PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
FRANCO BASAGLIA E IL ’68. Un incontro fortunato
30 marzo, 2019 - 02:07
Si è svolto ieri a Genova presso l’aula di S. Salvatore in piazza Sarzano il III incontro del ciclo “1968” organizzato dall’Università della Terza Età (UniTE) e coordinato da Francesco Surdich sul tema “La legge Basaglia, prima e dopo”. A intervenire per primo è stato Emilio Maura, già primario degli SPDC di Sestri e di San Martino e attuale presidente della Società di Letture e Conversazioni Scientifiche, una delle principali istituzioni culturali della città, che ha ripercorso la storia della psichiatria dal grande internamento del XVII secolo alla creazione del manicomio all’inizio del XIX secolo, soffermandosi in particolare sugli esempi genovesi di questi due passaggi, l’apertura dell’Albergo dei Poveri nel 1656 e quella del manicomio a forma di panopticon in via Galata nel 1841. E ha ricordato la propria esperienza di giovane psichiatra al manicomio di Cogoleto, una città dei folli nata con grandi velleità terapeutiche e umanitarie nel 1912, in corrispondenza con la demolizione di via Galata, e arrivato a contenere negli anni ’70 oltre 2.000 internati custoditi in condizioni spaventose e destinati in gran parte alla cronicità. L’Italia è uno strano Paese, ha insistito Maura, che sembra incapace di riformare ed è perciò costretto a procedere per rivoluzioni; senza Franco Basaglia[i] e la sua idea rivoluzionaria di chiudere il manicomio, perciò – è stata la conclusione - non sarebbe stato possibile far niente. E proprio dalla figura di Basaglia ha preso le mosse per il secondo intervento Guido Rodriguez, prima giovane esponente del ’68 genovese nelle file del Manifesto, poi per molti anni docente di neurofisiopatologia all’Università di Genova e attualmente impegnato nell’esperienza dell’Alzheimer Café Creamcafé di piazza Matteotti. Rodriguez ne ha ricordato la figura di studente antifascista, e poi il lavoro a Gorizia efficacemente documentato dal bellissimo documentario I giardini di Abele realizzato in superotto da Sergio Zavoli nel dicembre ‘68 e disponibile in rete. E ha proseguito ricordando ciò che il ’68 ha significato per il mondo dalla contestazione alla guerra del Vietnam negli Stati Uniti che costò quell’anno alla superpotenza 33.000 morti dei 150.000 caduti nel corso di tutta la guerra, la repressione della primavera di Praga da parte del blocco sovietico, la rivoluzione culturale in Cina al motto di “sparare sul quartier generale, la strage di Piazza delle Tre Culture a Città del Messico, il breve ma intenso maggio parigino. Per poi passare al ’68 genovese, con le immagini emozionanti della prima occupazione a medicina nel ’66, i primi contatti tra studenti e operai all’ASGEN di Campi e le lotte per la salute in fabbrica, fino ad arrivare agli anni ’70, forieri di tante riforme destinate a svecchiare la società italiana e renderla un po’ più equa, con le fotografie di Giorgio Bergami - presente in prima fila all’incontro - per il Libro bianco degli Ospedali Psichiatrici genovesi del ’74 e ai seminari per studenti di medicina e di filosofia con Antonio Slavich e Lamberto Cavallin sulle “parole della psichiatria”. La rivoluzione di Basaglia, ha concluso, è stata soprattutto nell’idea che psichiatria e medicina non bastano, da sole, ad affrontare la follia ed è l’intera società a doversene farsene carico. Una posizione che, oggi, occorrerebbe estendere anche al problema dilagante delle demenze nella terza età e al rischio drammatico di istituzionalizzazione che lo accompagna.
Io, che del ’68 non ho vissuto che la lunga scia e l’eco perché quell’anno mi iscrivevo alla prima elementare, sono stato incaricato del terzo intervento, sulla relazione che lega specificamente Basaglia e l’anno ’68, e lo ripropongo qui integralmente.
