LA GESTIONE DEI FARMACI OPPIACEI NELLE COMUNITA’ TERAPEUTICHE PER TOSSICODIPENDENTI
ABSTRACT: The aim of this article is to highlight some current critical issues related to opioid medication management in therapeutic residential services for treatment of drug addictions. The authors describe some difficulties and the specific health workers’ concerns; these critical issues are descriptive of different national therapeutic residential services; although there are some regional and local differences that in some cases might contribute to the decrease of clinical risk in opioid medication use in these health services.
In this article, for each concern we identify some possible actions in order to improve and to reduce the risk situations, although their overcome is not related to therapeutic residential services, because they need dialogues and identification of solutions also from all health system. In the last section of this paper, we highlight several benefits due to the introduction of single-dose opioid medication in therapeutic residential services. This action is implemented in some health services for the addiction therapy (SerD) in different regions of Italy, but it is not yet widely available and aligned in the national territory as it should be.
ABSTRACT: Lo scopo di questo articolo è di mettere in evidenza le attuali criticità connesse alla gestione dei farmaci oppiacei nelle comunità terapeutiche residenziali per tossicodipendenti. Gli autori descrivono alcune difficoltà e preoccupazioni specifiche degli operatori sanitari. Le criticità evidenziate riguardano la maggioranza delle comunità terapeutiche presenti sul territorio nazionale, anche se esistono differenze regionali e territoriali che possono in alcuni casi contribuire ad una diminuzione dei rischi clinici connessi all’uso dei farmaci oppiacei in tali contesti di cura.
In questo articolo, per ogni criticità gli autori identificano delle possibili azioni di miglioramento e di riduzione delle situazioni di rischio, anche se il loro superamento resta fuori dalla portata diretta delle comunità terapeutiche, in quanto necessita di un confronto e di un’individuazione di risposte a livello di Sistema. Nell’ultima parte dell’articolo vengono evidenziati in particolare i numerosi vantaggi che comporterebbe l’introduzione dei farmaci oppiacei in monodose nelle comunità terapeutiche. Questa azione è già adottata a livello locale da alcuni SerD di varie regioni d’Italia. ma non ancora diffusa e uniformata come occorrerebbe sul territorio nazionale.
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Per il corretto svolgimento dei programmi riabilitativi e dove previsto dalla norma in base alla tipologia di servizio erogato, le comunità terapeutiche residenziali per tossicodipendenti sono tenute ad assicurare la riconciliazione della terapia farmacologica e la continuità terapeutica per tutto il periodo di permanenza del paziente in struttura e nei momenti così detti di transizione di cura. I momenti di transizione di cura sono rappresentati dall’ingresso del paziente in comunità e dalla sua uscita, dal suo trasferimento tra sedi operative diverse della stessa struttura, o ad altra struttura sanitaria, ma anche dai passaggi periodici dal territorio di residenza alla comunità. A tal fine le comunità terapeutiche prevedono opportune procedure finalizzate alla gestione dei farmaci, ivi compresi i farmaci agonisti, dal momento della prescrizione/trasferimento della terapia, alla sua custodia, all’assunzione assistita del farmaco, e alla riconsegna o meno ai pazienti nei casi di verifica, conclusione concordata del programma, abbandono volontario, o allontanamento. Nel far questo le comunità terapeutiche sono chiamate a tenere conto in primis delle normative vigenti in tema di terapie farmacologiche e terapie sostitutive per la dipendenza da oppiacei, che tuttavia in vari punti risultano generali, astratte e pertanto soggette a interpretazioni, ma anche della particolare tipologia di utenza che afferisce ai programmi residenziali, e alla necessità di ridurre al minimo i rischi clinici connessi all’uso di farmaci, così come previsto dall’accreditamento in tema di Rischio Clinico (Regolamento R.T. n. 79/R/2016 di cui alla Legge R.T. n. 51/09 in materia di accreditamento sanitario). Considerata la vastità e complessità dell’argomento, scegliamo di focalizzarci in questo nostro contributo esclusivamente sulle criticità connesse alla gestione dei farmaci oppiacei in comunità, provando ad evidenziare le questioni aperte e gli interrogativi il cui superamento è fuori dalla portata diretta delle comunità terapeutiche, in quanto necessita di un confronto e di un’individuazione di risposte a livello di Sistema Sanitario.
