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Continuando la lettera di Gilberto Di Petta a un/a giovane specializzando/a in psichiatria

3 Apr 19

Di gianni.francesetti e Michela-Gecele
Kathmandu e Torino, 10 marzo 2019
 
 
“Ho provato a guardare in faccia il ‘dolore’ dell’umanità (…), mi sento piuttosto come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi, o almeno alcuni dei problemi del nostro tempo. L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Questi problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire…” 
Etty Hillesum
 
 
Cara/o giovane collega che ti stai specializzando in psichiatria, abbiamo letto la lettera che ti ha indirizzato lo stimatissimo amico Gilberto. E’ passato un anno da quando l’ha scritta e – proprio come accade ai messaggi in bottiglia affidati al mare – la leggiamo solo ora.

Io (Gianni) la leggo qui a Kathmandu, in Nepal, con un certo senso di straniamento. E’ notte. Ho terminato una giornata di insegnamento della psicopatologia in un training di psicoterapia: gli allievi sono giovani e appassionate colleghe e colleghi in un mondo che stratifica molte dimensioni traumatiche su una condizione di grave povertà economica e grande ricchezza di storia e cultura. L’incontro spesso è camminare su un terreno minato dove qualcosa può esplodere là dove non vi erano – quasi – segni di sofferenza, tanta è stata la potenza del seppellire per andare avanti. Tutto questo nell’oblio postraumatico del terremoto del 25 aprile 2015 e in attesa del prossimo terremoto. Ora sono qui nel letto, un cane che abbaia senza sosta mi sembra un presentimento del prossimo terremoto, mi inquieta e mi allerta. Poi mi sembra la voce del dolore che sale da questo mondo, un mondo pieno di colori, spezie, sorrisi, musica, cordialità e risa. E di laceranti, tremendi,  dolori traumatici che mi paiono a tratti insopportabili. Un cane li canta per me. Scrivo a Michela, le mando la lettera di Gilberto, le chiedo che effetto le fa. L’atto stesso di scriverle già mi rilassa.