Sono partito proponendo due parole chiave, fondamentali tanto per Basaglia che per il ’68, che ho preso dal ritornello di una nota canzone di Giorgio Gaber, cantata non per caso la prima volta nel corso di uno spettacolo all’interno dell’Ospedale psichiatrico di Voghera a metà degli anni ’70: libertà e partecipazione. Una libertà che, per Basaglia, è terapeutica, il che non significa soltanto che la libertà è bella, è giusta, ma anche che è, in psichiatria, per lui il presupposto indispensabile della cura. Non è possibile insomma curare la malattia mentale, che Henri Ey definiva una patologia della libertà, se non all’interno di una pedagogia della libertà nella quale l’altro avverta gradatamente di essere libero, e libero anche - e a questo Basaglia tiene particolarmente – di contestare e contrattare la propria cura col medico. Scrive del resto Basaglia nelle conferenze brasiliane che: «quando il malato è internato il medico è in libertà; quando l’internato è in libertà l’internato è il medico». E allude chiaramente con questo, mi pare, alla necessità di un concreto trasferimento di potere dal medico al malato, o meglio ancora della necessità di creare le condizioni perché il malato possa strappare al medico questa libertà, che se rappresenta una concessione, ovviamente, non vale.
Se il 1961 rappresenta l’arrivo di Basaglia a Gorizia e gli svela con la miseria materiale e morale dei malati la necessità della distruzione dell’ospedale psichiatrico per cominciare a poter affrontare la malattia, il 1964 è altrettanto importante perché è l’anno nel quale al I Congresso Internazionale di Psichiatria Sociale di Londra dichiara per la prima volta in pubblico il suo progetto rivoluzionario: la distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione. E’ la prima volta in assoluto che qualcuno esprime quest’idea, che a tutti dovette sembrare una follia. Ma a questo Basaglia stava già lavorando con straordinaria lucidità e ostinazione da tre anni, in uno dei più piccoli e periferici manicomi italiani, attraverso un piano articolato in una serie di passaggi: apertura dei reparti; abbattimento delle reti e delle sbarre; umanizzazione delle relazioni; graduale abolizione dei mezzi di contenzione; assemblee di reparto e generali come cuore pulsante della vita istituzionale; cambio di significato al lavoro dei ricoverati; ripresa dei loro legami con le famiglie e con l’esterno; qualificazione lavoro degli infermieri; introduzione e uso ponderato, sicuro e rispettoso degli psicofarmaci.
Dopo Gorizia le esperienze di lotta all’ospedale psichiatrico dilagano, in parte nascendo autonomamente e in parte germogliando dal trasferimento dei “goriziani”: Perugia, Novara, Reggio Emilia, Colorno, Arezzo, Trieste, Ferrara, Voghera, Nocera Inferiore. E vanno delineandosi quattro principali opzioni strategiche: quella di chi guarda alle esperienze del settore e della psicoterapia istituzionale francesi, come Edoardo Balduzzi a Varese; quella di chi punta a una costruzione dei nuovi servizi territoriale che debba necessariamente attraversare la contestuale distruzione dell’ospedale psichiatrico come Basaglia stesso, Slavich[ii], Pirella; quella di chi ritiene, in dissenso con Basaglia, che sia possibile costruire la rete dei servizi esterni prescindendo dall’ospedale psichiatrico, che dopo esaurirà spontaneamente la sua funzione, e pensiamo a Jervis; quella di chi, come Cotti o Antonucci, contesta l’esistenza stessa della malattia mentale e rappresenta quindi la versione italiana dell’antipsichiatria (Basaglia, infatti, non fu mai antipsichiatra, ma invece uno psichiatra interessato a una trasformazione della psichiatria in senso critico e democratico).
Ma il 1968 fu anche l’anno della Legge voluta dal ministro socialista della sanità Luigi Mariotti, una figura legata da reciproca stima con Basaglia: il ministro infatti aveva scritto l’anno precedente la prefazione al primo libro del gruppo basagliano, Che cos’è la psichiatria[iii], e Basaglia spende parole elogiative per la legge Mariotti in una nota al suo intervento ne Il giardino dei gelsi di Ernesto Venturino. Mariotti paragonò l’ospedale psichiatrico ai lager tedeschi, e in questo giungeva almeno terzo dopo Ugo Cerletti, che lo aveva fatto già negli anni ’60, e Angelo del Boca, che sarebbe poi diventato uno dei principali storici del colonialismo italiano, che così aveva intitolato una sua inchiesta sugli ospedali psichiatrici[iv]. Anche Basaglia ricorre nei suoi scritti a questo paragone, ma lo fa in un senso un po’ diverso, non solo come denuncia; ha dietro la lettura di Primo Levi e Erving Goffman, e vuole dire con questo anche he molti dei meccanismi di relazione istituzionale che si possono osservare nell’ospedale psichiatrico sono state osservate anche nel lager. Comunque, la legge Mariotti amplia la possibilità del ricovero volontario rispetto alla legge del 1904, introduce le figure di psicologi e assistenti sociali negli ospedali psichiatrici, promuove la settorializzazione e umanitarizzazione dell’ospedale psichiatrico fissando anche parametri volti a evitare le grandi concentrazioni, promuove la diffusione dei Centri di Igiene Mentale che in molte esperienze costituiranno il primo embrione di servizi psichiatrici diffusi nel territorio.
