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Ingiunzioni economico-economicistiche e etica ed efficacia della cura: partendo dalla cosiddetta valutazione

8 Mar 19

Di Angelo-Malinconico e preziosomariaaltomare
Cosa collega la radicalizzazione dei protocolli di valutazione nelle cure rivolte alla tutela della salute mentale, la razionalizzazione delle risorse e la diffusione di modelli teorici e pratici standardizzati e omologanti? E quali i rapporti con un discorso sull’economia?
Il nostro contributo vuole segnalare la concatenazione rigida e auto-referenziale che lega diagnosi, valutazione, logiche di budget e programmi di cura, alla luce dell’emergere di protocolli in cui vengono accostati modelli di quantificazione e incasellamento dell’individuo, segmentazione e separazione del paziente dal corpo sociale, retorica del risparmio delle risorse e dimensioni standardizzate di intervento terapeutico. Tutto ciò, molto spesso, con il risultato della rimozione del Soggetto e della sua specificità.
Quotidianamente ci troviamo impegnati, dentro le istituzioni di cura, a fronteggiare la marea di protocolli di valutazione finalizzati alla “ottimizzazione delle risorse”.
Le conseguenze riguardano non solo l’assetto amministrativo, economico e organizzativo, ma la relazione con il paziente e gli obiettivi del processo di cura.
Il Soggetto, a nostro parere, sorge dalla resistenza alle due forme di misurazione a cui lo vorrebbe relegare il sistema curante iper-formalizzato: diagnosi secondo la sommatoria di criteri (e relativa proliferazione di criteri tassonomici, comorbidità, ecc.) e inquadramento secondo logiche di budget. Principalmente – attraverso queste misure – si vogliono indirizzare e conformare i processi di cura.
Non si tratta solo di obiettivi di bilancio, o di discorsi scientifici intorno a criteri di oggettività nella valutazione e nel trattamento dei pazienti, ma dell’idea stessa di cosa sia, e cosa no, un Soggetto.
Il presupposto da cui prendiamo le mosse è una critica nei confronti della presunta (e falsa) neutralità dei modelli di intervento (economici e terapeutici) e dell’idea di essere umano che sottende a tali modelli.
Le teorie e tecniche di intervento attualmente egemoni e le loro declinazioni più varie nel contesto della terapia e della riabilitazione psicosociale sembrano essere prossime all’universale riconoscimento in quanto unici strumenti validi. Tali modelli sono nati in stretta connessione con le esigenze empiriche di valutazione e, dunque, in una sorta di profezia che si auto-adempie, si prestano meglio alla produzione di dati (e alla conseguente lettura che se ne dà). Ciononostante, e come ovvio, in un quadro complesso come quello delle cure psichiche, risulta sospetto il fanatismo di chi vorrebbe totalizzare il campo attraverso una costante e definitiva misurazione e omologazione degli interventi; questi ultimi, poi, non possono che ridursi a forme – anche raffinate – di rieducazione (1), con due conseguenze:
 
1. il soggetto è ridotto a insieme di abilità, estratte dalla frammentazione della totalità complessa che l’individuo è;
2. chi non è trattabile o rieducabile, finisce nel calderone della devianza, della minoranza, della inconsistenza (una specie di profilazione che porta a un risultato paradossale, che non può che ingenerare una amara ironia: si può curare solo chi è in condizione di farsi curare…).
 
Al di là di ogni ideologia libertaria, le prassi quotidiane e le riflessioni che da esse derivano ci conducono a proporre considerazioni controcorrente, che riguardano il paziente, l’assetto istituzionale e i fenomeni di transfert e co-transfert che costituiscono la trama della “pervasiva attitudine terapeutica” a cui ci rifacciamo.
Come sappiamo, esistono programmi riabilitativi di qualità, validi e che coinvolgono pazienti che prendono parte a questi percorsi in maniera sufficientemente consapevole, con una domanda che è possibile elaborare, con poche crisi alle spalle e abilità sostanzialmente conservate.
Ci sono poi quadri differenti, nei quali si sommano condizioni psicopatologiche estremamente gravi, dimensioni di disagio sociale (direttamente condizionate dalla patologia), fino a giungere a problematiche di natura economica e abitativa.
Come ovvio, l’obiettivo dell’istituzione di cura è e deve restare quello di agire terapeuticamente sugli aspetti di sintomo, emotivi, relazionali con attenzione peculiare a quanto attiene all’inconscio; ma il confronto con il paziente grave impone una scansione di tempi, di spazi e di pratiche che diverge fatalmente da quella che può essere utilizzata nei casi che abbiamo appena descritto (giovane età, patologia non ancora cristallizzata nella personalità del paziente, aspetti cognitivi, sociali e relazionali relativamente salvaguardati). Il paziente grave, spesso con tanti anni di patologia e frequenti crisi alle spalle, giunge in Comunità con una domanda confusa, povera, non analizzata e spesso non decodificata o elicitata dai curanti invianti e quindi con una scarsa consapevolezza degli obiettivi della cura e dell’invio stesso. Si tratta dei “dannati della terra”, per cui esistono due opzioni: o schiacciare tutto sull’elemento assistenziale, fornendo un supporto a sostegno dei soli bisogni fondamentali, o attivare un pensiero terapeutico, una “mente di équipe” che consideri questioni centrali quali il transfert, il co-transfert, l’attitudine alla drammatica ripetizione, l’assetto familiare e l’ambiente di provenienza; insomma una ricerca di potenzialità ancora vive, seppur nel marasma esistenziale. È compito di una équipe, insomma, quello di attivare costantemente la mente di gruppo intorno ai processi inconsci del paziente e del gruppo stesso, distinguendo così un approccio analiticamente orientato da altri più concentrati su istanze comportamentali, pedagogiche o esclusivamente aderenti al mandato relativo alla riacquisizione del funzionamento sociale e lavorativo.
La domanda fondamentale diviene dunque: dove potranno sostare e tentare una ridefinizione della propria esistenza questi soggetti? È la domanda – scomoda – che si sono posti nel tempo personalità come quella di Mario Tobino o Jean Oury, e che oggi deve essere ribadita, per non dimenticare l’obbligo di istituire i luoghi di accoglienza e iscrizione di pazienti che non rientrino nelle categorie anagrafiche e psicopatologiche dettate dalle linee guida. Non corriamo – in caso contrario – il rischio di fornire soluzioni di natura esclusivamente assistenziale, in cui la mente terapeutica viene cancellata, in nome di una assimilazione del soggetto al paziente-tipo (quello che “cura la propria igiene”, cucina, costruisce tristissimi posacenere e compone puzzle e tele di omerica memoria)? (2)
Discuteremo qui le modalità con cui il discorso economico si interseca con quello della cura, della valutazione e dei modelli di intervento, attraverso una rapida e di certo non esauriente panoramica.
 