Io (Michela) sono  a Torino, il mio luogo di nascita ma non di residenza, luogo che ne comprende altri, viaggi, permanenze, spostamenti. Con Gianni ci conosciamo dai tempi della laurea in medicina, abbiamo condiviso i primi passi dentro la psichiatria, la prima fascinazione dell’umano, ma anche dell’organico, del biologico, un biologico non riduzionista ma di apertura, di respiro. La connessione fra i sistemi immunitario, nervoso, ormonale e quindi fra le esperienze di vita e la biologia. Quello che allora era quasi fantascienza è ora quotidianità scientifica. Non sapevamo invece ancora, fino in fondo, che la letteratura è psichiatria, che l’arte è psichiatria, che la vita lo è. Abbiamo iniziato a capirlo piano piano, anche attraverso l’incontro con Eugenio Borgna, nelle lezioni di specialità. Ma eravamo solo alla lettura della lettera, e forse già hai intuito quante cose ha portato questo contatto da lontano con Gianni e questo contatto da lontano con Gilberto e con te.
Siamo rimasti entrambi colpiti dalla lettera di Gilberto e abbiamo riconosciuto che, purtroppo, disegna la realtà così come la conosciamo. Ci siamo riconosciuti. Abbiamo la stessa età, abbiamo fatto la specialità negli stessi anni. Appena letta, ci siamo scritti e abbiamo condiviso quanto ci ha suscitato. Siamo rimasti colpiti, sì, toccati nel profondo, nel sentire la corrente della passione che ci ha infiammato, e ancora ci infiamma, scontrarsi contro la resistenza d’acciaio di un mondo che funziona su altri parametri: economici, legali, burocratici, conformi alle logiche del mercato – sempre più povero per i poveri – e della carriera – sempre più incerta per te che intraprendi questa strada. Un mondo che non è liquido per niente, che non si sgretola, che è cementificato. O forse è così liquido che ci passi attraverso senza lasciare alcuna traccia. Ti è indifferente e sembra immodificabile. La nostra passione ci ha mosso e ci muove verso l’incontro con il folle e la follia, e sbatte, spesso, contro una barriera ferrea. Più forte, annichilente, inamovibile nella sua logica inevitabilmente vincente.
Si, abbiamo riconosciuto tutto questo nella lettera di Gilberto. Abbiamo riconosciuto la forza della domanda, che è la nostra domanda e forse quella di tutto noi: ‘da chi vorrei fosse curata una persona che amo se si ammalasse di mente?’.  Basterebbe questo, basterebbe trovare il momento giusto per farla e rifarla ad ognuno di noi, lasciando prima e dopo uno spazio di silenzio e di vuoto che ancora può essere fertile, creativo. Dopo aver letto la lettera che ti ha indirizzato, ci siamo fermati un momento, abbiamo fatto un profondo respiro, per lasciarla entrare, depositare, per assaporarla. Ed ecco che proprio allora abbiamo sentito qualcosa muoversi in noi. Un moto di ribellione contro la forza attrattiva della disperazione, forse il sussulto di quanto resta in fondo al vaso di Pandora, quando tutto è perduto. Abbiamo sentito qualcosa agitarsi contro questa forza mondana vincente e in favore di ogni – presente o ancora sconosciuta – speranza. Ma quale speranza possiamo osare nominare, quale speranza può esserci se ci riconosciamo in questa narrazione, dove i maestri sono declinati al passato e il presente rischia la desertificazione in una psichiatria monodimensionale?
Questa è la nostra domanda: quale speranza?
Ci ha colpito non solo l’avvertimento che Gilberto ti ha lanciato con forza, ma ancora di più il tratto solitario di questo grido. Forse a questo innanzitutto reagiamo: alla solitudine.
Perché, Gilberto, non sei solo. Non sei l’ultimo dei Mohicani.
Innanzitutto per quanti ti stanno leggendo.
E poi per quanti desiderano unirsi a te per sottoscrivere o continuare la tua lettera. Fra questi ci siamo noi: vogliamo fare un tentativo di continuare il tuo discorso, di riprendere il filo dove l’hai lasciato e portarlo avanti ancora un po’. Vorremmo leggere molte risposte al tuo appello: risposte che confermano o che dissentono, che ampliano, che criticano o che raccontano storie diverse, non importa. Ma che sono il frutto di un sano e onesto interrogarsi su questo tema.
A noi questa lettura ha fatto l’effetto che tante volte ci ha suscitato il dialogo con Umberto Galimberti o la lettura di Zygmut Bauman, tanto per citare due autori a noi molto cari e provocatori: un pessimismo radicale e inarginabile – un semplice e onesto realismo direbbero forse loro – che proprio perché estremo genera il suo contrario: la necessità, cioè, di delineare un sentiero vitale, di indicare una via d’uscita o almeno un modo per starci. Un orizzonte del possibile. Il rinascere dello yang quando l’estremo dello yin si sta compiendo. L’attesa dell’alba quando la notte è più buia. Un movimento, il nostro, che deve attingere alla follia per poter osare tanto da prendere voce, spazio, tempo. Per prendere la tua attenzione.