Alla rivoluzione basagliana contribuirono in misura importante i fotografi che documentarono gli scandali degli ospedali psichiatrici, e per Genova ricordiamo ancora Giorgio Bergami, i magistrati, i giornalisti, i personaggi dello spettacolo, come Dario Fo e Franca Rame, gli Area, Gino Paoli, Hornette Coleman, Giorgio Gaber, il Teatro Nucleo a Ferrara[v], il Living Theatre a Genova. E quando per un brutto incidente Basaglia e Slavich furono posti sotto inchiesta, arrivò la solidarietà di un’ottantina di intellettuali, tra i quali L’appello di un’ottantina di nomi prestigiosi tra cui Giorgio Bassani, Carlo Bo, Umberto Eco, Dario Fo, Franco Fornari, Natalia Ginzburg, Mario Monicelli, Eugenio Montale, Alberto Moravia, Cesare Musatti, Vittorio Sereni, Mario Soldati, Luigi Squarzina. E non mancò dall’estero la solidarietà di Jean Paul Sartre. In un libro del ’75, Basaglia riesce a portare a ragionare con lui e la moglie di Crimini di pace intellettuali da altre discipline e da altre parti del mondo: Foucault, Castel, Wulff, Chomsky, Laing, Goffman, Szasz.
Basaglia era riuscito insomma a portare la lotta contro l’ospedale psichiatrico fuori dal mondo della psichiatria e a farne un tema ampiamente dibattuto nella cultura e nella società italiane. "Basaglia tra la gente": così allievi, amici, compagni vollero ricordarlo alla sua morte, e proprio questo era stato importante. Che fosse riuscito, ricorrendo anche a potenti metafore di liberazione come Marco Cavallo, a portare la sua lotta tra la gente stabilendo un nesso con quegli anni formidabili e inquieti, comunque aperti. Del resto, la psichiatria non era da sola a muoversi, e in quegli anni la lotta antiistituzionale investiva le scuole differenziali, gli orfanatrofi, gli ospizi per i vecchi, le istituzioni per l’assistenza dei disabili. E poi ancora l’ospedale, la scuola, la fabbrica, persino il carcere e la caserma. L’istituzione negata, il libro-simbolo di Gorizia uscito proprio in quel 1968[vi] fu, come scrive John Foot, «il libro giusto al momento giusto… presente nella libreria di ogni sessantottino degno di questo nome»[vii]. Vendette 12.500 copie solo nel 1968 e raggiunse nel 1972 le 50.000.
Che cosa hanno in comune, dunque, Basaglia e il ’68? Beh innanzitutto alcuni riferimenti teorici, alcuni buoni (o cattivi, a seconda dei punti di vista), maestri: Jean Paul Sartre, Frantz Fanon, Michel Foucault per esempio. E anche, forse, sullo sfondo un po’ Mao per quanto riguarda il rapporto intellettuale/masse (un tema per il quale però il riferimento principale per Basaglia è più Gramsci) e la democrazia assembleare. E poi alcuni temi centrali: enfasi sulla libertà; enfasi sulla giustizia sociale, la soggettivazione degli oppressi, il riscatto dalla miseria; centralità della democrazia assembleare; arte come strumento di comunità e di liberazione; idea di un impegno civile dell’intellettuale; follia come inquietante interrogazione sull’umano, che incuriosì e commosse Basaglia e che affascinò il ’68.