A livello nazionale, la norma non prevede che le strutture sanitarie private di comunità terapeutica detengano in proprio farmaci oppiacei né, di conseguenza, che esse dispongano di un registro di carico e scarico, salvo nei casi poco frequenti in cui la struttura sanitaria privata sia un Servizio Multidisciplinare Integrato (S.M.I.). Pertanto, è il paziente stesso l’affidatario (ovvero il proprietario) del farmaco fornito dai competenti presidi sanitari pubblici (SerD). La comunità terapeutica è dunque chiamata a garantire che la terapia prescritta venga correttamente messa a disposizione del paziente affinché egli possa, in sicurezza, procederne all’assunzione. A tal fine, come prescritto dalla già citata norma regionale R.T n. 51/09 e successive modificazioni e integrazioni (ss.mm.ii), la comunità è dotata di un “locale adibito a medicheria con un’area attrezzata per l’idonea conservazione dei farmaci” ,e garantisce la presenza di personale infermieristico nella misura conforme alle prescrizioni normative di settore circa i requisiti del personale (Delibera G.R.T. 1165/02, al momento in “prorogatio”, in attesa di ulteriore aggiornamento, in corso presso la Regione Toscana). Onde garantire ulteriori misure di sicurezza la comunità dispone inoltre di una procedura condivisa e certificata Iso 9001:2015 che prevede la dotazione all’interno della medicheria, di un armadio cassaforte chiuso a chiave ove conservare il farmaco. Per quanto riguarda invece le modalità di consegna del farmaco da parte dei SerD di appoggio al paziente inserito in comunità terapeutica, esse non sono uniformi né sul territorio nazionale e né su quello regionale. Secondo la modalità più diffusa, tuttavia, per ogni paziente inserito in comunità terapeutica i SerD di appoggio, consegnano generalmente il farmaco in un flacone unico, contenente la quantità necessaria a coprire il periodo intercorrente tra una consegna e l’altra del farmaco, che necessita quindi di successivo “sporzionamento”.
Gli interrogativi e le criticità inerenti la gestione dei farmaci, in particolare di quelli stupefacenti, iniziano ad emergere nel caso in cui il paziente debba, per decisione propria oppure dell’équipe, lasciare momentaneamente o definitivamente il programma residenziale di trattamento. In questo caso, a prescindere dal motivo dell’uscita dalla comunità (verifica periodica, abbandono volontario, allontanamento momentaneo o definitivo da parte dell’équipe concordato con il Servizio inviante, conclusione del programma), essendo il farmaco oppiaceo affidato direttamente al paziente, a lui dovrebbe essere di regola riconsegnato, così come ogni altro farmaco, a meno che le condizioni psichiche dell’interessato non siano tali da far dubitare gli operatori di situazioni di grave rischio (Art. 54 Codice Penale) o manifesta infermità mentale (Art. 44 Testo Unico 309/90), per cui sia possibile trattenere il farmaco.
Ora, se si considera la particolare tipologia di utenza che afferisce ai programmi residenziali in comunità, ossia i pazienti più complessi, che i SerD hanno maggior difficoltà a trattare a livello ambulatoriale, e che spesso presentano forte craving, discontrollo degli impulsi, propensione al rischio, evidenti difficoltà di autoregolazione e spesso forte appetizione per i farmaci - per non parlare della complessità delle così dette doppie diagnosi, e in particolare dei pazienti con disturbi di personalità borderline, dove più spesso si riscontrano in anamnesi idee di morte e tentati suicidi e che non di rado vengono inseriti in comunità direttamente dall’SPDC o dalla clinica psichiatrica - si può ben comprendere che la riconsegna del farmaco direttamente al paziente, soprattutto nelle fasi iniziali del trattamento e nei casi di abbandono volontario o allontanamento, è difficilmente praticabile senza esporre i pazienti a situazioni di grave rischio derivante da: a) potenziali errori di “sporzionamento” del farmaco contenuto in quantità rilevanti nel flacone consegnato periodicamente dal SerD, che potrebbero essere anche letali; b) deliberato uso improprio o cessione del farmaco a terzi (misuso e diversione) il cui rischio maggiore è la morte per overdose propria o altrui; c) tentati suicidi o, nel caso più grave, suicidi, mediante assunzione volontaria dell’intero contenuto non sporzionato del flacone. L’incidenza di tali eventi non è di facile rilevazione, ma se anche risultasse non elevata, la gravità delle conseguenze è tale da imporre di considerare ogni rischio. Inoltre le percentuali di incidenza sono destinate ad aumentare se oltre agli eventi sentinella si considerano i near miss events inerenti la gestione delle terapie agoniste. A tal proposito si riporta, a titolo esemplificativo, una scheda di segnalazione pervenuta dal personale infermieristico proprio sul tema della riconsegna del farmaco oppiaceo al paziente:
“… avendo valutato positivamente in équipe la possibilità di riconsegnare il metadone al paziente per la verifica programmata a casa, non essendoci al momento condizioni tali da far valutare situazioni di rischio, ho iniziato a spiegare al paziente le corrette modalità di “sporzionamento” del farmaco. Il paziente mi ha tuttavia interrotto quasi subito, rifiutandosi di prendere in consegna il farmaco da “sporzionare”, apportando svariate motivazioni: la paura di riprendere in mano una siringa e di riattivare la memoria delle sostanze, il timore di sbagliare lo “sporzionamento” e di assumere il farmaco in dosi sbagliate, l’abitudine di averlo sempre ricevuto in monodosi presso il suo SerD inviante. Rivalutata la situazione con l’operatore di riferimento e il medico abbiamo deciso di non riconsegnare il farmaco e di prendere accordi con il SerD inviante dove il paziente si recherà durante la verifica per assumere le dosi quotidiane”. (Scheda di segnalazione n.3 del 2018)
Si deve inoltre rilevare che la restituzione del farmaco al paziente solleva anche il quesito retorico se sia corretto, sotto l’aspetto igienico e sotto l’aspetto normativo, riconsegnare un flacone, nella maggior parte dei casi aperto, che il paziente non ha potuto custodire personalmente durante la sua permanenza in comunità e il cui contenuto di fatto non corrisponde più a quanto indicato nella etichetta apposta dal SerD che ha fornito il farmaco (non corrispondenza di date e di quantità). D’altronde l’allestimento e l’etichettatura della confezione da parte degli infermieri delle comunità terapeutiche, previo sconfezionamento del prodotto sigillato consegnato dal SerD direttamente al paziente, non trova riscontro nella normativa vigente.
Di contro, trattenere il farmaco senza riconsegnarlo al paziente, apre un’altra serie di problematiche tra cui:
a) la possibilità che si configuri una possibile violazione dei diritti riconosciuti ad ogni persona maggiorenne (Art. 2 Codice Civile), in assenza di criteri condivisi per una valutazione di “infermità mentale” o situazione di “grave rischio”. La legge infatti, come si è visto, vieta la consegna di sostanze stupefacenti solo a minori di età o a persone manifestatamente inferme di mente (Art. 44 T.U. 309/90) o in caso si dubiti di situazioni di grave rischio (Art.54 Codice Penale); tuttavia non rinviando espressamente ad una definizione di tali categorie o ad altre norme di legge, tali articoli dettano in maniera generale e astratta un dato che può e deve essere necessariamente interpretato dal lettore nella maniera più opportuna al fine del raggiungimento dello scopo per cui quelle norme sono state concepite e redatte. In proposito all’infermità mentale, per esempio, si noti che anche in ambito penale il modello medico della malattia mentale sta lasciando progressivamente il posto al riconoscimento di un modello integrato dei disturbi psichici e all’accoglimento di un concetto elastico di infermità. Basti pensare che negli ultimi anni, sta trovando spazio un’interpretazione estensiva, recettiva del paradigma psicologico che consente di annoverare tra gli infermi di mente anche soggetti affetti da disturbi aspecifici, ovvero non inquadrabili nosograficamente, subordinandone la rilevanza a volte alla loro “particolare intensità”, altre volte al così detto “valore di malattia” del disturbo o alla sovrapposizione su di esso di uno “stato patologico”. Il riconoscimento di un modello integrato dei disturbi psichici e l’accoglimento di un concetto elastico di infermità, in grado di estendersi fino a comprendere, in particolare, anche i gravi disturbi di personalità, hanno trovato conferma nella sentenza Raso delle Sezioni Unite, che mira a dirimere i profondi contasti giurisprudenziali sul tema. Secondo le Sezioni Unite (Cassazione 9163/2005) infatti “… a conferma della maggiore ampiezza del termine di infermità rispetto a quello di malattia, non interessa tanto che la condizione del soggetto sia esattamente catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il disturbo abbia in concreto l’attitudine a compromettere gravemente la capacità di percepire sia il disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento punitivo”. Anche nell’Art. 44 della legge n. 309/90 quindi, l’espressione “manifestatamente inferme di mente” può quindi riferirsi non necessariamente a persone con diagnosi psichiatriche, quanto a condizioni che, anche momentaneamente, diminuiscano con evidenza la capacità di giudizio;