Ma quale speranza dunque?
In primis, la speranza ci viene dalla psichiatria stessa, dalla sua natura chimerica che non si lascia ridurre al dato tecnico, biologico e quantitativo. Ad esempio, forse  per breve tempo possiamo credere che la depressione non sia altro che una riduzione della disponibilità sinaptica di qualche neurotrasmetttitore. Forse per una decina d’anni, andare ad un convegno di psichiatria e parlare dell’importanza dell’incontro e della parola con i depressi gravi ha significato essere emarginati nei programmi congressuali e trattati come minus habens nei corridoi di alcune cliniche universitarie. In effetti, questo è accaduto nel tempo recente della mitologia della serotonina. La riduzione della complessità delle esperienze depressive a un calo di serotonina abbinato ad un appiattimento scandaloso dei sistemi diagnostici, incapaci addirittura di distinguere la reazione alla perdita dall’esperienza melancolica, ha prodotto le aberrazioni dell’incremento esponenziale della prescrizione degli antidepressivi e della crescita epidemica della depressione, che l’OMS prevede arriverà in qualche anno ad essere la ‘malattia’ (sic!) che causerà i maggiori costi economici e sociali nel mondo. Certo, qui la psichiatria è lo specchio fedele della società e non un luogo di complottisti, al limite un gruppo professionale conforme ad una temperie culturale che sempre più accelera e nega la dignità della pausa, del tempo che rallenta, della tristezza. Dunque questa diventa patologica. Certo viviamo in un tempo bipolare dove tutto è a portata di mano e accelerato e contemporaneamente le diagnosi di depressione aumentano ovunque. Ma, nonostante questo, e nonostante la forza economica che sostiene questa prospettiva, il tempo mitologico della serotonina è durato fino ad un certo punto: finchè si è scoperto che le pubblicazioni delle case produttrici di antidepressivi erano distorte, che il size effect della psicoterapia è maggiore di quello della farmacoterapia, che abbiamo un enorme problema nella diagnosi delle depressioni, che confondiamo la tristezza con la tristezza vitale e con il distacco dalla vita. La cosa interessante è che fra quelli che con più forza stanno denunciando questo problema c’è Allen Frances, il capo della task force del DSM IV. C’è una ribellione che viene dalla natura stessa delle cose. Non dalla cosiddetta realtà che può essere deformata ad hoc per interessi che spesso non sono né nobili né al servizio del paziente. Ma dalla natura delle cose, dalla natura stessa dell’essere umano che è irriducibile. Ci dà speranza il teorema di incompletezza di Kurt Godel che ha dimostrato che neppure nella più esatta e quantitativa delle discipline, la matematica,  esiste un sistema che possa essere completo e coerente allo stesso tempo. Ci dà speranza l’eccedenza dell’umano che non si lascia mai, se non transitoriamente e solo con violenza, ridurre a meno di sé, a oggetto. Ci dà speranza la ricerca che segue percorsi che trascendono, almeno a lungo andare, gli interessi particolari di qualche parrocchia. Non sarà la psichiatria ad essere ridotta ai numeri, a dimenticare l’umano, saranno i numeri a confermare l’inafferrabilità dell’umano dalla griglia astratta dell’algebra. Il mondo della vita si ribella. Sempre. Il British Journal of Psychiatry pubblicava nel 2012 un editoriale – ‘Psychiatry beyond the Current Paradigm’ – dove gli autori, coraggiosi e pienamente appartenenti al mainstream, analizzavano i numeri: la fotografia quantitativa delle cure psi dice che, primo, stiamo usando più farmaci; secondo, i farmaci che usiamo sono più efficaci; tre, la cronicizzazione dei pazienti è aumentata; quarto, l’invalidità psichiatrica e i costi sociali sono aumentati. Gli autorevoli editors concludevano osservando che i dati erano contradditori: come può essere che applichiamo terapie migliori e abbiamo outcomes peggiori? E azzardavano un’ipotesi: forse abbiamo dimenticato qualcosa. E questo quid potrebbe essere la relazione.
