto di un certo successo e, purtroppo, una discreta diffusione fino a tempi relativamente recenti. Apertis verbis, a mio parere, la lobotomia è una variante ancora più feroce di quella di lanciare gli infermi di mente dal promontorio dello scoglio di Leucade, che dovevano solo essere spaventati a morte (Cerletti, infatti, disse che erano messe in moto le acroagonine) per desistere dal comunicare le loro esperienze deliranti-allucinatorie o i propositi suicidiari.
La lobotomia era una procedura neurochirurgica che consisteva nel tagliare le connessioni della corteccia prefrontale, la parte anteriore dei lobi frontali del cervello. Introdotta nel 1935, ebbe un’inaspettata fortuna per più di vent’anni. Era pubblicizzata come “estrema risorsa” per “ridare la pace agli animi tormentati, agli schizofrenici incurabili, e agli psicotici all’ultimo stadio”. Provocava, però, un danno permanente della persona, un cambiamento del carattere.
Una delle vittime più conosciute e più sfortunate fu Rose Marie Kennedy (1918-2005) sorella del presidente assassinato a Dallas, ridotta al silenzio coatto e all’obbedienza amorfa da un intervento di Freeman e Watts subito nel 1941 al St. Elizabeths Hospital. Noto dai tempi delle memorabili inchieste di Asylum [012], come il più grande e il peggiore dei manicomi USA. La decisione fu presa dal padre padrone Patrick "Joe" Kennedy, Sr (1888-1969), tra l’altro indispettito e distratto da vicende politiche a lui sfavorevoli. [013].
Ormai si sapeva molto sul polo frontale del cervello umano. Si conosceva fin dal 1848 il caso dell’operaio statunitense delle ferrovie Phineas P. Gage (1823-1860) addetto alla costruzione di ferrovie, giunto alla notorietà neurologica mondiale per un incidente sul lavoro capitatogli nel 1848. Sopravvisse all’esplosione anticipata e accidentale di una carica di polvere pirica posta sotto un’asta di metallo che doveva bucare un costone di roccia e invece gli trapassò il cranio. L’attrezzo metallico gli distrusse gran parte del lobo frontale sinistro del cervello e ciò ebbe effetti sulla sua personalità e sul suo comportamento nei suoi restanti dodici anni di vita, al punto che i suoi stessi amici avevano difficoltà a riconoscerlo tranne che per l’evidente blefaroptosi all'occhio sinistro. Praticamente, fu una lobotomia ante-litteram. Sicuramente casuale e con un’assistenza sanitaria ai lavoratori delle strade ferrate di ottimo livello [014].
In Europa, ovvero dall’altra dell’atlantico, si sapeva dal dicembre 1888 che lo svizzero di Basilea Johann Gottlieb Burckhardt (1836-1907) aveva iniziato a rimuovere porzioni di corteccia in cervelli a pazienti con dispercezioni visive e uditive, che l'intervento li calmava e tanto bastava [015]. Era ormai acquisito che il danneggiamento corticale del polo anteriore, più esattamente del PFC [016], anche appena i due terzi della sua estensione anatomica, creava disordini alla concentrazione, all'orientamento, alle abilità astratte, al senso di giudizio, e alla soluzione di problemi di finalità esecutive superiori.
In Italia, nel 1937 il Direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Varese fece un paio di sue proposte per il trattamento della schizofrenia. Tra l’altro, se non vado errato, fu il primo ad eseguire un'operazione di lobotomia transorbitale. Mario Adamo Fiamberti (1894-1970) era nato a Stradella nell’Oltrepò pavese ed aveva molte buone credenziali per fare tanto il medico che lo psichiatra. Da ragazzo, era stato giocatore di calcio semiprofessionista per i colori granata del Torino F.C. Arruolato allo scoppio della “Grande Guerra”, dapprima aveva militato come ufficiale del genio. Ed era stato combattente valoroso e decorato. Poi, dopo aver frequentato l'università castrense di Padova (1917) Fu aspirante medico nella sanità militare in battaglioni di linea in Carnia, sul Piave, in Val Lagarina e sull'altopiano di Asiago, nell'ospedale da campo diretto dal Prof. Carlo Foà dell’Università di Torino allievo del Bizzozzero. Laureatosi, alla fine delle ostilità, in medicina all’università di Torino (1920), Fiamberti, fu assistente effettivo di anatomia umana dalla gloria nazionale, il sommo maestro insignito di 3 Nobel, il triestino Giuseppe Levi (1872-1965). Successivamente allievo di neuropatologia dal varesino Eugenio Medea (1863-1967) a Milano e di alienistica dall’anconetano Giuseppe Seppilli (1851-1939) a Brescia. Divenne medico di manicomio nel 1921 ed infine direttore del manicomio di Varese nel 1937. Il Fiamberti propose l’acetilcolina-shock-terapia per promuovere una “burrasca vascolare” ed intervenire così sulle malattie mentali [017]. Invece, per i casi più “ostinati”, come s’è anticipato, applicò la psicochirurgia lobotomica per via transorbitaria. Sfortunatamente per lui, ma fortunatamente per i pazienti, ebbe contro un autorevolissimo rappresentante della specialità, un certo Mario Gozzano, il quale nel 1937, riferendosi ai meccanismi acetilcolinici ed alle proiezioni reticolari ascendenti, ebbe ad osservare pubblicamente che codeste basi teoriche proposte dal Fiamberti, apparivano “frutto di un semplicismo quasi ingenuo”. Le stesse “premesse istologiche” ed in particolare “l'ipotesi di identificare anatomicamente il meccanismo del pensiero delirante nel sistema di fibre a percorso quasi obbligato, erano state bollate addirittura ”una mitologia indigeribile" [018].