Il valutazionismo
Con il prevalere di una cultura dell’efficienza e della distribuzione delle risorse di tipo “aziendalistico”, che tutto riduce a costi, centri di costo, produttività, redditività, secondo le logiche economiche della grande produzione di beni materiali e dei mercati, il bene salute (e a maggior ragione il bene salute mentale, in quanto diritto inalienabile e universale di tutti i cittadini della Repubblica) deve essere garantito, tutelato e promosso con equità e con la ricerca della massima efficacia. E allora nella polarità efficacia-efficienza diviene centrale l’efficacia delle cure e l’efficienza e la buona distribuzione delle risorse (operazione che naturalmente comprende anche il “risparmio”) che non possono essere regolate dalle logiche “aziendali”. Esse debbono trovare fondamento nei princìpi culturali ed etici dell’economia della solidarietà e della sussidiarietà sociale che non abbiano nel profitto l’elemento determinante e dinamizzante.
La necessità di taglio delle risorse in parte è certamente positiva nella sua versione di riduzione degli sprechi, ma dall’altra appare come il portato di un ragionamento liberista radicale, che non può coniugarsi con la logica della cura istituzionale in quanto bene pubblico.
Come in un intreccio perverso, il liberismo ben si incontra con il sistema rigido di valutazione standardizzata (anche la diagnosi psichiatrica, come dicevamo in introduzione, è ormai più un esito di applicazione di protocolli che un esame clinico della storia del singolo soggetto sofferente). A sua volta, la valutazione dei trattamenti apre spesso la strada all’imposizione di un modello di trattamento unico, omologato e omologante, sostenuto da analisi di EBM – Evidence Based Medicine – (si legga la letteratura critica del modello EBM, non solo in ambito psichiatrico) (3), che chiude il cerchio della razionalizzazione, al cui cuore opera un elemento filosofico regressivo e opaco, che considera l’essere umano come coacervo di abilità minime, di processi neurologici, dentro un essenzialismo e un determinismo ormai superati in tutte le discipline e le scienze, persino in quelle definite dure.
Nello sviluppare queste note, abbiamo dichiarato in introduzione che il nostro vertice di osservazione è la Comunità Terapeutica ma, avendo uno di noi il ruolo di direzione di tutto il sistema complesso di Servizi per la salute mentale di una vasta area geografica, possiamo affermare che l’esempio-Comunità sia naturalmente esportabile a tutto lo stesso sistema di cure (CSM, Centro Diurno, Centro Socio-lavorativo, organizzazione delle attività cliniche in generale, progetti sugli autori di reato, sugli immigrati, assistenza nelle carceri, interventi in interazione con il Tribunale per i minorenni e per i programmi socio-sanitari con gli Enti locali). Una Comunità Terapeutica incarna un micro-cosmo ideale nel quale perseguire e applicare rispettosi criteri di qualità della vita. Poi, auspicabilmente, attraverso un virtuoso movimento centrifugo, la spirale si allargherà a comprendere sistemi sempre più articolati, extra-moenia.
Orbene, iniziamo affermando che la valutazione di un sistema complesso, come quello di una Comunità Terapeutica, riflette con estrema chiarezza tutte le difficoltà che nascono dall’impossibilità di muoversi secondo un modello univoco della mente. Infatti osservare e valutare relazioni tra soggetto, nucleo familiare, gruppo di operatori curanti, in termini di cambiamento, miglioramento e “guarigione” (o, come si usa dire oggi, di “recovery”) (4), è un processo estremamente articolato. Anche la stessa affermazione che combinare terapie psichiatriche, somatiche e sociali determini ricadute di per sé positive, è aleatoria, superficiale e pone il serio problema di cosa incida sui processi di valutazione e quindi sulle intersezioni tra questi e un discorso sull’economia.
Ci sembrano illuminanti le questioni poste da Benedetto Saraceno, in passato interlocutore-supervisore delle nostre Comunità e per numerosi anni direttore del Dipartimento di salute mentale e abuso di sostanze dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra.
 
Dobbiamo domandarci cosa ci accingiamo a stimare per definire più concretamente il progetto di valutazione di uno specifico trattamento oppure di un Servizio oppure di un programma […]. La valutazione valuta una buona o cattiva qualità, ma di quale qualità stiamo parlando? Vi potrebbe essere un programma di assistenza per la salute mentale di elevata qualità in quanto ai principi tecnici cui si ispira, alla capacità degli operatori chiamati a realizzarlo , ma organizzato in modo tale da essere scarsamente accessibile e fruibile dalla popolazione servita. Così come potrebbe avvenire esattamente il contrario: ad un soddisfacente grado di accessibilità potrebbero però corrispondere prestazioni tecniche modestissime o inadeguate. Ma ancora: pur essendo un programma adeguatamente accessibile e conforme alle conoscenze tecniche, potrebbe comportare costi insostenibili per la comunità o le autorità sanitarie locali. Dunque, come si vede, bisogna considerare differenti dimensioni della valutazione ovvero differenti “qualità” che possono venire valutate […] (5).
 
Certamente la Comunità Terapeutica, nel suo intento di cura, è caratterizzata da numerosi fattori terapeutici specifici, cui non si deve derogare: il grande alveo del progetto individualizzato, le attività espressive, i programmi di psico-educazione, le psicoterapie individuali e di gruppo, il confronto democratico tra utenti e sistema curante, fino alle attività condivise e consapevoli della vita quotidiana. Ma affinché vi sia quel transito dalla routinaria erogazione di semplici trattamenti (6) a processi virtuosi in continua evoluzione (la Therapeia trasformativa) (7), riteniamo che il comune denominatore che sottende a tutte le attività e che diventa l’elemento qualitativo dirimente e identificante sia l’atmosfera, una sorta di metronomo, un tono di fondo che accompagna ogni momento della vita nella/della Comunità, che rende la permanenza nella casa un percorso, seppur momentaneo e pieno di incognite, sperimentato in serenità/felicità. Essa è caratterizzata da elementi dotati di una validità ritenuta troppo spesso scarsamente scientifica: caratteristiche familiari degli ambienti, non medicalizzazione degli spazi, qualità delle relazioni tra operatori e ospiti. Addirittura, forzando il “reggere in comune” di Binswanger (8), riteniamo di proporre una convivenza secondo il principio del “godere in comune”.
 