Vedi, giovane collega, come il fondamento della nostra disciplina – che non può non nascere dalla relazione – alla fine salta fuori? Vedi, giovane collega, come l’umano della psichiatria è un’araba fenice che non muore mai? È sopravissuta agli abusi sovietici, ai gulag e allo sterminio di Aushwitz. Non muore. Le neuroscienze, la miglior filosofia, l’infant research, la clinica sono dalla sua parte, perché è sempre più chiaro che l’essere umano non solo non è riducibile al suo cervello, ma nemmeno all’individuo. Se studi l’individuo non capisci le donne e gli uomini. Devi studiare come l’uomo sta in relazione, come dalla relazione nasce. Ec-sistere è venir fuori, non è esser già dato. L’uomo è un heideggeriano mit-dasein. L’uomo sartrianamente si fa, non è già dato. Il sé, come scrive Damasio, viene alla mente, da un indifferenziato che è pre-soggettivo, relazionale. Viviamo nella tragica necessità del dualismo, diceva Elvio Fachinelli, ma veniamo da un irriducibile ‘più grande di noi’ che ci costituisce e ci collega. Che se viene dimenticato nella ricerca e nella cura è sì una tragedia, ma poi rispunta fuori. Irriducibilmente. È l’oste con il quale non si può non fare i conti. La ricerca, tutta la ricerca seria (che poi è l’unica che resiste al tempo, come il buon vino) gioca a nostro favore. Sii dunque sua alleata.
Ma cosa sarebbe la psichiatria senza gli psichiatri? Senza il tuo, vostro, nostro essere contemporaneamente dentro e fuori la struttura delle società che abitiamo, senza il nostro continuo lavoro ai margini, in periferia, in un territorio di confine. Non pretendiamo di stare al centro, verremmo accecati dai riflettori del mainstream. La psichiatria di per sé non esiste, esistono gli psichiatri e le persone che lavorano nei servizi di psichiatria. Esistono gli studenti di psichiatria, esisti tu. La psichiatria non fa scelte, tu sì. Tu puoi. Non dimenticarti che la farmacoterapia per essere tale si costituisce nell’incontro e che per imparare a stare nell’incontro non basta la base biologica della nostra pratica. In effetti, cosa sarebbe la psichiatria senza la psicoterapia? E senza le altre persone e professionalità che sono necessarie per la cura psi? Vorremmo aprire questa lettera a tutti coloro che incontrano la sofferenza psichica per averne cura – infermieri, educatori, assistenti sociali, operatori sanitari, famiglie, volontari – perché da un lato vogliamo condividere con loro questi nostri pensieri, ma anche perché è importante che sappiano quanto lo psichiatra possa essere solo, quanto rischi l’isolamento e la disperazione o l’indifferenza. Giovane collega, abbi cura di non rimanere solo. Solo un lavoro-con può sostenerti nell’incontro con le forme di rottura dell’essere-con, che sono le sofferenze mentali. Le malattie dell’anima sono malattie della relazione, ci ha insegnato Martin Buber. Solo la rete di incontri e legami può avere abbastanza terreno da reggere l’impatto di questa sofferenza. Anche per questo ti occorre un’esperienza di psicoterapia, oggi storicamente più che mai centrale nel suo essere crogiuolo di produzione di irriducibilità nelle cure psi. Quando ti specializzerai in psichiatria riceverai anche il titolo di psicoterapeuta. Stai attento perché sarà un inganno. Un inganno pericoloso. Può farti pensare di essere pronto ad incontrare l’altro nelle sue più profonde e disorientanti ferite. Sappi, e te lo diciamo con tutta la forza e chiarezza che possediamo, sappi che non è così. Non sarai