6. Giuseppe Moruzzi. Gloria internazionale della neurofisiologia.
In base al principio del contrappasso dantesco per colpire l’opera di tanti biechi distruttori di zone pregiate del cervello per “curare” la follia, serva richiamare la memoria di un gradissimo neurofisiologo il reggiano Giuseppe Moruzzi da Campagnola Emilia (1910-1986). Nel medesimo periodo di tempo e di spirito del tempo, di ideologia prevalente, di regimi feroci e antidemocratici del tutto fuori di testa, mentre un gruppo di altri “neuro-psi”, rompevano la scatola cranica o le orbite per massacrare parti pregiate dell’encefalo senza nulla capire, tranne che ridurre al silenzio coloro che protestavano insistentemente, Giuseppe Moruzzi cercava di capire e spiegare il funzionamento delle stesse aree encefaliche. Le trattava con delicatezza e si confrontava coi suoi colleghi. Per di più rispettava anche gli animali oggetto di sperimentazione. La collega neurologa torinese, quasi coetanea, accademica, premio Nobel, Rita Levi-Montalcini (1909-2012), ebbe a dire di lui in sede accademica «Se l’Italia è conosciuta nel mondo dal lato della biologia, e particolarmente nella neurofisiologia, tutto questo è dovuto a un figlio di questo paese, a Giuseppe Moruzzi» [019]. Noi, nel nostro piccolo, potremmo definirlo uno scienziato itinerante, geniale, modesto, umano e anche molto generoso, considerando tutti quelli che si sono circonfusi della sua bravura per ascendere alla gloria del Nobel.
Precocemente, a 13 anni, conobbe di persona la «Riforma Gentile» del 1923, della quale scrisse: «Indubbiamente la riforma Gentile riduceva a poco l’insegnamento della biologia, che era rimandato alla II Liceo. Ma è meglio peccare per difetto che sovraccaricare la mente dei giovani con uno studio tedioso, che ignorava i grandi problemi della genetica e dell’evoluzione» [020]. Impossibilitato a fare lettere come avrebbe voluto, studiò medicina all’università di Parma dove si laureò nel 1933 con Mario Camis (1878-1946), allievo di Sherrington, discutendo una tesi sul cervelletto.
Come esordio e con una borsa di studio della Rockfeller Foundation, nel 1937, andò ad imparare da Frederic Bremer (1892-1982), un pioniere delle ricerche sul sonno, chiamato direttamente all’Istituto di Neurofisiologia dell’ Università di Bruxelles. Bremer, constatato che il giovanotto era sveglio, capace e serio, gli mise nelle mani un elettroencefalografo col quale cominciò a studiare il troncoencefalo, la sonnolenza permanente causata dalla sua resezione completa nell’animale, l’effetto dell'ipoglicemia sull'attività elettrica della corteccia, l’epilessia jacksoniana nella corteccia del coniglio, la propagazione dell'attività convulsiva attraverso il corpo calloso ed altre cose di grande interesse per comprendere qualcosa in più sulla complessità del funzionamento dell’encefalo. Non per spaccarlo.
Nella primavera del 1938 era a Zurigo al Congresso Internazionale di Fisiologia. Nell'autunno 1938
fu chiamato all‘Istituto Neurofisiologico di Cambridge per collaborare con sir Edgar Douglas Adrian (1889-1977), uno scienziato già famoso per aver utilizzato l’ipnosi, secondo la tecnica di Freud, che già praticava clinicamente come medico neurologo, per curare i soldati feriti da shock d’esplosione di granata nella prima guerra mondiale. Insignito del Nobel per la Medicina e la Fisiologia, insieme a Sir Charles Scott Sherrington (1857-1952) nel 1932 La coppia Adrian–Moruzzi, di quel laboratorio inglese sarebbe divenuta celebre per essere riuscita a registrare delle scariche da singoli motoneuroni dei fasci piramidali. Utilizzarono, per la bisogna, dei microelettrodi collegati ad un oscilloscopio, strumento appena messo a punto da Brian Matthews (1906-1986). Con questa predisposizione Adrian e Moruzzi studiarono l'attività elettrica degli assoni nei cordoni posteriori del midollo (fasci di Goll e Burdach, vado a memoria), che conducono dalla periferia al cervello le informazioni tattili [021]. Dal punto di vista delle efferenze motorie, riuscirono a registrare l'attività nervosa del fascio piramidale, che porta i segnali provenienti dalla corteccia motrice. ai motoneuroni del midollo spinale. In esperimenti successivi furono in grado di registrare l'attività di una singola fibra dei fasci piramidali [022]. Si trattò di un evento storico: la registrazione dell'attività di quell'elemento cerebrale che Santiago Ramón y Cajal (852-1934) aveva chiamato «célula psiquiqa e mariposa del alma», attività però elettricamente indistinguibile tra quella proveniente dalle cellule sensitive e quelle efferenti per i motoneuroni.
Poi scoppiò la seconda guerra mondiale ed il lavoro di Moruzzi subì un arresto, perché rientrò in Italia, a Bologna, nel 1939, perché richiamato nella sanità militare,.
Negli anni che seguirono il secondo dopo guerra mondiale, molti scienziati europei si trasferirono negli Stati Uniti. Nel 1947 Moruzzi scelse la “Northwestern University”, una celebre e antica università privata americana con un estesissimo campus ad Evanston, sul Lago Michigan (Illinois). per lavorare nell’istituto di neurofisiologia. Aveva conosciuto Stephen Walter Ranson (1880-1942) celebre professore di Neurologia e Direttore dell’Istituto di Neurologia, ma non fece in tempo a collaborare con lui perché purtroppo era morto d’infarto durante la guerra 5 anni prima.
Trovò, invece, ad attenderlo Horace Winchell Magoun (1907-199) e Donald Benjamin Lindsley (1907-2003) e, insieme, lavorarono per chiarire i processi neurali responsabili della veglia facendo eccezionali esperienze di ricerca. Complessivamente gli anni trascorsi da Moruzzi a Chicago furono due: metà del 1947, il 1948 e metà 1949. Il suo senso etico e morale verso la patria distrutta (in tutti i sensi) dalla guerra lo richiamava in una Italia, completamente da ricostruire. Dunque accettò di rientrare, nel 1949, chiamato all’università di Pisa per insegnare fisiologia umana e quivi creò una scuola neurofisiologica di sommo prestigio.
Bisogna dire che fino agli anni '40, i neurofisiologi ritenevano che lo stato di alertness – da taluni ritenuto la base neurofisiologica della “coscienza” [023] – richiedesse semplicemente un livello adeguato di input sensoriali piuttosto che un processo specifico all'interno dell’encefalo.
Giuseppe Moruzzi aveva preso di mira il tronco dell’encefalo, oltre che il cervelletto; e lì ci girava intorno, arrovellandosi non poco, perché aveva capito che lo snodo principale tra afferenze sensitive, efferenze motorie, vie cerebellari e sistema extrapiramidale, era un po’ il regolatore di quasi tutto il controllo cerebrale. In primo luogo il sonno e la veglia. Il sonno di lusso e il sonno REM, la vigilanza e la coscienza, le elaborazioni emozionali delle percezioni, le donazioni di senso e così via. Intuiva, insomma, che ci doveva essere un arcano biologico che poi insieme ad Horace Magoun avrebbero chiamato Formazione Reticolare Ascendente di Moruzzi e Magoun per l’insù e Discendente per l’ingiù.