Valutazione, fattori a-specifici, ideologia e logiche di mercato
L’atmosfera del luogo di cura è parte della riflessione intorno ai fattori terapeutici a-specifici. Negli ultimi anni si discute molto di un loro riconoscimento, di una formalizzazione e valutazione, in maniera da poterne governare le variabili e favorire efficaci processi di presa in carico e cura. È evidente, comunque, quanto questi fattori continuino a sfuggire alla presa del Simbolico, della teoria, mostrando la loro efficacia proprio nella misura in cui vengono declinati in maniera particolare da ciascuna équipe e da ciascun individuo che prende parte alla vita comunitaria. Potremmo quasi dire che la potenza di tali fattori risieda proprio in quella resistenza contro ogni tentativo di strutturazione.
D’altra parte, fattori non misurabili male si accordano con le esigenze di calcolo del discorso economico: ciò che non si misura è difficilmente quantificabile, e di conseguenza non può entrare in una contabilità. Appare dunque più chiaro il motivo per cui i programmi di trattamento terapeutico istituzionale promuovano sempre più modalità iper-formalizzate di cura replicabili, cancellando invece la riflessione e l’intervento su quei fattori dell’ambiente terapeutico (quelli a-specifici, appunto) che sono a monte di fenomeni come il transfert, il co-transfert, l’identificazione e che offrono la sponda per una concreta e reale modifica di un assetto psicopatologico.
Proponendo una riflessione sulla relazione tra qualità del clima terapeutico, valutazione e esigenze contabili, non intendiamo idealizzare né ipostatizzare, ma proporre l’allargamento della base della piramide dello star bene, tenendo sempre a mente i pazienti e i programmi che costruiamo o intenderemmo costruire con/per loro. Anche perché:
 
La disabitudine a documentare la felicità implica la progressiva perdita di acuità e finezza degli strumenti per documentarla. Non documentarla implica dichiararla inesistente e impossibile. Dichiararne la impossibilità significa consegnare la nozione di felicità alle agenzie di turismo o ai centri di benessere fisico. Il ritegno a riflettere e discutere se da un lato riflette un pessimismo legittimato dalla realtà dall’altro occulta, indebolisce e annulla la legittimità della speranza o della utopia (equivalente laico della virtù teologale) (9).
 
In definitiva: cosa sia la felicità e da quale tipo di ricchezza essa dipenda è l’interrogativo di fondo cui la riflessione di Saraceno cerca di dare una concreta risposta. Interrogativo che si fa sempre più urgente e necessario e rimanda a un’etica delle relazioni, dell’economia, dell’approccio alle differenze individuali e culturali e che non può non rappresentare il milieu nel quale dobbiamo co-progettare con pazienti, familiari, istituzioni, associazioni.
Il tema dei fattori a-specifici apre poi al più vasto interrogativo di fondo: quale rapporto esiste tra il valutatore e l’oggetto della valutazione? Da questo punto di vista, la psichiatria e le scienze psicologiche in genere sono contigue alla meccanica quantistica, nel senso che il ricercatore/valutatore si forma mentre valuta e quindi è influenzato dall’oggetto della ricerca/valutazione; e tale oggetto si modifica in base alle qualità umane, culturali, affettive di colui che si propone come ricercatore/valutatore. Sembra paradossale ma da una parte le scienze psicologiche, valutando, sembrerebbero porre a distanza l’oggetto (e ciò fa perdere la maggior parte delle qualità dell’oggetto stesso), dall’altra possono valutare solo facendosi esse stesse modificare dall’oggetto che intenderebbero valutare. Questa ricerca di informazioni di fatto modifica l’oggetto della valutazione e lo stesso ricercatore/valutatore. Se ne deduce l’equivoco, che consiste sia nell’attribuzione di significato parziale a un oggetto parziale, sia a una non corretta interpretazione del risultato, se esso non è considerato come un microspaccato temporale, che comunque rimane parziale nella propria estensione relazionale.
Inoltre, parlando di valutazione, non facciamo riferimento a una categoria, a un ambito, a un insieme di prassi e teorie assolutamente neutrali; al contrario, si tratta di un effetto ideologico che tiene al suo interno tutte queste istanze, sulle quali avviene un intervento molto particolare.
L’operazione ideologica è quella che – con un movimento paradossale –  riesce a celare il contenuto ideologico del proprio oggetto, in questo caso della valutazione.
A tal proposito, sembra interessante citare il filosofo sloveno Ẑiẑek, il quale descrive bene l’universo post-ideologico all’interno del quale prospera la prospettiva della fine dell’ideologia, in quanto fondamento dell’atteggiamento veramente ideologico:
 
Uno dei luoghi comuni dell’atteggiamento “postideologico” contemporaneo è che oggi abbiamo più o meno superato le finzioni politiche (di lotta di classe ecc.) che ci dividevano e abbiamo raggiunto la maturità politica, che ci permette di concentrarci sui problemi reali (ecologia, crescita economica …) alleggeriti dalla loro zavorra ideologica – ma è come se oggi, quando l’atteggiamento dominante indica il terreno della lotta come quello del Reale (“problemi reali” contro “chimere ideologiche”), la stessa politica forclusa, per così dire, ritornasse nel Reale – sotto forma di razzismo, che basa le differenze politiche nel Reale (biologico o sociale) della razza (10).
 
Insomma, come a dire che caduto lo schermo fantasmatico e l’ancoraggio simbolico, ogni istanza nella realtà rischia di trasformarsi in eccesso, rigurgito non elaborato, dimensione naturalizzata e non intaccata dal linguaggio. È quanto accade in politica e, mutatis mutandis, nel campo da noi analizzato. Per riprendere le stesse pagine del filosofo sloveno:
 
[…] nel momento in cui la funzione della macchia oscura che tiene aperto lo spazio per qualcosa per cui non c’è posto nella nostra realtà viene sospesa, noi perdiamo il nostro stesso “senso della realtà” (11).
 