pronto. Per incontrare l’altro ferito devi poter sentire e stare con le tue proprie ferite, dalle quali ti sei giustamente protetto e che ti proteggeranno evitando l’incontro vero con il paziente. E non te ne accorgerai. Gli incontri mancati, le terapie andate male le addosserai al paziente non responsivo, alla famiglia non supportiva, ad una patologia non trattabile, alla mancanza di fondi, all’insufficienza della rete. Tutti elementi plausibili, tutte variabili da inserire nella complessa equazione della valutazione. Ma mancherai tu. Se non ti formi all’incontro, attraversando la tua geografia di affetti e di dolori, non saprai mai come tu hai contribuito all’incontro mancato. La tua formazione di psichiatra, se si limita a fondarsi sul modello biologico e nosografico, è monca. Importante, certo, ma monca. Come scrive Gilberto, innanzitutto ignora, e quel che è peggio sempre più ignorando di ignorare, la psicopatologia. La confonde con la diagnosi e la nosografia. Si usa oggi come manuale di psicopatologia il DSM: come dice Paolo Migone si tratta di un problema sociale, prima che di un’aberrazione scientifica. Il DSM nasce per la statistica e la diagnosi, non per la psicopatologia. L’ultima preoccupazione dello psicopatologo è la diagnosi, ha scritto Karl Jaspers. La psicopatologia è attraversare la sofferenza per conoscerla,  conoscerla per poterla riconoscere, riconoscerla per poter incontrare il paziente lì dove noi siamo. Attraversare: cioè farne esperienza diretta, personale, incarnata, patita, sofferta. ‘Per’, parte centrale della parola ‘esperienza’ ha una storia lontana, viene dall’indoeuropeo, significa attraversare. Anche in altre lingue ha la stessa stretta parentela con l’attraversare, ad esempio anche nel nepalese anuvava. Dovrai quindi attraversare la psicopatologia per prepararti all’incontro. Basterà studiare? No, non ti basterà, anche se sarà necessario. Dovrai leggere, certo, i diari di viaggio di chi ha viaggiato prima di te. Grandi uomini, come dice Gilberto, che hanno scritto i loro ricchissimi e preziosi diari di viaggio. Ma dovrai saperli attualizzare, aggiornare: la psicopatologia, come la psichiatria, è espressione della società e della cultura, per cui solo tu puoi esplorare e conoscere i paesaggi che oggi si distendono e si aprono davanti a te. Non troverai tutte le risposte in quei testi, ma troverai buone domande e un metodo per cercare le tue risposte. Ma al termine della specializzazione, probabilmente non ti mancherà solo la psicopatologia. Come dicevamo, dovrai lavorare su come il tuo paziente e tu stesso emergete da uno sfondo comune, su come la relazione ti e vi fondi, su come sentirla attraverso l’allenamento incessante e disciplinato dei tuoi sensi. Immergerti in questo mare sarà come mettere sale sulle ferite. Brucia. E al tempo stesso cura. Non sarai pronto per questo dopo la tua specializzazione e se non avrai intrapreso questo viaggio di esplorazione della tua geografia affettiva, la tua psichiatria sarà piatta come la terra del Medio Evo, sterile come una sala operatoria, sorda come una campana fessa. Formati quindi seriamente alla psicopatologia e intraprendi un percorso di terapia personale.
Ecco, tutto questo ci dà speranza.
E potremmo fermarci qui.
Consegnare la nostra speranza alla natura irriducibile dell’essere umano. Ce ne sarebbe già abbastanza. Jaroslav Seifert, poeta ceco che canta la resistenza contro l’occupazione sovietica, scrive che i resistenti sono come il timo, un’umile, bassa erba fiorita di montagna: più la calpesti, più sprigiona il suo profumo.
Ma c’è ancora una cosa.