b) l’accumulo di metadone in comunità e i problemi legati allo smaltimento, rappresentano un’altra rilevante criticità legata alla gestione dei farmaci oppiacei nelle comunità terapeutiche. Infatti, non potendo riconsegnare ai SerD flaconi o confezioni aperte, l’unica possibilità di smaltimento di farmaci agonisti per le comunità terapeutiche sembra essere indicata nella Nota del Ministero della Salute del 26-10-2007 con oggetto: “Smaltimento farmaci stupefacenti residuati a domicilio del paziente per interruzione del trattamento o decesso” assumendo che la comunità possa configurarsi come un domicilio, seppur temporaneo per i suoi ospiti. Nel documento si legge che “… i cittadini che si ritrovano ad essere occasionalmente detentori di farmaci prescritti a singoli pazienti che hanno cessato la terapia (omissis) possono conferire i residui di farmaci stupefacenti a seguito di interruzione di terapia negli appositi contenitori presenti nelle farmacie senza obblighi di presa in carico o scarico da parte del farmacista”. La criticità inerente l’applicazione di tale Nota del Ministero della Salute al caso delle comunità terapeutiche è tuttavia evidente se si tiene conto che la necessità di smaltimento di farmaci stupefacenti per le comunità non è occasionale e riguarda l’interruzione di terapia di una percentuale consistente di pazienti (si consideri a tal proposito che la percentuale di abbandoni volontari nei primi tre mesi di trattamento occorsa nel 2017 presso le nostre sedi operative di comunità è stata pari al 26% del totale dell’utenza accolta), per cui si tratta di quantità rilevanti di residui di farmaci stupefacenti che necessitano di essere smaltiti ordinariamente.
Azioni di miglioramento possibili ad opera delle comunità terapeutiche
A fronte di tale complessità in tema di gestione dei farmaci oppiacei in comunità, e considerate le numerose questioni che rimangono aperte e soggette ad interpretazione da un punto di vista normativo, riteniamo che le comunità terapeutiche, da sole, possano mettere in campo azioni di miglioramento in grado di ridurre solo parzialmente i numerosi rischi clinici connessi alla gestione dei farmaci oppiacei durante il programma residenziale di trattamento. In particolare le azioni di miglioramento che è possibile immaginare nel breve medio periodo ad opera delle comunità terapeutiche e ad impatto minimo per i SerD, sono le seguenti:
1) Sensibilizzare costantemente i pazienti e gli operatori a porre attenzione al momento dell’assunzione assistita della terapia, mediante azioni di tipo proattivo che prevedano la partecipazione e il coinvolgimento diretto. Tale azione rimanda direttamente alle Raccomandazioni per la prevenzione degli errori in terapia (n.7) e in particolare di quelli Look-alike/Sound-alike (n.12). Attualmente infatti, provenendo i pazienti da SerD invianti di varie zone di Italia, le comunità terapeutiche si confrontano con modalità di affidamento del farmaco non sempre uniformi quanto a concentrazione dello stesso (1 mg/ml – 5 mg/ml), confezionamento e criteri di etichettamento. Ciò espone evidentemente ad un margine di errore maggiore, considerando che le ore di personale infermieristico previste dall’accreditamento sanitario, non consentono una copertura costante delle sedi operative;
2) Prevedere, quando lo si ritenga necessario e possibile, il coinvolgimento dei familiari e/o persone significative, concordando con il paziente, nell’ambito del proprio programma di cura e recupero comportamentale, l’assunzione supervisionata dei farmaci oppiacei, così come degli altri farmaci, durante i periodi di verifica. Nei casi più complessi il paziente potrà anche valutare la possibilità di delegare per iscritto i familiari, o altra persona di sua fiducia, a ritirare per proprio conto il farmaco che la comunità restituisce, prendendo nota di tutte le generalità della persona delegata (nota del Ministero della Salute 19/04/2006 protocollo DGFDM/VIII/P/C.l.a.c./14480; Art. 1 comma 4-5 del D.M 16 novembre 2007). Il coinvolgimento dei familiari nel processo di cura va nella direzione di una riduzione dei rischi connessi alla riconsegna diretta del farmaco al paziente, ma si scontra con l’impossibilità di verificare che i familiari e/o altre persone significative indicate dal paziente siano effettivamente affidabili e in grado di supervisionare l’assunzione dei farmaci così come richiesto;