In definitiva, il tentativo di stabilire una correlazione immediata tra realtà esperita e oggettività è fallimentare quando si cerca di creare un universo iper-formalizzato in cui non esista un “punto cieco”, che è il punto dove la castrazione è coperta dallo schermo fantasmatico. In assenza di questo, evidentemente non sussiste alcuna realtà, se non quella astratta che certi sistemi di valutazione vorrebbero comporre sulla carta e misurare in decimi e dozzine.
Per dirla meglio: l’esigenza a monte di ogni sistema di valutazione è quella di confermare se stesso in quanto dispositivo inaggirabile, assolutamente necessario e – in quanto tale – neutrale, poiché si avvale del discorso scientifico, delle validazioni della comunità scientifica (altro grande mostro ideologico: cos’è la comunità scientifica? Chi si assume il diritto di nominarne i componenti? Chi afferma che una teoria è migliore di un’altra? Chi stabilisce che un intervento è più efficace?). Un sistema valutativo deve dunque celare la sua portata ideologica; un esempio che ci riguarda da vicino in quanto operatori della salute mentale è quello dei percorsi di cura e riabilitazione. I livelli di funzionamento sociale e lavorativo sono solo alcuni degli indicatori necessari per una valutazione di una terapia di Comunità, ma l’appiattimento quasi esclusivo su tali dimensioni, a cui si deve aggiungere il mantra della “consapevolezza di malattia”, dell’assunzione consapevole del farmaco, dicono eloquentemente che al di sotto dei criteri di valutazione e delle tecniche di intervento esiste una ben precisa idea del Soggetto, normalizzato dalle istanze del controllo e frantumato dalle esigenze di misurazione della cosiddetta scienza.
Ebbene, così l’ideologia agisce celando quel fondamento ideologico e la concezione dell’essere umano che lo accompagna; le pratiche che emergono, a quel punto, risulteranno come naturalizzate, logicamente incontrovertibili, universalmente accettate. Allora su questo può fondarsi e partire il meccanismo stritolante dell’economia secondo i (soli) criteri della standardizzazione degli interventi e dell’obiettivo non-contrattabile della riduzione della spesa.
A quanto descritto fa da contrappeso un’ulteriore istanza strutturale, che riguarda il rapporto tra forma e contenuto: la valutazione e l’intervento standardizzati prevedono la presenza di esecutori, di applicatori/replicatori seriali di protocolli (12). Ad esempio, le ultime evoluzioni delle teorie cognitiviste in ambito psicologico si sforzano di far rientrare nel proprio campo le categorie di emozioni e di inconscio (ovviamente, pervertendo potentemente quest’ultima!) come a mitigare la tentazione razionalistica dei primi tentativi di quel movimento, che erano tutti tesi a stabilire l’assoluto primato dell’uomo-calcolatore. Anche questo pare essere un tentativo di tenere in piedi una soluzione di compromesso, che continua a supportare modalità terapeutiche improntate al credo della evidenza scientifica (in un momento in cui – come detto – molte delle scienze “dure” stanno aprendo a una sana autocritica). I protocolli di valutazione e intervento più utilizzati nel nostro settore sono contenitori vuoti, mastodontici modelli formali, semplificazioni che non hanno alcun contenuto; forme vuote, come vuoto è l’imperativo morale kantiano, che nulla afferma circa i valori etici, fermandosi alla sola costruzione di una impalcatura eretta sull’ingiunzione ad agire “eticamente”.
È evidente quanto poco gradito sia l’intervento soggettivo in un sistema di valutazione e nelle pratiche di terapia-riabilitazione istituzionale, perché il sistema si fonda sulla propria assenza di contenuti e sulla potenza assoluta di una forma che esaurisce la dialettica e appiattisce l’individuo sulla sommatoria delle proprie funzioni e relativi deficit. Chiunque, ben addestrato, potrebbe applicare protocolli; la cifra particolare che il curante introduce nel processo di cura sembra così scomparire dietro il dispositivo tecnico di un protocollo che reifica la figura stessa del curante, divenuto mero strumento, oggetto della tecnica, infinitamente sostituibile. Al contrario, è sempre più chiaro quanto il fattore individuale sia determinante nel sancire una differenza, nel definire un ritmo – assolutamente essenziale nel trattamento della psicosi – e nel fornire occasione di “iniezioni di transfert” rivitalizzanti.
Tornando allo “spettro” delle ingiunzioni economico-economistiche, ciò che ipotizziamo è che esista una diretta connivenza tra valutazione, taglio delle risorse o loro “razionalizzazione” ed espulsione del Soggetto, in nome di una presunta oggettività della valutazione stessa: il denominatore comune, però, non è quello dell’avanzamento della scienza o del risparmio delle risorse, ma piuttosto quello dell’ideologia. In quanto fatte di discorso, e non dati certi e veri in sé e per sé, le ragioni della valutazione sono opinioni, che si muovono dentro il contesto di una lotta tra opinioni: ad esempio, se ieri la psicoanalisi faceva la parte del leone nel dibattito sulla cura e sui suoi fondamenti clinici e filosofici, oggi è il tempo delle terapie cognitivo-comportamentali o, per essere più precisi, della teoria della “fine delle distinzioni tra approcci terapeutici differenti”. Inutile dire quanto l’eco della “fine della storia” e la sua inesattezza risuoni anche nel rimando a una presunta fine delle differenze teoriche e quanto peregrina appaia a chi scrive la commistione democraticissima tra approcci che vedono al centro idee dell’essere umano spesso inconciliabili.
Potremmo quasi dire che le lotte per un sistema di cura psichiatrico più aperto, nate più di quarant’anni fa, continuano (o almeno dovrebbero) nel movimento di contestazione dello stato attuale, in cui imperversa un quadro simile a quello appena descritto; una situazione in cui si è pronti – ovviamente – a riconoscere l’applicazione dei diritti fondamentali alla vita dei pazienti e dei familiari, il loro coinvolgimento nelle decisioni tecniche, senza però modificare di una virgola l’assetto di potere, che è quello fornito da una scienza agli operatori sul campo. Poiché riteniamo palese che la valutazione, la statistica, la psicometria ratificano una organizzazione del campo sociale in cui l’essere umano rischia di divenire l’accozzaglia di singole categorie di funzionamento (sociale, lavorativo, “etico”), involucro abitato dai suoi collegamenti sinaptici, mero numero e campo di applicabilità dei diritti umani… o poco più.
Il Soggetto, sottoposto al peso della valutazione, dell’intervento terapeutico standardizzato, infilato di forza nella centripeta statistica, diventa oggetto, almeno quanto lo era uno schizofrenico all’interno dei peggiori reparti dei peggiori manicomi. Non possiamo scotomizzare la perversa raffinatezza di una operazione del genere…
D’altra parte, se il Soggetto diviene Oggetto, esso è più prossimo alla contabilità, più enumerabile, meno restìo a sottostare alle leggi della ragioneria. Peccato che anche in ambito economico la velleità di un disegno riduzionista è stata smontata dalla scoperta del raddoppiamento della natura dell’oggetto nel suo valore computato in ore di lavoro e nel suo essere effetto della contraddizione sociale fondamentale: insomma, anche lì ciò che si osserva non risolve mai il campo di ciò che effettivamente si vede! (13).
Il discorso economico e quello della valutazione/misurazione si intersecano sempre più spesso, l’uno a supporto dell’altro; il primo giustifica le procedure di riduzione che il secondo certifica definitivamente attraverso l’approvazione della cosiddetta comunità scientifica. La valutazione incrocia, dunque, anche la strada della cura; è all’altezza di questo incontro che bisogna affilare le armi della critica, per sondare quali rischi e quali pregiudizi possono nascere in un settore in cui le risorse, economiche e organizzative, hanno e devono avere come finalità sempre il rapporto terapeutico con il paziente.
È chiaro quanto la valutazione debba il proprio successo alla possibilità di trattare l’angoscia del terapeuta, del curante, di chi si occupa di aiuto e cura: l’idea di una valutazione infatti attiene al campo della misurazione, fa tutt’uno con l’empirismo della presunta oggettività, dell’osservabile in quanto colonizzabile dallo sguardo, come esercizio di categorizzazione certa.
Un sistema di valutazione chiuso, una contabilità definitiva, sono possibili solo partendo dal presupposto che l’oggetto è fondato ontologicamente in sé e per sé, trasparente, naturalizzato e, di conseguenza, completamente sottoposto a misurazione. È però una supposizione solo teorica quella che definisce l’oggetto di indagine in quanto compiutamente colonizzabile dallo strumento della valutazione: l’umano è tale perché esiste un resto che sfugge a ogni procedura di assimilazione, controllo o misurazione, e che ne qualifica insieme l’unicità e l’aspirazione verso l’universalità garantita dall’appartenenza al genere umano in quanto gruppo differente dalla somma degli esseri biologicamente definiti che lo compongono.
 