Una cosa che non solo ci dà fiducia, ma ce la fa toccare e sentire concretamente. Ci apre il cuore. È l’esperienza dell’incontro con  gli studenti: di psicologia, di psicoterapia, di psichiatria. Studenti come te. Siamo arcistufi di sentire le lamentele sugli studenti di oggi. Che non studiano, che non sono interessati, che sono distratti, ignoranti e non coinvolti. Non è così. Quando lo siete, costituite lo specchio del contesto educativo che noi stessi vi forniamo, siete il nostro specchio: siamo docenti distratti da mille cose, frettolosi, poco coinvolti. Se solo ci proviamo, seriamente, ad esserci, voi rispondete, ci siete, possiamo contare sul vostro entusiasmo. A quel punto, ci dite che avete scelto questa strada per passione, che finalmente trovate il senso della vostra scelta. Basta poco. E questo ci dà davvero speranza. É vero che non ci sono più i grandi uomini di un tempo, i grandi maestri. Ma la lettera di Gilberto, e speriamo anche il nostro tentativo di continuarla, testimonia sia che i grandi uomini hanno lasciato una traccia che sempre vive, sia che anche attraverso piccole donne e piccoli uomini – come lui, come noi, come te – un grido di ribellione e di speranza continua ad esistere. Sappiamo anche che tu puoi vedere sentieri là dove noi vediamo solo il deserto, perchè la tua capacità di adattamento creativo nel mondo attuale è superiore alla nostra. Come scrive Gilberto, è importante che tu conosca i grandi maestri che ti hanno preceduto, lui ne nomina alcuni. Fra questi vogliamo aggiungere Franco Basaglia. Ogni volta che insegniamo all’estero e ci chiedono della psichiatria in Italia, sentiamo un moto di profondo orgoglio nel dire che il nostro è l’unico Paese al mondo che non ha manicomi. In chi ci ascolta c’è sempre un momento di sorpresa e disorientamento, come se avessimo aperto uno squarcio nell’inimmaginabile. Poi puntuale arriva la domanda ‘e quindi come fate?’. La risposta è sempre complessa, ma intanto l’apertura è avvenuta. Non esiste una soluzione generalizzabile, questo è parte della rivoluzione basagliana che non può mai prescindere dalla situazione concreta, locale, dagli uomini e dalle donne reali che sono in gioco. Ma ci fa sentire fieri di appartenere ad una cultura psichiatrica che ha creduto e crede nella necessità di preservare, innanzitutto e ad ogni costo, la dignità e il diritto al contatto personale e sociale di chi soffre. Come parte della cura, certo, ma non solo del paziente: di tutta la comunità sociale. Perché il modo di curare i pazienti in psichiatria è anche lo specchio del modo di aver cura delle fragilità e della società nel suo complesso. Il modo in cui curiamo i pazienti psichiatrici rispecchia il modo in ci avviciniamo ai deboli, a chi non può difendersi, ai piccoli. Anche questa eredità puoi portare con te e a lei puoi appoggiarti nei momenti bui. Ma quindi, dovremmo porre la nostra speranza nell’attesa di prossimi grandi uomini a venire? L’accelerazione e la liquidità sociale, purtroppo, favoriscono la grandiosità, non la grandezza. No, questa speranza non l’abbiamo. Crediamo piuttosto alle parole di Etty Illesum, al fatto che ciascuno di noi, nel proprio piccolo,  debba prestarsi a diventare un campo di battaglia dove le forze in gioco possano trovare espressione e direzione. Crediamo che questo possano farlo le piccole donne e uomini come noi, come te. Che questo farà la differenza. Che questo ci consentirà di incontrare chi soffre. Se qualcuno che amiamo si ammalasse, vorremmo che trovasse un umile psichiatra, come te, come voi, disposto e capace a diventare con lui campo di battaglia per la follia, per trovare insieme una strada per vivere.
Dignitosamente.
E con quella cifra umana che ci rende possibile respirare: non essere soli.
Gilberto scrive che ‘la via per arrivarci passa per la sofferenza (anche personale),  per  l’umanità e per la cultura’. Siamo d’accordo.