3) Programmare le verifiche periodiche dei pazienti quando possibile con congruo anticipo; una programmazione a medio termine consentirebbe infatti di poter calcolare con maggior precisione le quantità di farmaco necessario al momento della consegna periodica da parte del SerD di appoggio, sulla base della previsione dei giorni di presenza in comunità del paziente. Di conseguenza il quantitativo di farmaco da riconsegnare al paziente al momento dell’uscita dalla comunità potrebbe divenire inferiore: una/due dosi necessarie a garantire la continuità terapeutica e sufficienti per coprire il periodo di tempo verosimilmente necessario al paziente per raggiungere il proprio SerD inviante, con il quale si dovranno preventivamente prendere accordi al fine di assicurare la riconciliazione farmacologica. Tale modalità operativa, soprattutto per i pazienti più complessi e nei casi delle prime verifiche all’esterno, che di solito avvengono dopo tre mesi dall’inizio del programma, appare particolarmente indicata ai fini di ridurre i rischi clinici connessi alla riconsegna di quantitativi ingenti di farmaci oppiacei da “sporzionare” direttamente al paziente ma non risolve tuttavia il problema di come riconsegnare confezioni non integre e il cui contenuto non corrisponde più a quanto indicato sull’etichetta;
4) Concordare una cadenza di consegna del farmaco da parte del SerD di appoggio possibilmente settimanale: ciò consentirebbe di accumulare una quantità inferiore di residui di farmaci stupefacenti da smaltire, conseguenti a interruzioni di trattamento in cui si configurino situazioni di grave rischio tali da far decidere di non riconsegnare il farmaco al paziente. Il problema dello smaltimento dei farmaci stupefacenti potrebbe essere così in parte ridimensionato, rispetto alle quantità da smaltire, ma non risolto.
La consegna di farmaci oppiacei in monodosi: una risposta di sistema che abbatterebbe realmente i rischi clinici connessi alla gestione dei farmaci agonisti nelle comunità terapeutiche
Il titolo di quest’ultimo paragrafo sintetizza in una frase la conclusione a cui ci portano le considerazioni fin qui fatte. A fronte della possibilità di prevedere l’affidamento al paziente di farmaci oppiacei in monodosi infatti, ogni altra azione di miglioramento che le comunità terapeutiche da sole possono impegnarsi a mettere in atto, appare poca cosa al fine di incidere realmente sulla diminuzione dei rischi clinici connessi alla gestione dei farmaci durante i programmi residenziali di trattamento. Inoltre, l’introduzione dei farmaci oppiacei in monodosi (soluzione per altro già adottata da alcuni SerD sul territorio nazionale), sembrerebbe l’unico modo per consentire alle comunità terapeutiche di operare nel pieno rispetto delle normative vigenti, consentendo di superare, con una sola azione, tutte le criticità fin qui evidenziate e garantendo un miglioramento certo della qualità e della sicurezza delle cure. In particolare, l’affidamento al paziente del farmaco in monodosi consentirebbe di:
1) Prevenire gli errori di terapia, in particolare quelli legati alla preparazione e allo “sporzionamento” del farmaco oppiaceo;
2) Superare il problema delle confezioni aperte e delle etichette non rispondenti in caso di riconsegna del farmaco, insieme a tutte le criticità legate agli aspetti igienici e normativi ad essa connessi:
3) Riconsegnare il farmaco al paziente in occasione delle verifiche periodiche e quando le condizioni cliniche lo consentano, potendo così lavorare progressivamente sulla gestione autonoma della terapia e sulla compliance farmacologica, considerate obiettivi fondamentali nei progetti individualizzati di trattamento di taluni pazienti;
4) Ridurre il rischio di overdosi da assunzioni involontarie e volontarie di farmaco in eccesso: aprire varie confezioni monodose e ingerirle una dopo l’altra è infatti sicuramente più difficile che ingerire l’intero contenuto di un unico flacone, e richiede un grado di intenzionalità più elevata;
5) Superare il problema dello smaltimento delle dosi non restituite al pazienti nei casi in cui si configurino gravi rischi. A partire dal 2008, infatti, in base a quanto disposto dall’Art. 2 commi 350, 351 e 352 della cosiddetta Finanziaria 2008 (Legge 24-12-2007 n. 244), qualora le confezioni risultino integre e ben conservate e non siano reclamate dal paziente, possono essere restituite alla Asl.