Di seguito, presentiamo una breve discussione relativa ad alcuni indicatori di esito dei trattamenti residenziali, attraverso i quali intendiamo dimostrare l’estrema elasticità di tali indicatori e le possibili interpretazioni dei dati, che lungi dal rappresentare elementi di appoggio o evidenze oggettive, definiscono solo una delle possibili lenti attraverso cui leggere i percorsi di cura (14).
 
Il drop-out
Si tratta di un indicatore che dovrebbe quantificare e valutare il numero di “fallimenti “ di un dato percorso terapeutico, gli abbandoni non previsti, i progetti non condotti a termine secondo le iniziali aspettative dei curanti. Certamente è un indicatore importante, che dà il senso di un mancato aggancio tra il desiderio del curante e la domanda del paziente.
Al di là della statistica, i dati che vanno emergendo da una ricerca (15) che stiamo portando avanti permettono di concentrarsi sulla centralità del singolo caso: ad esempio, uno dei nostri drop-out racconta la storia di M., che decide di abbandonare la struttura, contrattandone i termini, per tentare un percorso di autonomia in un’altra regione italiana, dopo un altro tentativo simile che era risultato fallimentare in passato. Due considerazioni: la prima riguarda quanto sappiamo oggi del destino di questo paziente, che pare essersi integrato sufficientemente bene nel tessuto sociale che lo ha accolto, e la seconda, più importante, circa la necessaria apertura che le nostre Comunità dovrebbero avere per traiettorie di vita non sempre lineari o aderenti a standard comuni e programmazione rigida dei tempi di permanenza. L’istituzione di cura psichiatrica deve potersi pensare come un confine mobile, che viene attraversato in maniera sempre diversa, anche se si tratta dello stesso soggetto che lo varca, e deve declinare la propria funzione curante proprio dentro una costruzione dinamica della propria identità, oltre che di quella del paziente. Accettare la chiusura di un progetto terapeutico sancita dalla scelta del diretto interessato, dunque, non significa solo lavorare sull’indispensabile assetto democratico della cura, ma anche e soprattutto entrare in contatto con la castrazione, con la consapevolezza dei limiti intrinseci a ogni tentativo terapeutico.
Un altro esempio riguarda D., dimessa dopo una storia di permanenza estremamente complessa e conflittuale presso la Comunità. Oggi, con la decisione di restare a vivere in paese, di fatto riconosce il tessuto sociale come un’estensione della stessa Comunità e quindi l’unico capace di accoglierla. La donna è una presenza difficile da etichettare per noi che abitiamo la Comunità stessa. D. si ferma sulla soglia, avendo continuato a frequentare un ospite residente in struttura, talvolta dando l’impressione di cercare un nuovo ingresso, una ulteriore possibilità di sostare con noi. Non si tratta solo di affettività o empatia, ma è occasione di una riflessione psicoanalitica che ha a che vedere con gli spazi fisici e mentali occupabili dalla paziente che evidentemente non era riuscita a elaborare una domanda di aiuto e cura ma che, una volta fuori, e grazie alla mediazione di un altro utente, mantiene un contatto con una realtà strutturata, sfiorando la disintegrazione, ma mantenendo un piede in una dimensione di esser-ci. È difficile esprimere quindi come un drop-out, considerato quale dato statistico d’insuccesso, possa conservare una implicita valenza terapeutica. D. non ha riconosciuto l’istituzione, rifiutando una prassi di tipo tecnico, ma tramite l’altro utente continua un rapporto implicito con essa e il contatto (quello oggi possibile) con una sola professionista del CSM, psicologa. Insomma è un po’ dentro e un po’ fuori, chiede di essere “curata” senza essere presa in carico, consente a un ospite della Comunità di fare da caregiver (ancora una volta quello oggi possibile); in definitiva è un atipico caso di drop-out che rimane sulla soglia.
Due casi di drop-out, che attestano un funzionamento di équipe da analizzare, ma anche scelte soggettive e dinamiche relazionali attivate dai soggetti stessi: scelte che faticano a entrare in una scheda di valutazione o in una statistica epidemiologica. Forse è superfluo rimarcare che situazioni come queste descritte sono oggetto di supervisioni di marca analitica di cui le nostre Comunità si dotano da oltre trent’anni.
 
Il tempo della cura
Questo è un ambito cruciale, in tema di rapporti tra economia e progettualità sul Soggetto. Cercheremo, per questioni di spazio, di proporre due enunciati-stimoli: la durata dei percorsi residenziali e la qualità dei percorsi pre-ingresso in Comunità.
 