Restiamo con l’attesa e la speranza, quella che Eugenio Borgna ci ha insegnato. 

E quella che Emily Dickinson ha messo in parole poetiche:
 
La speranza è quella cosa piumata –
che si viene a posare sull’anima –
Canta melodie senza parole –
E non smette –
Mai –
 
E la senti – dolcissima – nel vento –
E dura deve essere la tempesta –
Capace di intimidire il piccolo uccello
Che ha dato calore a tanti –
 
Io l’ho sentito nel paese più gelido –
E sui mari più alieni –
Eppure mai, nemmeno allo stremo
Ha chiesto una briciola – di me.
 
Grazie per averci letto fino a qui.
Questo ci dà speranza.
 

 
 

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Autori

4 Commenti

  1. raffaellaserra01

    Cari Michela e Gianni, la
    Cari Michela e Gianni, la vostra lettera come quella del Dott. Di Petta, tocca l’anima degli specializzandi nel suo angolo più difeso. Si tratta di un luogo dove i pensieri e le paure più profonde, le istanze di cambiamento, la necessità di esprimersi e la voglia di incontrare un sentimento nell’altro al di là del dettaglio nosografico vengono sepolti da un aspetto di sudditanza sancito implicitamente dal contratto e che avviluppa la quotidianità. Per almeno quattro anni non c’è tempo per pensare all’essenza delle cose o diventare eredi di un Sapere per combattere la desertificazione che ci attende in quel mondo cementificato, c’è tempo solo per gli algoritmi. In questo caso la sterilità nasce dall’appropriatezza del comportamento (che talvolta neanche proponendo l’anonimato si riesce ad interrogare), che porta come minino alla lode senza infamia, se non si protesta, e come massimo alla poltrona, perlopiù DSM alla mano. Nella maggior parte dei casi, la vita degli specializzandi è una stanza polverosa in attesa di essere ripulita. Nel limbo bisogna rimanere, sfangando le giornate, cercando di non soffocare il senso che i grandi Maestri hanno dato alla nostra disciplina e che voi avete dolcemente raccontato. Sembra uno scenario catastrofico, ma leggendo le vostre parole, che spezzano la solitudine nella quotidianità della formazione, in fondo diventa solo un dettaglio nel momento in cui si decide di scegliere un’alternativa culturale, pur non istituzionale, che spero abbia il potere in futuro di cambiare le istituzioni. Per questo voglio ringraziarvi, perché le vostre parole definiscono la cifra di una scelta che può essere di molti.

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  2. elisamontagna26

    Cari Michela e Gianni,
    non

    Cari Michela e Gianni,
    non sono ancora specializzanda ma aspiro ad esserlo. Ero stata fortemente colpita dalla lettera del Dott. Di Petta a cui avevo sentito la necessità di rispondere, per cui una sua continuazione non può che farmi piacere. Parlo da inesperta, ma curiosa. Vi ringrazio per aver trasmesso questo vostro sentire e aver condiviso spunti e riflessioni che, personalmente, mi fanno credere che c’è ancora chi resiste e crede in tutto questo. Essere maestri è soprattutto mostrare la via e aiutare ad intraprenderla.
    Farò tesoro delle vostre parole, è importante sapere di non essere soli.