In un esperimento del 1949 su un gatto, Moruzzi e Magoun dimostrarono che la stimolazione di una certa regione del cervello (vicino all'intersezione del ponte e del mesencefalo) creava uno stato di vigilanza. Questa zona particolare divenne nota come sistema di attivazione reticolare o formazione reticolare. Nei loro esperimenti, Moruzzi e Magoun hanno anche reciso la formazione reticolare del gatto senza che nessuna delle sue afferenze sensoriali fosse interrotta, dunque vigile, mentre il povero gatto si trovava nello stato di coma. L'esperimento, nondimeno, giunse però ad attirare l’attenzione degli scienziati del sonno da un presunto processo passivo ad uno attivamente controllato dal cervello.
Chiudiamo infine, citando il grande scandalo del suo Nobel mancato, questo rapido e frettoloso excursus, nel timore che il volto del maestro possa sfuggirmi dalla mente di un ricordo lontanissimo ad una sua conferenza dov’ero con Raffaello Vizioli e Mauro Mancia (1929-2007), il quale si tolse il grembiule del laboratorio di neurofisiologia per assumere le sembianze dell’acusmatico, accanto al divano psicoanalitico.
7. – L’ammazzatora de Roma. Il vecchio Mattatoio di Testaccio.
Infine, nel 1938, come anticipato, fece la sua comparsa la convulsione elettrica, di gran lunga la più “pulita” (com’ebbi a sentire a Roma) di tutte le terapie da shock. Questo praticamente il “panorama terapeutico” delle malattie mentali espresso dalla ricerca scientifica psichiatrica a cavallo delle due guerre, quando cioè la psichiatria non è più «metafisica!», come andavano sostenendo i più accaniti organicisti. Da notare ancora che i vari metodi erano perfino proposti in associazione contemporaneamente o in differita. Tra le combinazioni più celebri, citiamo il coma insulinico con elettroshock finale (la cosiddetta combinata) oppure l’insulino-shock al mattino con aggiunta dell’acetilcolino-shock nel pomeriggio.
Torniamo a Cerletti e Bini, perché in fondo da qui siamo partiti, e qui torniamo malgrado le molte digressioni, tipiche delle persone anziane che indugiano nei ricordi dettagliati e un po’ sfuocati della presbiofrenia. Essi seguono come quei nipotini che si trascinano i trenini di legno girando per la casa dei nonni – mi suggeriva Bruno Callieri – che con queste osservazioni facevano entrambi delle scoperte portentose.
Molte persona di buona cultura sanno che la vicenda della “scoperta” dell’elettroshock è iniziata al Mattatoio di Roma e si è conclusa ufficialmente al primo piano della Regia Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma.
Cerletti molto acutamente, e qui sta la genialità del personaggio, non nuovo peraltro ad osservazioni originali [024]. Dietro suggerimento di un infermiere [025] aveva osservato al mattatoio romano di Testaccio che i maiali avviati alla macellazione, contrariamente a quanto si riteneva a prima vista, non erano uccisi dalla scarica elettrica ma semplicemente tramortiti. Solo allora, privi di coscienza, erano consegnati ai “norcini” i quali con molta professionalità provvedevano ad ucciderli e macellarli. si dice che qualcuno avesse suggerito a cerletti di andare a vedere come al mattatoio di Roma ammazzassero i maiali con la corrente elettrica, invece così non era. Nondimeno l’acuto osservatore di scienza osservò che gli addetti stessero bene attenti ad afferrare le teste dei suini mettendo i due aghi delle pinze della corrente uno da un lato e l’altro esattamente dall’altro il che escludeva completamente il coinvolgimento del cuore. Ecco dunque spiegato l’arcano del sacrificio di tanti cani persi dall’Interno Chiauzzi e da Lucio Bini, che ponevano gli elettrodi nella posizione “bocca-retto”. Si potrebbe citare in proposito l’adagio di Blaise Pascal «Le cœur a ses raisons que la raison ne connaît point», benchè tratti di filosofia della religione (Pensées), mentre l’osservazione di Cerletti avveniva in ambienti più compatibili con L' Assommoir di Émile Zola.
Pochi invece sanno che la vicenda ebbe un’anteprima esclusiva e segretissima – quella appunto in cui fu pronunciata la famosa frase – alla quale partecipò un ristrettissimo gruppo di ricercatori. Naturalmente vi erano Cerletti e Bini, Ferdinando Accornero, Vittorio Challiol, Mario Felici, Carlo Rizzo Giuseppe Vattuone, Massimiliano Bartoloni, l’infermiere Vincenzo Cappelletti con il portantino Spartaco Mazzanti che reggeva un tubo di gomma (“la mordacchia”) inserito fra i denti del paziente.
Il clima delle prime sperimentazioni e dell’epopea romana dell’ESK, fine anni Trenta, è ben narrata dal testimone oculare Ferdinando Accornero. [026] «Furono stabiliti i giorni, l’orario nel quale si applicava l’elettroshock e, particolare forse umoristico, ma pratico, si convenne che all’ora della applicazione venisse suonata una tromba a richiamare tutti i medici sparsi per la clinica, che si interessavano all’argomento. Per un anno intero la trombetta da lattaio, stonata e lacerante, dell’inserviente Spartaco risuonò per tre o quattro mattine alla settimana La sala dell’elettroshock, nelle ore di punta, veniva affollata da una decina di medici che si portavano appresso i loro apparecchi di misura… » E più oltre sempre Accornero così continua «Nonostante anche allora la questione del progresso della scienza si ponesse in termini di trombe, trombette e calci, nel senso che la tromba da capotreno la suonava il medico, la trombetta da lattaio la suonava l’inserviente e al paziente non restava che manifestare a calci il proprio dissenso; c’era, in fondo, un’attiva partecipazione di tutti, ovviamente ciascuno secondo il proprio ruolo».
Fare un confronto con quelli assolutamente inutili che ancora si facevano quando c’erano i manicomi, ai tempi della Merini, per esempio, mi pare avvilente, anche per il disinteresse della seduta, routinaria ed essenzialmente anastesiologica.