a) Le medie di permanenza dei pazienti in struttura rappresentano una delle linee guida che gli amministratori dettano nella organizzazione del settore della riabilitazione psico-sociale. I nostri dati circa i progetti terapeutici realizzati dal 01/01/2011 al 31/07/2017 dicono che la durata media di un percorso è di 18,26 mesi (quindi pienamente aderente – anzi ancor più virtuoso – rispetto a quanto dettato dalle più recenti normative) (16).
Tali dati asseriscono certamente un’attenzione alle linee guida nazionali, ma ciò che ci interessa davvero non è attestarci su un funzionamento ideale, bensì coniugare i tempi della tecnica con quelli del Soggetto. Riteniamo sano porre una conclusione a un percorso, strutturandone tappe e obiettivi: sappiamo bene che tutto ciò che non ha un termine rischia di essere regressivo e patogeno. D’altra parte, non può essere un protocollo a descrivere le linee di progressione e di arresto di una esistenza, delle dinamiche inconsce e relazionali di un individuo e delle sue relazioni in itinere e future.
b) Le strutture terapeutiche lavorano seguendo standard attraverso cui selezionare una popolazione di pazienti per i quali è possibile predisporre trattamenti che possano condurre a risultati positivi in tempi relativamente brevi; ciò dà vita a selezioni preliminari dei pazienti secondo criteri diagnostici e anagrafici. Riteniamo opportuno un lavoro di tal genere, poiché mosso da esigenze di efficacia e buon utilizzo delle risorse. Il lato oscuro della questione risiede però nella segmentazione cui va incontro l’intera popolazione di pazienti psichiatrici (17): esiste infatti una larga parte di loro che, non rientrando in quelle gerarchie, diviene facilmente un problema sociale per il territorio di appartenenza, o resta ricoverato per decenni in strutture in cui è carente ogni possibile attivazione di un pensiero terapeutico intorno al paziente in questione, non già in vista di una eventuale dimissione, ma anche per costruire un senso alla sua permanenza prolungata. Prendono piede così strutture non ben classificate, contenitori eterogenei di malessere che, pur essendo gli unici approdi per il malessere psichico, talvolta determinano situazioni di regressione a causa proprio di quella totale mancanza di un pensiero psico-dinamico intorno al singolo. Insistiamo dunque sul fatto che, insieme alla attenzione per gli indicatori di permanenza e dimissioni dalle strutture, si debba incentivare ogni occasione di costruzione di un pensiero terapeutico di équipe, che possa mitigare la sequela di numeri attraverso una attenzione ai casi specifici, alla articolazione della presenza del paziente e alla co-costruzione di una dimensione temporale che leghi il presente al passato del singolo e alle possibilità di sviluppo future.
 
Revolving door
Altro tema che a seconda dell’ottica che si vuole assumere può condurre verso frettolose valutazioni (giudizi) di inefficacia dei trattamenti comunitari o, dall’altro versante, di adesione coerente verso sviluppi diacronici di Soggetti per i quali quei “reingressi” rappresentano la propria peculiare e assolutamente efficace modalità di vivere il tempo, le pause, le “prove”, procedendo per tentativi dettati da criteri interni kairologici e non cronologico-economici.
Si tratta del numero di pazienti che – una volta terminato il percorso terapeutico – rientrano presso la stessa struttura. Nel periodo considerato (circa 6 anni) sono entrati in Comunità 39 utenti. In 4 casi l’ingresso si riferisce a utenti che nella forbice temporale analizzata avevano già effettuato un precedente percorso in Comunità.
Ciò detto, anche in questo caso dobbiamo squarciare il velo del numero, della percentuale, azzardando non solo una interpretazione, ma anche un progetto e una proiezione “politico-economica” del senso di questo indicatore e del suo valore: cosa significa che in una struttura come la nostra ci sia una percentuale di rientri importante? Quale funzione ha e quale torsione applicare al sistema terapeutico affinché un assetto del genere veicoli un’ulteriore funzione di cura e limiti il rischio di coartare il paziente, in un giro infinito di passaggi tra strutture ospedaliere ed extra-ospedaliere?
Già discutendo del tempo della cura, abbiamo sottolineato quanto esista una difficoltà nel designare un luogo di cura per quei pazienti gravi che sono esclusi dai dispositivi tecnici di selezione; si tratta di una popolazione che rischia di essere ricoverata presso strutture in cui, pur essendo attivo un impianto di cure assistenziali di buon livello e un’etica della relazione, è rimosso il pensiero terapeutico intorno al senso della permanenza e del percorso istituzionale. Allo stesso modo, seppur l’indicatore dei rientri in struttura rappresenti certamente un importante elemento di riflessione intorno ai fallimenti dei percorsi di riabilitazione somministrati, dobbiamo laicamente accettare che per quella tipologia di pazienti (ma non solo), non possiamo ragionare in termini di guarigione. Ciò non deve essere letto in chiave pessimistica, ma come incentivo a pensare le strutture di questo tipo come luoghi dove il paziente può in-scriversi, ricontrattare temporaneamente una identità, giocando con le identificazioni possibili e appropriandosi di un brandello di sé, sempre in bilico, sembiante utile a entrare nel campo delle relazioni sociali e della quotidianità condivisa.
È il caso di G., che dopo 3 ingressi presso la nostra Comunità, sembra aver trovato un equilibrio strano, una alternanza tra interno ed esterno che ricorda il gioco freudiano del rocchetto, nonché l’instaurarsi di una bozza di principio simbolico, assente nei momenti trascorsi nella casa materna. Quell’alternanza, instauratrice di un principio di piacere sui generis, appare come una fonte di pacificazione dall’angoscia e, clinicamente, rappresenta per noi un dato centrale nella considerazione del progetto costruito con e per la paziente. È per noi chiaro, poi, quanto la realtà esterna risulti per lei eccessivamente invasiva, tanto da non poterle garantire la costituzione di un sistema di identificazioni e quella particolare scansione sincopata tra il dentro e il fuori. Bisogna inoltre considerare i rischi di natura assistenziale insiti in un ragionamento come il nostro: è facile scivolare su una rappresentazione dell’interno in quanto luogo sicuro, utero accudente schierato contro il male che proviene dall’Altro; più modestamente, vorremmo attestarci su un funzionamento di sostegno al ritmo impostoci da G., in attesa che qualcosa possa modificarsi dentro un sistema  che appare tutto teso verso una eterna ripetizione. La stessa paziente, giunta presso la nostra struttura a causa di un dispositivo di sicurezza impostole dal tribunale, decide poi di vivere ancora per diversi mesi in Comunità al termine del periodo imposto dalle misure di sicurezza del giudice; un caso che testimonia della qualità del transfert instaurato nei confronti dell’istituzione di cura, e della relazione attraverso cui si è riuscita a disinnescare la minaccia che G. percepisce provenire dall’Altro in ogni sua forma.
 
Conclusioni
Per concludere, diamo ancora la parola a Benedetto Saraceno, a proposito di efficacia nella pratica, tema che abbiamo implicitamente trattato in questo scritto (oggetto, tra l’altro, di ricerche comuni, circa trent’anni fa, tra lo stesso Saraceno e uno di noi) (18).
 