Ci sono alcuni passaggi del film di Gianni Ameglio La meglio gioventù che meglio di ogni discorso mi paiono esprimere il senso della profonda compenetrazione che ebbero la vicenda basagliana, la psichiatria, i suoi dibattiti e la sua rivoluzione nella cultura e nella vita italiana del ’68.
Quello tra Basaglia e il ’68 fu, dunque, senz’altro un incontro fortunato tra un uomo e un anno, una provvidenziale congiunzione astrale, un rapporto fatto di reciproco potenziamento e arricchimento. Basaglia regala al ‘68 l’esperienza di una rivoluzione a portata di mano, una rivoluzione su piccola scala certo, ma una rivoluzione che ha vinto: il manicomio è stato chiuso! Il ‘68 regala a Basaglia anni «formidabili», come li definisce Mario Capanna, un’atmosfera dalla quale anche la lotta al manicomio trova nutrimento, perché non c’è niente che appare invincibile e anche l’impossibile appare possibile…. Anni nei quali, come canta ancora Giorgio Gaber:
«E allora è venuta la voglia di rompere tutto
le nostre famiglie, gli armadi, le chiese, i notai
i banchi di scuola, i parenti, le "centoventotto"
trasformare in coraggio la rabbia che è dentro di noi.
E tutto che saltava in aria
e c'era un senso di vittoria
come se tenesse conto del coraggio
la storia».
E regala, anche, giovani entusiasti che negli anni ’60-070 si recavano – e ancora oggi si recano – da tutta Italia e da varie parti del mondo nei luoghi “basagliani” a portare il loro entusiasmo, la forza del lavoro volontario, la voglia di cambiare concretamente le cose.
E oggi, cosa ci rimane di questo incontro? Beh, ad essere cinici, possiamo pensare che negli anni che vanno dal ’68 al ’78, l’anno della legge 180, abbia avuto luogo in Italia uno “scambio”, nel quale il “potere”, il “sistema”, le forze che tendono a mantenere le relazioni di potere ferme e inamovibili scelgono di sacrificare il manicomio, per salvare la psichiatria e la società italiane dalla radicalità che la critica filosofica e politica di Basaglia porta ai loro fondamenti. Ma, una volta tanto, non è uno scambio a perdere rispetto a quello avvenuto in tanti altri settori della vita italiana di quegli anni. Il manicomio è chiuso, unico luogo nel mondo l’Italia, e non è poco!
E quanto a noi, siamo impegnati ogni giorno nella difficile operazione di versare il «vino nuovo» della nuova psichiatria, negli «otri vecchi» di una società che è ritornata a chiudersi dopo la parentesi degli anni ‘60 e ’70. Di far rivivere ogni mattina la 180 in un’Italia che, parafrasando il verso di una canzone di Claudio Lolli, forse «non vuole più bene ai matti».
E così, vorrei chiudere questa riflessione con le parole che Goffredo Fofi, uno dei protagonisti del ’68 italiano, ha usato recentemente per concludere un ricordo della sua esperienza nella neuropsichiatria infantile di Marco Lombardo Radice, al quale Francesca Archibugi ha dedicato il bellissimo film “Il grande cocomero”, sulla Rivista Sperimentale di Freniatria: «Ho parlato del “prima di Basaglia”, sarebbe bello poter parlare oggi di un nuovo “prima” di sconvolgimenti positivi, di movimenti comparabili a quelli di allora, che imposero alle classi dirigenti grandi riforme nel campo del lavoro, della salute, della scuola, della vita associativa. Ma così non è...».
Io, che del ’68 non ho vissuto che la lunga scia e l’eco perché quell’anno mi iscrivevo alla prima elementare, sono stato incaricato del terzo intervento, sulla relazione che lega specificamente Basaglia e l’anno ’68, e lo ripropongo qui integralmente.