Questo più o meno avvenne e la documentazione di tale vicenda la dobbiamo alla testimonianza storica di Accornero. Una prosa aulica e forbita, quasi dannunziana, ma con punte umoristiche alla Wodehouse. «Era una mattina dell’aprile 1938. Al primo piano della clinica esisteva un’ampia stanza adibita a laboratorio di un anziano tecnico-disegnatore, il quale si era provveduto anche di un letto per…. riposarsi tra un disegno e l’altro. Poiché l’ambiente non era usato ad altro scopo, era sufficientemente appartato, al sicuro da interventi indiscreti, lo scegliemmo come sede dell’esperimento che si era deciso di tentare. In un groviglio di fili elettrici e di apparati di misura, su un tavolo, era sistemato l’apparecchio ideato da Bini. Erano presenti Cerletti, Bini, Felici, Challiol – che usciva spesso nel corridoio a sorvegliare che nessun estraneo venisse a disturbarci – ed io».
L’esperimento fu ripetuto alcuni giorni dopo (ufficialmente considerato il primo) alla presenza di molti Cattedratici della Facoltà medica romana tra cui il celeberrimo Chirurgo Raffaele Bastianelli (1863-1961) anch’egli indiscusso Primario Chirurgo del Santo Spirito. Infine il metodo di cura per le psicosi schizofreniche venne solennemente presentato e illustrato da Cerletti e Bini all’Accademia Medica di Roma riunita in assemblea plenaria. Come se fosse anche a loro stato assegnato un premio Nobel. Viste le nomine che venivano elargite nel primo mezzo secolo del Novecento, in tema di malattie mentali, è sempre rimasto un mistero perché Cerletti e Bini siano stati esclusi. Furono chiacchierate varie motivazioni, in Clinica. Chi diceva che due personaggi preminenti, originali e rilevanti negli studi sperimentali erano troppi per un solo premio. Chi diceva che l’Italia doveva essere punita per la sua guerra sbagliata. Altri mormorarono che la commissione era talmente terrorizzata di poterne subire uno che il premio non fu nemmeno preso in considerazione.
Quanto all’ESK, si trattava, ed è rimasto, un metodo empirico di cura basato sul presupposto (mai dimostrato) che tra alcune esperienze afferenti al disturbo schizofrenico (segnatamente quelle deliranti allucinatorie) e la serie di convulsioni epilettiche vi fosse una totale incompatibilità. Dunque una convulsione indotta artificialmente avrebbe emendato il cervello, l’encefalo dalla malattia schizofrenica. Questo assunto di base su cui si sono sempre fondate le cosiddette “terapie biologiche” o “cure somatiche” o “trattamenti di shock”, che dir si voglia. Praticamente “cure disperate” [027].
8. – “Prima era il buio… poi vennero le “cure disperate”.
Nei vecchi Trattati di Psichiatria, alla voce trattamenti somatici c’era un lungo preambolo per informare il lettore che prima c’era il buio (cioè la violenza sostenuta dall’ignoranza che si esprimeva in una bizzarra e infinita congerie di sevizie e di sadismi), poi finalmente venne la luce ovvero la “Scienza” e agli infermi di mente, dal terzo decennio del XX secolo, si apriva la prospettiva moderna delle terapie da Shock. In questo panorama l’elettroshock può a buon diritto essere considerato il trattamento clou, volendo escludere dal novero delle “terapie” la psicochirurgia. Per i pazienti psichiatrici era sempre stata dura. Malgrado tutte le buone intenzioni il soma veniva invariabilmente condotto nell’anticamera della morte, tanto per rinfrancar la mente. Abbiamo già ricordato Vito Maria Buscaino, un vecchio Maestro, che passava per organicista fino all’ultimo, denunciare senza mezzi termini le bastonate che da Celso in poi erano sempre state somministrate ai malati di mente.
Proprio perché il mio Maestro non condivideva, per principio, le “terapie disperate” ed anche perché a maestri successivi, mi sono eletto psicopatologi fenomenologi come Bruno Callieri e Aldo Giannini, mi sono lungamente dedicato alla critica del metodo ed allo studio critico delle basi teoriche dell’ESK. Peraltro, la signora Walburga Bollendorf, la moglie di Gozzano, tra l’altro, non disdegnava la psicoanalisi, anzi!.
Fu anche per questo che nel 1984, accettai di andare a Lucca, accettando l’invito di Luciano Del Pistoia e Francesco Bellato per partecipare ad un convegno italo-francese [028] dove presentai una relazione dal titolo L’elettroshock come taglio epistemologico nell’ambito dei trattamenti somatici.
Successivamente, nel 1994, la Regione Lazio istituì una commissione conoscitiva di esperti, di cui lo scrivente fece parte, per appurare lo stato dell’arte della “cura” ECT. Risultò trattarsi di una terapia empirica, invasiva, da eseguirsi pertanto in anestesia e miorisoluzione, per particolari ed eccezionali stati psicotici caratterizzati da grave e persistente arresto psicomotorio. Ciò significava che era vivamente raccomandato allo psichiatra “prescrittore” e “somministrare”, di partecipare assistito dall’anestesista, considerandolo un atto chirurgico. Dopo mi sono spiegato, fin dai primi tempi, di Genova, perché, per la corrente, incaricasse sempre un suo collaboratore, di somministrarla.
Vale la pena ricordare un dettaglio nell’evoluzione storica dell’ESK a Roma. Il romagnolo Ardito Valducci, anestesista di Beniamino Guidetti, [il neurochirurgo allievo di Herbert Olivecrona (1891-1980) approdato alla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali di Gozzano], lasciò il palloncino della camera operatoria per fare l’anestesista rianimatore ambulante al seguito dello psichiatra per formare la “coppia legalmente perfetta secondo i dettami regionali”.
Qualche anno fa (gennaio 2010) ho sentito telefonicamente Francesco Bellato per un suo prezioso servizio fotografico (arte in cui lui è bravissimo) intitolato Catalogo degli strumenti medici e scientifici dell’ex OPP di Fregionaia e si è ricordato della mia relazione citandomi la “mordacchia” di Spartaco Mazzanti.
9. – Non è ancora spuntato il sole ma qualcosa si comincia a capire.
Al di là di queste considerazioni, è interessante indagare sul nesso esistente tra sviluppo del sapere psichiatrico e contesto socio-culturale di quel determinato periodo storico in cui fiorirono le “terapie da shock”.