A fronte di tanti e tali miglioramenti che l’affidamento del farmaco oppiaceo in monodosi consentirebbe in termini di miglioramento della qualità e della sicurezza delle cure nelle comunità terapeutiche, sembra esserci un unico impedimento al cambiamento che, tuttavia, potrebbe non essere di facile e immediato superamento. Ci riferiamo all’aggravio di lavoro che la preparazione dei farmaci monodose richiederebbe per i SerD nel cui territorio sono collocate le comunità terapeutiche, in termini di ore di lavoro del personale infermieristico. Il recente Congresso Nazionale FederSerD, svoltosi a Roma dal 24 al 26 ottobre 2018, nell’ambito del quale abbiamo presentato un abstract del presente articolo, è stato occasione di confronto su questo tema e dalla discussione è emerso che, in seguito al verificarsi di eventi avversi e svolgimento di relativi Audit su questo tema, alcuni SerD hanno già introdotto sul proprio territorio la modalità di consegna del farmaco in monodosi ai pazienti inseriti in comunità terapeutica, riuscendo ad ovviare all’aggravio di lavoro in termini di ore del personale infermieristico. Ciò fa sperare che sia possibile estendere tale azione di miglioramento anche ad altri territori.
NORMATIVA DI RIFERIMENTO
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (1990). DPR 309/1990 recante: “ Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” e successive modifiche.
Ministero della Salute (2006). Nota del 21-2-2006 con oggetto “Smaltimento farmaci stupefacenti residuati a domicilio del paziente per interruzione del trattamento o decesso”.
Ministero della Salute (2007). Decreto del16 novembre 2007 “Consegna dei medicinali per il trattamento degli stati di tossicodipendenza da oppiacei da parte delle strutture pubbliche o private autorizzate ai pazienti in trattamento.”
Ministero della Salute (2006). Nota del 19/04/2006 protocollo DGFDM/VIII/P/C.l.a.c./14480
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (2007). Legge 24-12-2007, n 244 Art. 2 commi 350, 351 e 352 (finanziaria 2008) e commi 348, 349.
Sentenza Raso delle Sezioni Unite - Cassazione 9163/2005
Codice Civile Art. 2.
Codice Penale Art.54.
Regolamento R.T. n. 79/R/2016 di cui alla Legge R.T. n. 51/09 in materia di accreditamento sanitario.
Delibera G.R.T. 1165/02, al momento in “prorogatio”, in attesa di ulteriore aggiornamento, in corso presso la Regione Toscana.
BIBLIOGRAFIA
Fasoli, M., & Ramera, A. (2016). La prescrizione di oppiacei nella terapia delle tossicomanie: aspetti medico legali. Seconda parte: procedure mediche infermieristiche. Psychiatry on line Italia.
Fasoli, M., Furba, P., & Ramera, A. (2016). La prescrizione di oppiacei nella terapia delle tossicomanie: aspetti medico legali. Prima parte: principi generali. Psychiatry on line Italia.
Federazione Italiana Degli Operatori Dei Dipartimenti E Dei Servizi Delle Dipendenze (FeDer SerD). (2015). Diversione e Misuso, presentazione lavori pervenuti al convegno tematico nazionale, FeDerSerD Informa n. 25, ottobre 2015. Mission, Periodico trimestrale della Federazione Italiana degli Operatori dei Dipartimenti e dei Servizi delle Dipendenze, 44, anno XII .
Ministero dell’Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale per i Servizi Antidroga. (2017). Decessi da abuso di sostanze stupefacenti, in Relazione annuale della Polizia di Stato.
Società Italiana di Farmacologia. (2017). Aderenza alla terapia: la via dopo l’appropriatezza. Quaderni della Società Italiana di Farmacologia (SIF), 42 anno XIII..
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