Sono partito proponendo due parole chiave, fondamentali tanto per Basaglia che per il ’68, che ho preso dal ritornello di una nota canzone di Giorgio Gaber, cantata non per caso la prima volta nel corso di uno spettacolo all’interno dell’Ospedale psichiatrico di Voghera a metà degli anni ’70: libertà e partecipazione. Una libertà che, per Basaglia, è terapeutica, il che non significa soltanto che la libertà è bella, è giusta, ma anche che è, in psichiatria, per lui il presupposto indispensabile della cura. Non è possibile insomma curare la malattia mentale, che Henri Ey definiva una patologia della libertà, se non all’interno di una pedagogia della libertà nella quale l’altro avverta gradatamente di essere libero, e libero anche - e a questo Basaglia tiene particolarmente – di contestare e contrattare la propria cura col medico. Scrive del resto Basaglia nelle conferenze brasiliane che: «quando il malato è internato il medico è in libertà; quando l’internato è in libertà l’internato è il medico». E allude chiaramente con questo, mi pare, alla necessità di un concreto trasferimento di potere dal medico al malato, o meglio ancora della necessità di creare le condizioni perché il malato possa strappare al medico questa libertà, che se rappresenta una concessione, ovviamente, non vale.
Se il 1961 rappresenta l’arrivo di Basaglia a Gorizia e gli svela con la miseria materiale e morale dei malati la necessità della distruzione dell’ospedale psichiatrico per cominciare a poter affrontare la malattia, il 1964 è altrettanto importante perché è l’anno nel quale al I Congresso Internazionale di Psichiatria Sociale di Londra dichiara per la prima volta in pubblico il suo progetto rivoluzionario: la distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione. E’ la prima volta in assoluto che qualcuno esprime quest’idea, che a tutti dovette sembrare una follia. Ma a questo Basaglia stava già lavorando con straordinaria lucidità e ostinazione da tre anni, in uno dei più piccoli e periferici manicomi italiani, attraverso un piano articolato in una serie di passaggi: apertura dei reparti; abbattimento delle reti e delle sbarre; umanizzazione delle relazioni; graduale abolizione dei mezzi di contenzione; assemblee di reparto e generali come cuore pulsante della vita istituzionale; cambio di significato al lavoro dei ricoverati; ripresa dei loro legami con le famiglie e con l’esterno; qualificazione lavoro degli infermieri; introduzione e uso ponderato, sicuro e rispettoso degli psicofarmaci.
Dopo Gorizia le esperienze di lotta all’ospedale psichiatrico dilagano, in parte nascendo autonomamente e in parte germogliando dal trasferimento dei “goriziani”: Perugia, Novara, Reggio Emilia, Colorno, Arezzo, Trieste, Ferrara, Voghera, Nocera Inferiore. E vanno delineandosi quattro principali opzioni strategiche: quella di chi guarda alle esperienze del settore e della psicoterapia istituzionale francesi, come Edoardo Balduzzi a Varese; quella di chi punta a una costruzione dei nuovi servizi territoriale che debba necessariamente attraversare la contestuale distruzione dell’ospedale psichiatrico come Basaglia stesso, Slavich[ii], Pirella; quella di chi ritiene, in dissenso con Basaglia, che sia possibile costruire la rete dei servizi esterni prescindendo dall’ospedale psichiatrico, che dopo esaurirà spontaneamente la sua funzione, e pensiamo a Jervis; quella di chi, come Cotti o Antonucci, contesta l’esistenza stessa della malattia mentale e rappresenta quindi la versione italiana dell’antipsichiatria (Basaglia, infatti, non fu mai antipsichiatra, ma invece uno psichiatra interessato a una trasformazione della psichiatria in senso critico e democratico).
Ma il 1968 fu anche l’anno della Legge voluta dal ministro socialista della sanità Luigi Mariotti, una figura legata da reciproca stima con Basaglia: il ministro infatti aveva scritto l’anno precedente la prefazione al primo libro del gruppo basagliano, Che cos’è la psichiatria[iii], e Basaglia spende parole elogiative per la legge Mariotti in una nota al suo intervento ne Il giardino dei gelsi di Ernesto Venturino. Mariotti paragonò l’ospedale psichiatrico ai lager tedeschi, e in questo giungeva almeno terzo dopo Ugo Cerletti, che lo aveva fatto già negli anni ’60, e Angelo del Boca, che sarebbe poi diventato uno dei principali storici del colonialismo italiano, che così aveva intitolato una sua inchiesta sugli ospedali psichiatrici[iv]. Anche Basaglia ricorre nei suoi scritti a questo paragone, ma lo fa in un senso un po’ diverso, non solo come denuncia; ha dietro la lettura di Primo Levi e Erving Goffman, e vuole dire con questo anche he molti dei meccanismi di relazione istituzionale che si possono osservare nell’ospedale psichiatrico sono state osservate anche nel lager. Comunque, la legge Mariotti amplia la possibilità del ricovero volontario rispetto alla legge del 1904, introduce le figure di psicologi e assistenti sociali negli ospedali psichiatrici, promuove la settorializzazione e umanitarizzazione dell’ospedale psichiatrico fissando anche parametri volti a evitare le grandi concentrazioni, promuove la diffusione dei Centri di Igiene Mentale che in molte esperienze costituiranno il primo embrione di servizi psichiatrici diffusi nel territorio.