La Storia della Scienza e ancor meglio l’indagine epistemologica sul valore delle ricerche scientifiche, ha dimostrato che la scienza stessa, la tecnologia e più in generale la ricerca – anche la ricerca pura – non sono mai “neutrali” o, se si preferisce, non sono esenti da condizionamenti storici, politici, sociali, economici. Ebbene, in una simile chiave di lettura dei fatti riguardanti i modi di curare il disturbo mentale, ed anche la salute mentale, probabilmente non è casuale che la scienza medico-psichiatrica positivista della mitteleuropa, tra la fine della prima guerra mondiale e l’inizio della seconda, abbia pensato, sperimentato e attuato una intensa ricerca scientifica sulla schockterapia. Ma abbia anche elaborato un radicale rifiuto, proprio nei manicomi, non molti, ma significativamente importanti, applicando l’indagine sulla psicopatologia fenomenologica all’infermità mentale anziché tentare di annientarla, come in alcuni casi è avvenuto ostinatamente applicando la lobotomia, laddove non fosse stata bastevole la medesima mutilazione del pensiero.
Alcuni dati sono di evidenza palmare e danno conto dello Zeitgeist che, all’epoca, si respirava “legato con le fasce” anche nella Freniatria. L’ardente desiderio modernista, marinettiano, l’audacia interventista di pochi “ingegni eletti” nella sperimentazione sull’uomo, l’illimitata disponibilità per scopi scientifici di “materiale umano”, la grande illusione che tutte le malattie mentali potessero essere ricondotte a quanto si era scoperto intorno all’etiologia luetica della paralisi progressiva, la possibilità che si dava alla psichiatria di poter “entrare nella vita” dopo essere stata a lungo ritenuta “scienza funeraria” (per usare le espressioni di Ugo Cerletti), l’opportunità di sostituire il barbaro concetto di paura con quello più moderno di shock nel trattamento della follia, costituiscono la tinteggiatura di sfondo in cui va collocata la scoperta dell’elettroshock.
Viene spontaneo domandarsi se questo evento sia molto distante dai valori culturali, politici, economici, morali, etico-sociali di quel periodo storico. Si può davvero pensare che la direzione della ricerca scientifica nell’ambito del comportamento umano, non sia stata influenzata dai nuovi assetti psico-sociologici postbellici, dalle suggestioni degli eventi politici che avrebbero consentito l’avvento del fascismo e poi del nazismo? Peraltro non va trascurata la rivalità e la competizione tra le scuole psichiatriche dell’epoca. Quelle di lingua tedesca – nell’ambito delle “terapie da shock” – avevano già parlato per bocca di Sakel e di Meduna, volendo escludere Jauregg che in fondo non produceva convulsioni né shock. Poteva la scuola italiana tacere in un simile consesso di scienziati? Ed ecco allora scendere in campo la proposta di Cerletti e Bini che induceva lo shock addirittura con la corrente elettrica. Ad onor del vero va detto che mentre tutti gli altri sistemi di cura sono caduti in disuso, la cura di Cerletti e Bini resiste ancora, dopo 50 anni, in qualche parte ed è diffusa in tutto il mondo tranne forse che in Italia.
È magro il risultato di consolarsi annoverando tra gli artisti sublimi un’eccezionale, cantrice dell’amore, del dolore, della passione e dell’esclusione. A questo punto mi pare ampiamente dovuto, come meritato omaggio, anche un breve ricordo della sua persona scomparsa 10 anni fa (2909), Alda Merini per il suo tributo diretto pagato a questa storia con cinquantasei elettroschock subiti.
Note a ESK di ESK (Cerletti e Bini definitivo)
[01]. Il Pio Istituto di Santo Spirito e Ospedali Riuniti di Roma, era un Ente ecclesiastico che, a partire dal 1896, ha raggruppato e amministrato una vasta serie di ospedali e relativo patrimonio immobiliare nell'area romana, con il bellissimo castello antico di Santa Severa. Era il più ambito nell’area romana per la carriera medica. Vincere un concorso da Assistente Medico Ospedaliero, a salire ad Aiuto fino a Primario era quasi come vincere una cattedra universitaria. Si racconta che ci fu una lotta molto accanita tra un Cattedratico di “Pediatria” del “Policlinico Umberto I” – dove c’è scritto sulla facciata In puero homo – ed un Primario del Pio Istituto, che esitò in un arresto del bando di concorsi da Primario pediatra in tutti gli OORR. Per molti anni si fecero solo “Aiuti”. L'Ente morale nel 1970 fu trasformato in azienda ospedaliera per poi essere sciolto definitivamente nel 1976.
[02]. Provo, così tanto per ricordarmeli, codesti Maestri, solo quelli che ho conosciuto personalmente in quell’epoca lontanissima, ad elencare qualche nome, per ordine alfabetico, non d’importanza o di fama. Tutti personaggi che ebbero, a vario titolo, un incarico d’insegnamento o diressero laboratori o reparti o impartirono esercitazioni nella Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, con Cerletti e Bini, inventori dell’elettroshock, che lasciamo fuori quota. Ferdinando Accornero, Ferruccio Antonelli, Tullio Bazzi, Bruno Callieri, Luisandro Canestrini, Antonio Castellani, Giannetto Cerquetelli, Vittorio Challiol, Clemente Catalano-Nobili, Carmine D’Angelo, Alberto Ederli, Mario Felici, Sebastiano Fiume, Maurizio Maria Formica, Giuseppe Jorio, Lothar Kalinowski Aldo Laterza, Lamberto Longhi, Enrico Mariani, G. Martinotti, Marcello Millefiorini, Franco Paparo, A. Papetti, Romolo Priori, Aldo Semerari, Giorgio Spaccarelli, Giuseppe Vattuone, Romeo Virgili (21 in totale). Quelli di Gozzano, furono invece i seguenti.
Giovanni Bollea e tutta la sua numerosissima scuola che aveva chiesto temporaneamente rifugio a Gozzano nello scantinato della Neuro entrando a destra, prima di trovar casa a Via dei Sabelli. Fulvio Valassi, Paolo Severini, Raffaello Vizioli, Giovanni Alemà, Gian Carlo Reda, Vincenzo Floris, Beniamino Guidetti, Cristoforo Morocutti, Paolo Pancheri, Gaspare Vella, Giuseppe Donini, Giovanni Jervis, Antonino Lo Cascio, Francesco Montanari, Pasquale Silipo, Guido Castorina, Mirella Mattogno, Graziella Nencini, Roberto Tagliacozzo, Paolo Perrotti , Mario Trevi, Eleonora D’Agostino, Luciano Leppo, Paolo Perrotti, Massimo Marà (20)
[03]. Per equità e anche a titolo di gratitudine cito alcuni colleghi del gruppo di Bollea: Arnaldo Novelletto, Pietro Benedetti, Sandro Maier, Marinella Rosano, Marco Lombardo Radice, Mauro Ferrara, ecc.