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  3. admin

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  4. gilbertodipetta

    Carissimi Michela e Gianni,
    Carissimi Michela e Gianni, la vostra lettera squarcia il silenzio di un anno, punteggiato da oltre 30.000 silenzi. Fatti di sguardi, di mani che si stringono alle tue durante i coffee-break dei convegni, di labbra che, mangiando un pasticcino dicono : “Sono d’accordo, continua così..” Ecco, la vostra lettera chiude questo arco di consenso che, se solo fosse agito, rovescerebbe da adesso la situazione. 30.000 esseri umani sono tre divisioni di un esercito invisibile, che, se si materializzasse, sposterebbe le lancette della storia. Perchè le parole, le parole come le vostre, contano, contano le prese di posizione, come la vostra; il nero su bianco. Perchè le grandi mostruosità della storia si sono costruite su stuoli di dissensi silenziosi. “Il coraggio uno non se lo può dare”, diceva il povero piccolo curato davanti al grande cardinale. Questa frase la ripeteva sempre il manzoniano Arnaldo Ballerini. “Il coraggio uno non se lo può dare”. Eppure la scelta è possibile. E’ ancora possibile scegliere che tipo di clinico uno vuol eessere. La mia lettera è fondata, certo, su di un nichilismo eroico, su di una disperata pasoliniana vitalità. la vostra è fondata, invece, sul Principio Speranza di Ernst Bloch, autore molto amato da Bruno Callieri. Se l’oggetto perduto della disperazione è il passato, l’oggetto verso cui tende la speranza è il futuro. La vostra lettera si prende cura di ognuno, lo raggiunge in quell’angolo di consenso dove si è barricato per sopravvivere. La vostra lettera assume che sia nella natura delle cose il ribaltamento. E io con voi credo che sia così. Tuttavia mi corre sottolineare che la rappresentazione della mente relazionale è un prodotto della storia e della cultura. E che quando la storia e la cultura arretrano, lo spazio del mentale (e del relazionale) si contraggono. Dunque, questa è una battaglia per la psichiatria, è una battaglia per e degli psichiatri, ma è, soprattutto, una battaglia di cultura. La psichiatria stessa è il sintomo di una crisi della relazione ordinaria e simbolica nella cultura umana, e l’affievolimento della psichiatria mind-less sulla recettoriologia è il sintomo del superamento di questo sintomo. Ovvero del fatto che, da qualche parte, non si pensa più, una volta espunta la relazione dal mondo umano, di curarne la mancanza. Si assume ormai la mancanza di relazione come costitutiva di un nuovo ordine natural-economico. Negli anni Settanta si pensava che la reintroduzione della follia nel mondo, con la rottura del grande internamento, potesse dare un nuovo corso al mondo. Questo non è avvenuto. E non poteva avvenire. Il mondo non era più quello che gli internati avevano lasciato, e, sostanzialmente, alla follia, del mondo non interessa più nulla. Dopo la chemioterapia massificata ancor meno la non alienazione della follia dal mondo riesce a modificarne il corso. Dunque la palla passa a noi, clerici vagantes, voces clamantes in deserto. Siamo noi la storia, adesso, la stoira siamo noi. Siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo, con le parole di Francesco De Gregori. Noi psichiatri (e psicologi), noi di questo passaggio sulla terra, ci giochiamo le nostre carte. perchè noi sappiamo. Noi sentiamo, noi abbiamo raccolto, mille lacrime, mille morti, mille storie, mille volti. Noi abbiamo anime che grondano di umano, noi facciamo il mestiere antico delle madri, il mestiere antico dei padri, quello degli uomini della medicina, degli sciamani, dei fratelli. Noi non siamo innocenti, non siamo inconsapevoli. Ogni generazione ha la sua battaglia. Questa è la nostra battaglia. La nostra occasione. Molti di noi si sono venduti. Moltissimi tirano a campare. Ma dentro di sè, sia chi si è venduto, sia chi tira a campare, sa come stanno le cose. Dunque ci aspetta un percorso duro, direi sanguinoso. Etico. Dobbiamo sia aprire nuovamente una breccia, che lasciare una traccia. Qualcosa di tutto questo ci avvicina a quella generazione di domenicani che, nell’alto medioevo, negli eremi trascrissero i testi dell’antichità pagana affinchè arrivassero all’età moderna. Quella generazione ignota, di amanuensi, ha salvato il mondo dall’ignoranza. A noi tocca trascrivere la materia del dolore e quella dei sogni di cui è impastato l’uomo che incontriamo tutti giorni, affinchè l’uomo di tutti i giorni non si dimentichi di cosa è fatto, da dove proviene everso dove va. Da naufrago che scopre, dopo un anno di silenzio, che dall’altra parte del mare immenso esiste qualcuno che si sta muovendo nella stessa direzione, da medico che oggi pomeriggio e stanotte sta con i suoi pazienti dentro un reparto, ad attendere l’ultimo che si rompe in mille pezzi, per dirgli che non è ancora finita, io vi ringrazio. E vi abbraccio senza fine.

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