Alla rivoluzione basagliana contribuirono in misura importante i fotografi che documentarono gli scandali degli ospedali psichiatrici, e per Genova ricordiamo ancora Giorgio Bergami, i magistrati, i giornalisti, i personaggi dello spettacolo, come Dario Fo e Franca Rame, gli Area, Gino Paoli, Hornette Coleman, Giorgio Gaber, il Teatro Nucleo a Ferrara[v], il Living Theatre a Genova. E quando per un brutto incidente Basaglia e Slavich furono posti sotto inchiesta, arrivò la solidarietà di un’ottantina di intellettuali, tra i quali L’appello di un’ottantina di nomi prestigiosi tra cui Giorgio Bassani, Carlo Bo, Umberto Eco, Dario Fo, Franco Fornari, Natalia Ginzburg, Mario Monicelli, Eugenio Montale, Alberto Moravia, Cesare Musatti, Vittorio Sereni, Mario Soldati, Luigi Squarzina. E non mancò dall’estero la solidarietà di Jean Paul Sartre. In un libro del ’75, Basaglia riesce a portare a ragionare con lui e la moglie di Crimini di pace intellettuali da altre discipline e da altre parti del mondo: Foucault, Castel, Wulff, Chomsky, Laing, Goffman, Szasz.
Basaglia era riuscito insomma a portare la lotta contro l’ospedale psichiatrico fuori dal mondo della psichiatria e a farne un tema ampiamente dibattuto nella cultura e nella società italiane. "Basaglia tra la gente": così allievi, amici, compagni vollero ricordarlo alla sua morte, e proprio questo era stato importante. Che fosse riuscito, ricorrendo anche a potenti metafore di liberazione come Marco Cavallo, a portare la sua lotta tra la gente stabilendo un nesso con quegli anni formidabili e inquieti, comunque aperti. Del resto, la psichiatria non era da sola a muoversi, e in quegli anni la lotta antiistituzionale investiva le scuole differenziali, gli orfanatrofi, gli ospizi per i vecchi, le istituzioni per l’assistenza dei disabili. E poi ancora l’ospedale, la scuola, la fabbrica, persino il carcere e la caserma. L’istituzione negata, il libro-simbolo di Gorizia uscito proprio in quel 1968[vi] fu, come scrive John Foot, «il libro giusto al momento giusto… presente nella libreria di ogni sessantottino degno di questo nome»[vii]. Vendette 12.500 copie solo nel 1968 e raggiunse nel 1972 le 50.000.
Che cosa hanno in comune, dunque, Basaglia e il ’68? Beh innanzitutto alcuni riferimenti teorici, alcuni buoni (o cattivi, a seconda dei punti di vista), maestri: Jean Paul Sartre, Frantz Fanon, Michel Foucault per esempio. E anche, forse, sullo sfondo un po’ Mao per quanto riguarda il rapporto intellettuale/masse (un tema per il quale però il riferimento principale per Basaglia è più Gramsci) e la democrazia assembleare. E poi alcuni temi centrali: enfasi sulla libertà; enfasi sulla giustizia sociale, la soggettivazione degli oppressi, il riscatto dalla miseria; centralità della democrazia assembleare; arte come strumento di comunità e di liberazione; idea di un impegno civile dell’intellettuale; follia come inquietante interrogazione sull’umano, che incuriosì e commosse Basaglia e che affascinò il ’68.
Ci sono alcuni passaggi del film di Gianni Ameglio La meglio gioventù che meglio di ogni discorso mi paiono esprimere il senso della profonda compenetrazione che ebbero la vicenda basagliana, la psichiatria, i suoi dibattiti e la sua rivoluzione nella cultura e nella vita italiana del ’68.