[…] un servizio così come un programma potrebbero dimostrare adeguate qualità sociali, economiche e tecniche, ma praticamente fornire scadenti risultati di salute quando applicato in condizioni di routine. Dobbiamo cioè distinguere la nozione di efficacia da quella di efficacia nella pratica. Infatti, se la efficacia rappresenta ciò che le conoscenze offrono in condizioni ideali in termini di risultati (per esempio un clinical trial ci dice la efficacia di un certo farmaco), la efficacia nella pratica rappresenta ciò che in condizioni concrete di routine offrono in termini di risultati. Lo scarto tra efficacia ed efficienza nella pratica è in sostanza lo scopo della valutazione della qualità dell’assistenza sanitaria […]. È chiaro come nel campo della salute mentale sia oltremodo difficoltoso avere dei criteri ben chiari e prestabiliti. L’assistenza per la salute mentale è un continuo di pratiche, discipline, modelli teorici, modelli organizzativi determinati da molti fattori certamente non solo di natura clinica, complessi e da interessi contrastanti. Dunque, allorché si voglia valutare un programma o un servizio saranno necessari alcuni criteri metodologici che permettano per lo meno di avere le idee chiare su cosa si sta facendo e quali sono i rischi della procedura adottata (19).
 
D’altra parte, da un vertice analitico, non possiamo che notare quanto contabilità, valutazione e tecnicismi vari rappresentino – oltre che logiche di funzionamento di un potere finanziario e politico – anche modalità attraverso cui la pulsione fa il suo giro e si appaga; si tratta, in questo caso, di quelle azioni pratiche, di quella serie di oggetti inerti, che la vita istituzionale produce nel miraggio di una risoluzione definitiva delle difficili contraddizioni che possono animare il lavoro di cura.
La quantificazione radicale, la iper-produzione di diagnosi in chiave clinico-botanica (ci si passi il sarcasmo: in opposizione a una “ecologica”) sono alcuni dei risultati di quel processo ingannevole, il quale si presta perfettamente a essere il supporto materiale dei fantasmi di razionalizzazione, controllo e valutazione totale che si soddisfano girando intorno a oggetti vuoti, quali appunto le scale di valutazione o le griglie di spesa o le teorie biologiste della malattia mentale. Questi oggetti – vuoti perché si possono riempire a piacimento di ogni nuova scoperta, intuizione, teoria – mancano ovviamente il bersaglio, ma appagano l’inconscio di chi li produce e promuove, proprio nella misura in cui il pieno risultato è un miraggio (20): come insegna Freud, la pulsione gode in questo modo, girando intorno a oggetti intercambiabili, mancandoli e appagandosi di un nuovo giro. Il nostro è il tempo degli oggetti-feticcio: “esito”, “risparmio”, “valutazione”; ci sembra che gli esperti, gli specialisti delle nuove terapie godano proprio attraverso la formalizzazione ossessiva e il rilancio forsennato di schede, strumenti e protocolli, che dovrebbero attestarne agli occhi dell’Altro la definitiva certificazione oggettiva e scientifica (21). Sappiamo invece quanto il lavoro di cura riguardi una nuova implicazione del Soggetto dentro un orizzonte inedito, una sorte di riscrittura a partire dalla possibilità della parola unica di cui egli è portatore.
 