[04]. Questo Seminario-Aperto del Prof Mario Rossi Monti, che ho particolarmente caro per la sua nitida chiarezza, lo promossi il 23 febbraio 2013 alla S.P.I.G.A. (Società di psicoanalisi interpersonale e gruppo analisi) di Roma in Via Poggio Moiano 34/c, era intitolato Quando tutto si tiene. Psicopatologia dell’esordio psicotico Il razionale era il seguente. «Le esperienze di trasformazione epocale, artificiosità e salienza sono tre tratti costitutivi delle esperienze di trasformazione del mondo all’esordio della psicosi. Sullo sfondo tuttavia si individua un’altra esperienza spesso riferita dai pazienti nel corso di questo viaggio verso il delirio. Si tratta della sensazione che ogni oggetto, persona, cosa sia come collegato a tutte le altre da imperscrutabili e inquietanti connessioni che formano una vera e propria rete che avvolge e imprigiona la persona. Una condizione che è stata chiamata esperienza di concernement (che mi preoccupa, mi riguarda, si riferisce a me) e che noi prenderemo in considerazione in quanto “disturbo della reciprocità”. Il mondo dello stato d’animo delirante è viceversa un mondo dalle caratteristiche angosciose e persecutorie nel quale ogni gesto (pensiero, emozione) diventa gesto di un altro e viceversa ogni gesto (pensiero, emozione) dell’altro diventa mio gesto (pensiero emozione), secondo la logica del transitivismo e della appersonazione. Un mondo nel quale l’intenzione dell’altro diventa la mia intenzione e la mia intenzione diventa quella dell’altro è un vero e proprio inferno: l’ “inferno dei neuroni specchio”?».
[05]. Molti anni fa, all’epoca del DSM di Torrespaccata, da Nicola Ciani, interessato al fenomeno esorcistico, nella sua Clinica Psichiatrica della II Università romana di Tor Vergata – “Villa Gentile” – ho assistito ad un paio di conferenze del famoso esorcista di Modena Gabriele Pietro Amorth (1925-2016). Padre Amorth. Aveva fatto il partigiano nella Brigata Italia comandata da Ermanno Gorrieri, col soprannome di “Alberto”, decorato al valor militare. Ordinato presbitero dei paolini nel 1954, è stato un esorcista della diocesi di Roma dal 1986 al 2007 eseguendo circa70.000 esorcismi. Numerose erano state le sue collaborazioni con psichiatri.
[06]. Yves Pelicier. Storia della psichiatria. Minerva Medica, Roma, 1978, pp. 14-15. È citato von Robert Hinshaw, Carl A Meier Y.A.: «Antik Inkubation und moderne Psychotherapie», Roscher editore, Zurigo, 1949; Gil L. «Thérapia », Guadarrama editore, Madrid, 1969. Robert Hinshaw, Carl A Meier.
[07]. Quando Pinel nel 1793 (a 48 anni) viene nominato medico capo del reparto alienati a Bicêtre. Vede i malati ammucchiati in condizioni disumane; gli agitati sono incatenati. In quella bolgia della follia, conosce il sorvegliante Jean-Baptiste Pussin (1745-1811) – addetto alle gabbie degli agitati – e, col suo aiuto, libera dalle catene la maggior parte degli infermi. Si adopera per abolire il regime carcerario del manicomio (dal greco mania = follia komeo = io curo), introdurvi il «trattamento morale» e l’«ergoterapia». Quando nel 1795 viene trasferito alla Salpêtrière, chiama con sé il fidato Pussin per bonificare anche quell’ambiente e proseguire la sua opera. Il clima della Rivoluzione Francese, in qualche modo, la favorisce.
[08]. Per una corretta storia delle “terapie da shock delle affezioni mentali” si veda, per gli AA. Italiani: Edoardo Balduzzi. Le terapie di shock, Feltrinelli, Milano, 1962. Per gli AA di lingua inglese: Edward Shorter e David Healy. Shock therapy, a history of electroconvulsive treatment in mental illness. Rutgers University Press, New Brunswick, New Jersey, and London, 2007. Per un panorama più recente delle “Terapie Somatiche”, nell’editoriale della Rivista di Psichiatria 2012; 47 (1): 1-4, Corsi e ricorsi in psichiatria: le terapie somatiche Francesco Saverio Bersani e Massimo Biondi scrivono «Una possibile definizione di terapia somatica è la seguente: “ Trattamento che mediante l’impiego di stimolazioni fisiche di diversa natura induce nel cervello delle modificazioni funzionali potenzialmente migliorative rispetto alla condizione psicopatologica espressa nella sintomatologia clinica». Il loro articolo, di grande attualità per evitare che si verifichino “Ricorsi”, così prosegue «Le terapie somatiche in psichiatria sono state usate in maniera massiccia fino agli anni ’50; con l’avvento della psicofarmacologia, esse sono state aspramente criticate prima, parzialmente dimenticate poi. Al giorno d’oggi, tuttavia, esse sono nuovamente all’attenzione della comunità scientifica e vengono utilizzate in un ampio numero di ospedali e università. L’utilizzo sistematico delle terapie somatiche è documentato a partire dal XVIII secolo, quando non esistevano conoscenze su come curare i disturbi mentali. Evidenze empiriche mostravano che alcune situazioni alleviavano la sintomatologia e per questo motivo tali situazioni venivano usate (spesso molto grossolanamente) a fini terapeutici».
[09]. Meduna comunicò che dei ventisei pazienti presi in considerazione, dieci erano considerati come sensibilmente migliorati, tre mostravano solo una temporanea diminuzione dei sintomi psicotici, e in tredici non era stato riscontrato alcun cambiamento.
[010]. Nel 1909, Freud, invitato negli Stati Uniti d’America da Granville Stanley Hall, tenne cinque conferenze sulla psicoanalisi dal 6 al 10 settembre alla Clark University di Worcester (Boston).