Quello tra Basaglia e il ’68 fu, dunque, senz’altro un incontro fortunato tra un uomo e un anno, una provvidenziale congiunzione astrale, un rapporto fatto di reciproco potenziamento e arricchimento. Basaglia regala al ‘68 l’esperienza di una rivoluzione a portata di mano, una rivoluzione su piccola scala certo, ma una rivoluzione che ha vinto: il manicomio è stato chiuso! Il ‘68 regala a Basaglia anni «formidabili», come li definisce Mario Capanna, un’atmosfera dalla quale anche la lotta al manicomio trova nutrimento, perché non c’è niente che appare invincibile e anche l’impossibile appare possibile…. Anni nei quali, come canta ancora Giorgio Gaber:
«E allora è venuta la voglia di rompere tutto
le nostre famiglie, gli armadi, le chiese, i notai
i banchi di scuola, i parenti, le "centoventotto"
trasformare in coraggio la rabbia che è dentro di noi.
E tutto che saltava in aria
e c'era un senso di vittoria
come se tenesse conto del coraggio
la storia».
E regala, anche, giovani entusiasti che negli anni ’60-070 si recavano – e ancora oggi si recano – da tutta Italia e da varie parti del mondo nei luoghi “basagliani” a portare il loro entusiasmo, la forza del lavoro volontario, la voglia di cambiare concretamente le cose.
E oggi, cosa ci rimane di questo incontro? Beh, ad essere cinici, possiamo pensare che negli anni che vanno dal ’68 al ’78, l’anno della legge 180, abbia avuto luogo in Italia uno “scambio”, nel quale il “potere”, il “sistema”, le forze che tendono a mantenere le relazioni di potere ferme e inamovibili scelgono di sacrificare il manicomio, per salvare la psichiatria e la società italiane dalla radicalità che la critica filosofica e politica di Basaglia porta ai loro fondamenti. Ma, una volta tanto, non è uno scambio a perdere rispetto a quello avvenuto in tanti altri settori della vita italiana di quegli anni. Il manicomio è chiuso, unico luogo nel mondo l’Italia, e non è poco!
E quanto a noi, siamo impegnati ogni giorno nella difficile operazione di versare il «vino nuovo» della nuova psichiatria, negli «otri vecchi» di una società che è ritornata a chiudersi dopo la parentesi degli anni ‘60 e ’70. Di far rivivere ogni mattina la 180 in un’Italia che, parafrasando il verso di una canzone di Claudio Lolli, forse «non vuole più bene ai matti».
E così, vorrei chiudere questa riflessione con le parole che Goffredo Fofi, uno dei protagonisti del ’68 italiano, ha usato recentemente per concludere un ricordo della sua esperienza nella neuropsichiatria infantile di Marco Lombardo Radice, al quale Francesca Archibugi ha dedicato il bellissimo film “Il grande cocomero”, sulla Rivista Sperimentale di Freniatria: «Ho parlato del “prima di Basaglia”, sarebbe bello poter parlare oggi di un nuovo “prima” di sconvolgimenti positivi, di movimenti comparabili a quelli di allora, che imposero alle classi dirigenti grandi riforme nel campo del lavoro, della salute, della scuola, della vita associativa. Ma così non è...».
[i] Recensione di «Il dottore dei matti. Una biografia di Basaglia» di Oreste Pivetta, POL. it, 30/4/18.
[ii] Cfr. Gorizia 1961. Con Antonio Slavich, là dove tutto ebbe inizio, POL. it, 9/6/18.
[iii] «Che cos’è la psichiatria»? 50 anni dopo. Parte I. Gorizia e Parma, 28/5/17; Parte II. Lavoro, psicoterapia, istituzione, 6/6/17; Parte III. Tutta un’altra storia, 17/6/17; Parte IV. E oggi?, 27/6/17.
[iv] V.P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, Bologna, Il mulino, 2009.
[v] Teatro e deistituzionalizzazione. Intervista con Horacio Czertok POL. it, Parte I, 8/7/17; Parte II , 27/7/17.
[vi] «L’istituzione negata». 50 anni dopo, è ancora da lì che dobbiamo ripartire, POL. it, Parte I, 1/4/18; Parte II, 30/6/18.
[vii] J. Foot, La “Repubblica dei matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978, Milano, Feltrinelli, 2014.