NOTE
1) Potremmo leggere psicoanaliticamente la proposta formalista come il tentativo di “reprimere un qualche contenuto traumatico”, con l’esito che «l’ultima traccia di questo contenuto è la fissità della forma stessa», S. Ẑiẑek, Che cos’è l’immaginario, Il Saggiatore, Milano, 2016, p. 166
Nel caso da noi affrontato, il “contenuto traumatico” non sarebbe altro che il singolo caso clinico, la sua non riducibilità a mero dato statistico, e la sua rimozione condurrebbe esattamente alla “fissità della forma”, dei protocolli e del transfert, ridotto a semplice relazione tra individui.
2) Viaggio nel meridione. Immagini di ordinarie utopie. Fotografie di Arnaldo Di Vittorio. Edizioni Il Gabbiano, 2000; B. Saraceno (1995), La fine dell’intrattenimento, ETAS, 2000.
3) S. Vasta, L. Pani, I limiti della Medicina basata sulle evidenze e gli studi clinici randomizzati, www.quotidianosanità.it.
G. Federspil, R. Vettor,  La “evidence-based medicine”: una riflessione critica sul concetto di evidenza in medicina, http://www.giornaledicardiologia.it/allegati/00783_2001_06/fulltext/06-01_04%20614-623.pdf;
M. Timio, D. Antiseri, La medicina basata sulle evidenze: realtà ed illusioni. Estensione delle riflessioni epistemologiche, http://www.giornaledicardiologia.it/allegati/00792_2000_03/fulltext/03-00_17%20411-414.pdf;
J.-C- Milner, La Politica delle Cose. Breve trattato politico, 1, Edizioni ETS, Pisa, 2016;
per una lettura critica degli EST nell’ambito delle psicoterapie, una riflessione intorno alla validità di altri approcci non inclusi nelle liste degli EST e una conoscenza di metodologie di ricerca differenti da quelle adottate per gli studi EST, si legga, tra gli altri: P. Wachtel, «Beyond “ESTs”: Problematic assumptions in the pursuit of evidence-based practice», L. Psychoanalytic Psychology, vol 27(3), Jul 2010, pp. 251-272; D. Westen, C.M. Novotny, H. Thompson-Brenner, The empirical status of empirically supported psychotherapies: assumptions, findings, and reporting in controlled clinical trials, Psychological Bulletin, 130, pp. 631-663;
P. Migone, «Sono veramente efficaci le psicoterapie evidence-based?», Il Ruolo Terapeutico, 2005, 98, pp. 103-114; The Empirical Status of Empirically Supported Psychotherapies: D. Westen, C. M. Novotny, H. Thompson-Brenner, Assumptions, Findings, and Reporting in Controlled Clinical Trials, Psychological Bulletin 2004, vol. 130, n. 4, pp. 631-663.
4) Si vedano, ad esempio: R. Barone, S. Bruschetta, A. Frasca, Gruppoanalisi e sostegno all’abitare. Domiciliarità e residenzialità nella cura comunitaria della grave patologia mentale, Franco Angeli, Milano, 2014; A. Maone, B. D’Avanzo (a cura di), Recovery. Nuovi paradigmi per la salute mentale, Raffaello Cortina, Milano, 2015.
5) B. Saraceno, «Valutazione dei servizi e dei programmi di salute mentale» in V. Pastore, G. Biondi, M. Formichini (a cura di), Questioni attuali in psichiatria, Del Cerro, Pisa, 1992, p. 111.
6) P.C. Racamier, Lo Psicanalista senza divano, Cortina, Milano, 1982, pp. 32-34.
7) A. Malinconico, Extra-ecclesiam nulla salus, in Rivista di Psicologia Analitica, nuova serie, n. 6, Astrolabio, Roma, 1998; id: «L’Oratore muto e la Comunità: “anche qui dimorano gli dei”», in Rivista di Psicologia Analitica, 57, Ed. Astrolabio, Roma, 1998; id: «Note sulla residenzialità, tra fondamentalismi e fondamento», in Rivista Sperimentale di Freniatria, vol. CXXIX, n. 3, Ed. Franco Angeli, Milano, 2005.
8) L. Binswanger, Daseinanalyse, Psychiatrie, Schizophrenie. Schweiz. Arch. Neurol, Zurigo, 81, 1, 1958.
9) B. Saraceno, Riprendere il cammino verso la felicità, Quaderni di SOUQ, 2012, www.souqonline.it.
10) S. Ẑiẑek, op.cit., p. 272.
11) Ibidem, p. 273.
12) Parte dell’approccio da “mercato all’ingrosso” alle politiche della salute mentale è che gli “EST” sono poco costosi perché “molti di questi interventi possono essere disseminati senza un personale altamente specializzato e costoso”. Riguardo alla terapia cognitivo-comportamentale (cognitive [CBT]), che è l’approccio con cui i sostenitori degli “EST” behavior therapy si identificano in modo forte, affermano, come fosse una virtù, che “la CBT è efficace persino quando somministrata da terapeuti non laureati o educatori con poca o nessuna esperienza nella CBT e solo con un basso livello di training”. P. Wachtel, Beyond “ESTs”: Problematic assumptions in the pursuit of evidence-based practice. L. Psychoanalytic Psychology, vol 27(3), Jul 2010, pp. 251-272.
13) Il concetto di feticismo delle merci rimanda esattamente a questo livello di analisi: l’oggetto non è dato in sé e per sé, ma è il prodotto materiale, il sembiante che cela la dimensione dei rapporti di produzione. Rimuovere quest’ultima significa operare ideologicamente nel senso di un occultamento delle contraddizioni che condizionano quei rapporti di produzione. Si veda K. Marx, Il Capitale. Critica dell’Economia Politica, Newton Compton editori, Roma, 2008.
14) La Comunità “Il Casone” di Casacalenda sta portando avanti in stretta interazione col CSM di Termoli una ricerca sui progetti terapeutici a partire dal 2011 e ipotesi di correlazione con il modello di trattamento di matrice psicodinamica.
15) A. Malinconico, A. Prezioso, M. Vincelli, Percorsi residenziali di pazienti gravi: la retorica della valutazione e la virtuosità del “caso per caso”, Nuova Rassegna di Studi Psichiatrici. Rivista online di psichiatria, Volume 17, 3 Settembre 2018, www.nuovarassegnastudipsichiatrici.it
16) Ad esempio: DCA 68 del 17/11/2015; DCA 4 del 31/1/2017; DCA 17del 28/2/2017 (Regione Molise).
17) Pur rispondendo ad esigenze assolutamente razionali, che hanno a che fare con le reali possibilità terapeutiche di un trattamento e l’impiego fruttuoso delle risorse necessarie, nel senso più virtuoso del termine, l’idea di una valutazione di esiti effettuata su una popolazione di pazienti pre-costituita evoca le analisi e le liste di psicoterapie costruire a partire dai riferimenti EST. Come afferma P. Wachtel a proposito di questi modelli di indagine: «Si ricordino a questo proposito alcuni limiti degli “EST” discussi prima, ad esempio il fatto che molti pazienti sono esclusi perché non hanno una singola e ben definita diagnosi di Asse I, ad esempio: pazienti polisintomatici (la cosiddetta comorbilità); persone le cui difficoltà sono radicate in problemi di personalità tra cui, ma non solo, persone con diagnosi in Asse II; persone che non rientrano in alcuna diagnosi del DSM-III o DSM-IV ma che certamente soffrono e chiedono aiuto; pazienti suicidari o psicotici (esclusi dalla maggior parte degli studi); e infine tutti quelli scartati dalla fonte inviante poiché non rientrano nei criteri di inclusione delle ricerche. Fate il calcolo – si tratta sostanzialmente di sottrazione – e vedrete che un training improntato all’insegnamento degli EST servirà ben poco a venire incontro ai bisogni della comunità»; P. Wachtel, Beyond “ESTs”: Problematic assumptions in the pursuit of evidence-based practice. L. Psychoanalytic Psychology, vol. 27(3), Jul. 2010, pp. 251-272. A proposito degli interventi di Wachtel, e per fugare ogni dubbio circa la posizione particolare da cui enuncia le proprie tesi, P. Migone afferma: «Westen non si pone contro gli EST o contro la psicoterapia basata sulle prove di efficacia, anzi, si muove all’interno della stessa cornice scientifica. Ed è proprio con la rigorosa logica della ricerca empirica che Westen dimostra la fallacia di molte conclusioni a cui il movimento della psicoterapia evidence-based rischia di arrivare. Westen cioè non si pone scioccamente contro l’esigenza di ricerca empirica sull’efficacia della psicoterapia, anzi, ne è uno dei più accesi sostenitori, e muove la sua critica proprio allo scopo di perfezionare questo campo di ricerca, per arrivare ad individuare psicoterapie che siano ancor più efficaci, ‘veramente efficaci’, se così si può dire». P. Migone (2005), op. cit.
18) A. Malinconico, A. Prezioso (a cura di), Comunità Terapeutiche per la salute mentale, Franco Angeli, Milano, 2015.
19) B. Saraceno (1992), op. cit., pp. 113-114.
20) Da ciò si può desumere l’idea di umanità, di soggetto che sottende alle operazioni di una certa psichiatria e psicologia contemporanee: si tratta di un individuo trasparente, ontologicamente fondato su istanze chiare, spesso di natura genetico-biologica, preso dentro una logica di linearità assoluta, che richiama alla mente gli errori di un certo post-freudismo, rintracciabili nell’insistenza maniacale con cui designavano presunte tappe di sviluppo sessuale e una ipotetica genitalità compiuta come fine di tale processo. Chi incontra pazienti quotidianamente, e non necessariamente pazienti psicotici, sa bene quanto siamo lontani da una siffatta ipotesi!
21) Ben conosciamo l’infinito complesso di inferiorità che patiscono molti colleghi nei confronti della medicina generale, e anche di certe discipline che offrono appigli teorici più solidi: non stiamo forse assistendo in questo periodo all’ennesimo matrimonio tra Psichiatria e Legge, intreccio in cui uno dei poli sostiene e si alimenta dell’altro, spesso dando vita a cortocircuiti pericolosi?
 
* Tratto da: “Psiche bene comune; economia e psicologia del profondo”, a cura di Stefano Carrara e Romano Madera, Rivista di psicologia analitica, Nuova serie n. 46 Volume 98/2018.
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