[011]. Il tema di prendere le distanze da un passato tragico, attualmente è sbiadito ed ha perso di attualità. Il recente Trattato di Aquisgrana (22 Gennaio 2019) tra Angela Merkel ed Emmanuel Macron per festeggiare il Trattato dell’Eliseo di 56 anni fa tra Konrad Adenauer e Charles De Gaulle e rinnovarlo proponendosi come primus super pares fra tutte le altre nazioni europee, appare abbastanza minaccioso e incoraggia cattivi pensieri. Soprattutto contro le Istituzioni comunitarie che avevano contribuito a fondare. Non è nostra abitudine fare commenti politici, ma per quanto ci concerne in merito ai “deliri di grandezza”, che elevano e distaccano dalla realtà, suggeriamo di rileggere almeno due testi utili e certamente datati, ma di una chiarezza adamantina. Anna Arendt. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. Feltrinelli, Milano 2013. Alexander Mitscherlich. Verso una società senza padre. Traduzione Sonia Bueno. Editore Feltrinelli, Milano, 1977, Edizione 6°. Collana: I nuovi testi.
[012]. Il Testo è di Erving Gofmann. Asylum. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza. Traduzione dall’inglese di Franca Basaglia. Introduzione di Franco e Franca Basaglia. Nuovo Politecnico 23 Einaudi, Torino, 1968.
[013]. Era stato nominato ambasciatore USA a Londra dal presidente Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), suo amico personale e stessa militanza politica, dove si era trasferito con tutta la famiglia. Rose li stava benissimo, aveva amici, legami affettivi, badava alla propria istruzione scolastica. Quando fu richiamato in patria se n’ebbe a male ma rientrò. Il ritorno fu disastroso soprattutto per Rose, costretta a recidere tutte le relazioni costruite il che le causò una regressione gravissima dell’umore e una forte ribellione agli ordini familiari.
[014]. Un incidente sul lavoro avvenuto nel pomeriggio del 13 settembre 1848 vicino alla città di Cavendish, nella Contea di Windsor, mentre inseriva una carica esplosiva in una roccia che doveva essere fatta saltare in aria perché bloccava il passaggio della linea ferroviaria in costruzione. A causa dell'esplosione accidentale della polvere da sparo, il ferro di pigiatura che Gage stava usando per compattarla schizzò in aria attraversando la parte anteriore del suo cranio, provocando un grave trauma cranico che interessò i lobi frontali del cervello.
[015]. Nel dicembre 1888 Burckhardt, che aveva poca esperienza di chirurgia, inaugurò quello che può ritenersi a tutti gli effetti il primo intervento di psicochirurgia. Operò sei pazienti che aveva in cura, due donne e quattro uomini di età compresa tra i 26 ei 51 anni, il cui comportamento era ritenuto intrattabile.
[016]. PCF. Acronimo inglese di Prefrontal Cortex. La parte anteriore del lobo frontale dell’encefalo, davanti alla corteccia motoria primaria ed alla corteccia premotoria. La zona racchiude le seguenti aree di Brodmann: la 9, la 10, la 11, la 12, la 46 e la 47.
[017]. Cfr. Adamo Fiamberti. Sul meccanismo d'azione terapeutica della "burrasca vascolare" provocata con derivati della colina. Giorn. di psichiatria e di neuropatologia, LXVII (1939), pp. 270-280. Si veda anche Prof. Emilio Maura, Dr. Stefano Pirrotta. Appunti per una storia della psicochirurgia. Creato: 19 Giugno 2014. Pubblicato: 15 Ottobre 2014.
[018]. In Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, alla voce Fiamberti Adamo Mario – Volume 47 (1997) – redatta da Giuseppe Armocida si legge «Le basi teoriche dell'operazione erano state subito discusse in Italia con argomentazioni abbastanza critiche, pubblicate già nel 1937 da M. Gozzano, che considerava frutto di un semplicismo quasi ingenuo l'ipotesi di identificare anatomicamente il meccanismo del pensiero delirante nel sistema di fibre a percorso quasi obbligato; le stesse premesse istologiche erano state definite addirittura una “mitologia indigeribile"».
[019]. Rita Levi Montalcini; Università di Parma, 20 marzo 1990, Ricordo di Giuseppe Moruzzi. Tra l’altro rammenta anche che lo conobbe per la prima volta il 1 ottobre 1939, il giorno tragico dell’invasione completa della Polonia da parte della Germania di Hitler. Esattamente il mese prima, secondo il “piano bianco” («Fall Weiss»), era giunta a Danzica la corazzata Schleswig-Holstein, in finta visita di cortesia e alle 4,45 del mattino aveva aperto il fuoco sulla penisola fortificata di Westerplatte contro un deposito militare polacco, facendo una strage.
[020]. Meulders Michel. Piccolino Marco. Wade J Nicholas (a cura di). Giuseppe Moruzzi. Ritratti di uno scienziato. Portraits of a scientist. Edizioni ETS. Pisa 2010, pp. 56.
[021]. Meulders, "Giuseppe Moruzzi", op. cit., pp. 17.
[022]. Meulders, "Giuseppe Moruzzi", op. cit., pp. 22.
[023]. Vizioli Raffaello, Bietti Clelia. Il problema della coscienza in neuropsichiatria. Editore: Omnia Medica Roma 1966.
[024]. Uomo di fantasia fervidissima e di osservazione acutissima, Ugo Cerletti, sfornava invenzioni a getto continuo. Basterebbe accennare qui alla scoperta della tuta bianca per gli a!pini, corpo dove militava, per toglierli dall’occhio dei cecchini, all’invenzione di una spoletta ritardata utilizzata nella Grande Guerra, senza aver frequentato neppure un solo giorno alla “Scuola di Applicazione di Artiglieria di Torino”, dov’erano stati tutti gli alti generali dell’esercito Italiano. Non va dimenticata però l’invenzione dell’ombrello di ozonizzazione dell’aria per i metereopatici. Eppure non risulta che si sia occupato di curare la propria immagine di inventore o di scienziato. Ma il fatto veramente curioso è che tutte le volte che ebbe a che fare con la corrente elettrica diede l’impressione di comportarsi in modo tale da favorire la creazione di un binomio o, quanto meno, alimentare una certa incertezza sulla paternità dell’esperimento. Faccio osservare che nel 1932, quando si trovava alla Cattedra di Genova, fece descrivere dall’interno Chiauzzi le sue ricerche sulla sindrome epilettiforme dei cani trattati con la corrente elettrica secondo il metodo Viale. E faccio ancora notare che nel 1938 incaricò l’Assistete Bini di rispondere sulla corrente elettrica in occasione della presentazione dell’elettroshock di fronte alla Accademia Medica Romana. Fu solo una questione di stile o modestia di scienziato? In effetti, non è facile cogliere la personalità intima dello scienziato Cerletti e tutti gli aneddoti che si raccontano di lui non fanno altro che alimentare la contraddittorietà e l’ambiguità che circondava il suo indiscusso carisma. Dai suoi avversari, ma anche dai suoi epigoni, fu criticato di non aver impegnato il suo prestigio per mettere in Cattedra almeno uno dei suoi allievi, eppure si legga con quanta venerazione lo ricordi Accornero.
[025]. Si diceva sottovoce fra il personale subalterno della “Neuro” che il grande suggeritore del Direttore fosse Spartaco quello della “mordacchia”, della trombetta da lattaio e delle partite a boccette al Dopolavoro universitario del Teatro Ateneo.
[026]. Ferdinando Accornero. Testimonianza oculare sulla scoperta dell’elettroshock. Pagine di Storia della Medicina, (Roma), 14, 2: (38-52) 1970).
[027]. Elliot S. Valenstein. Great and Desperate Cures: The Rise and Decline of psychosurgery and other Radical Treatments for Mental Illness (1986). Trad it. Cure disperate. Illusioni e abusi nel trattamento delle malattie mentali. Giunti, Grandangolo, Firenze, 1993. Presentazione di Giovanni Jervis. Dalla “quarta di copertina”. Questo libro racconta la storia di varie terapie cosiddette "radicali" Le terapie radicali, fino agli anni '50, hanno goduto, a torto o a ragione, di un notevole favore nella cura di numerosi disturbi psichiatrici: l'elettroshock, le terapie convulsive e la lobotomia. E' soprattutto su quest'ultima che si concentra l'attenzione dell'autore. Editore “La psichiatria è la storia della sostanziale impotenza dell’uomo davanti alla follia. E’ quindi anche storia di illusioni e di frustrazioni, di falsi entusiasmi e distorsioni in cui gli stessi psichiatri sono caduti. Talora, e anzi forse con una preoccupante frequenza, la psichiatria è stata anche purtroppo, storia di bassezze e crudeltà…”. Questo volume è una dimostrazione autorevole e documentata della pericolosità e dell’inutilità di tante terapie somatiche cruente applicate alla cura della malattia mentale. Una drammatica denuncia degli innumerevoli disastri provocati nel corso di molti anni dalla psicochirurgia. Non si è trattato – dice Valenstein – “… di aberrazioni mediche generate dall’ignoranza. Questi interventi sono stati a tutti gli effetti parte integrante del filone principale della medicina del loro tempo e i fattori che ne hanno alimentato lo sviluppo e lo hanno reso florido sono attivi ancora oggi”.
028. Cfr. Mellina Sergio (1980). L’elettroshock come taglio epistemologico nell’ambito dei trattamenti somatici. In: Del Pistoia Luciano, Bellato Francesco (curatori) “Curare e ideologia del curare in psichiatria”, pp. 145-162. Atti del Convegno italo-francese organizzato in Lucca i giorni 10-11 Ottobre 1980 sono pubblicati a cura dall’Amministrazione Provinciale di Lucca. Da Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 1981.
Bibliografia specifica per ordine cronologico.
1. Hessen Boris Mikhailovich (1931) The Social and Economic Roots of Newton's Principia. In Nikolaj Ivanovič Bukharin, et al. “Science at the Crossroads: Papers from the Second International Congress of the History of Science and Technology”. Londres: Kniga, 1931. pp. 147–212.
2. Chiauzzi A (1934) Ricerche sperimentali sull’epilessia col metodo del Viale. Pathologica, 26, 18,1934.
3. Cerletti Ugo, Bini Lucio (1938). Comunicazione sull’elettroshock. Bollettino e Atti della Reale Accademia Medica di Roma, 64, 1938.
4. Cerletti Ugo e Coll. L’Elettroshock Ed. Istituto Psichiatrico dl S. Lazzaro, Reggio Emilia, 1940. 5. Claude Henri et Rubenovitch Peter. (1940). Thérapeutiques biologiques dei affections mentale, Ed. Masson, Paris, 1940.
6. Fiamberti Mario Adamo. L‘acetilcolina nelle sindromi schizofreniche Ed. Niccolai, Firenze, 1946.
7. De Giacomo Umberto (1956). Voce Shockterapia. Enciclopedia Medica Italiana vol. VIII p. 1791 Ed. Sansoni, Firenze, 1956.
8. Mellina Sergio (1959). Considerazioni sui potenziali evocati al vertice. Rivista di Neuro. (ed. Calia, Napoli) vol. XXIX fasc. 2, pp. 296-301, marzo-aprile 1959.
9. Vizioli Raffaello e Mellina Sergio (1967). L’Inibizione nel Sistema Nervoso. Edizioni Minerva Medica, Torino, 1967.
10. Gozzano Mario e Mellina Sergio (1968). Un raro caso di psicosi mista insorta dopo castrazione roenten-terapica. Il Lav. Neuropsichiat. (O.P.P. “S. Maria della Pietà”, Roma), anno XXII, vol. XLIII, fasc. III bis, 1968.
11. Mellina Sergio e Vizioli Raffaello (1968). Argomenti di neurofisiologia clinica. Le Monografie de “Il Lavoro Neuropsichiatrico”, Roma, n. 1, novembre 1968.
12. Mellina Sergio (1972). L’elettroshock-terapia: limiti, tematiche. Relazione alla II Riunione monotematica (3/5/1972) “Temi di terapia, prevenzione e riabilitazione in psichiatria” presso l’O.P.P. di Roma. In: “Problemi e Prospettive di Assistenza Psichiatrica” (pp. 16-41 della rubrica in fascicolo a parte). Il Lav. Neuropsichiat., 50/1, pp. 188-213, 1972.
13. Mellina Sergio (1974). Osservazioni in tema di terapia dell’epilessia. Redazione degli Atti e intervento alla VI riunione monotematica presso L’OPP di Roma in temi di terapia prevenzione e riabilitazione in psichiatria. Il Lav. Neuropsichiat., 54, 1/3:293, 1974.
14. Passione Roberta. Ugo Cerletti. Scritti sull'elettroshock. Editore: Franco Angeli, Milano; (1a edizione 5 lug 2006)
15. Passione Roberta. Ugo Cerletti. Il romanzo dell'elettroshock. Reggio Emilia: Aliberti editore, 2007.
16. Fiorani Matteo. Bibliografia di storia della psichiatria italiana 1991-2010. Editore: Firenze University Press (30 novembre 2010).
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