Personalità premorbosa ed esordio della schizofrenia.

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10 aprile, 2019 - 11:42
Presentazione.
Continuiamo a riproporre una selezione di testi di Maestri italiani della psichiatria scomparsi, taluni anche da molti anni, per i lettori di POL.IT Psychiatry Italia, la rivista telematica edita da Francesco Bollorino, visto il gradimento dei precedenti. Si tratta, per la maggior parte, di trascrizioni che lo scrivente effettua di “estratti” (tiré a part), testi o relazioni di Autori conosciuti direttamente. Scritti ricevuti privatamente, ma reperibili, per chi lo voglia, nelle biblioteche specializzate di ex ospedali psichiatrici, tipo quelli che fanno apposite raccolte storiche, come ad esempio il “Leonardo Bianchi” di Napoli nell’ambito del progetto “Carte da legare”.
Il presente testo ha un valore storico particolare perchè, come ci si potrà rendere conto dalla lettura, introduce il secondo tema ufficiale del XXX Congresso della SIP, svoltosi a Milano dal 12 al 17 ottobre 1968. I vertici direttivi dell’Associazione Italiana degli Psichiatri, data l’indiscussa autorevolezza e la notorietà europea del personaggio “GE Morselli”, decise di affidargli la supervisione e la presentazione del secondo tema di Relazione del Congresso “Personalità premorbosa ed esordio della schizofrenia”; malgrado agli effetti accademici risultasse solo titolare della direzione del manicomio di Sondrio. Ignoriamo chi, tra i Congressisti, ebbe l’idea di proporre il tema, ancor oggi, di pienissima attualità, ma abbiamo una certezza quasi assoluta, come si evince chiaramente dalla lettura dello scritto. Non fu Carlo Lorenzo Cazzullo e verosimilmente neppure uno dei tanti, per allora, fautori della psichiatria organicistica come Vito Maria Buscaino e diagnostico-classificatoria come Lucio Bini e Tulio Bazzi.
Il “pezzo”, è ritrascritto integralmente dagli Atti del XXX Congresso della Società Italiana di Psichiatria - Milano12-17 ottobre 1968 - comparsi su “Il Lavoro Neuropsichiatrico” Rivista fondata da Ugo Cerletti e Francesco Bonfiglio diretta da Gerlando Lo Cascio - Volume XLIV Anno XXIII Fascicolo I - Edita dall’Amministrazione Provinciale di Roma - Vol I Relazioni pp. 239-243.  Poco più di due paginette e una ventina di minuti la sua introduzione ai lavori della plenaria, ma per chi ebbe la fortunata circostanza di assistervi fu la lezione di un Maestro. L’inquadramento generale dell’argomento, i temi e i nodi principali, gli autori di riferimento, gli studi e le osservazioni più recenti sul tema in discorso, sono quelli di un sapiente che sa di cosa parla, dove mettere le mani (anche come finemente polemizzare con l’accademia di casa nostra) e soprattutto come far proseliti e suscitare curiosità fra i giovani.
Gli orizzonti degli saperi da Lui frequentati sono vastissimi e si moltiplicano inesauribilmente inesausti. Per chi lo sa, si capisce immediatamente che proviene da esperienze maturate anche nell’area della clinica nevrologica del martelletto pei riflessi, della “lucciola” pel fotomotore, dell’oftalmoscopio pel fundus, della stazione eretta e della marcia, per veder se falcia, o lancia gli a.a. inferiori, se pendola, oscilla armonicamente, prona-supina, quelli superiori...
Ma giunge anche da altre frequentazioni, assolutamente innovative, provate direttamente in corpore vili colle allucinazioni da pale di fichidindia messicani (mescalina) e da imprese psicoterapeutiche esemplari tipo “Il caso Elena”. Imprese epiche, paragonabili a quelle del vero uomo di scienza che non esita ad attraversare le Colonne d’Ercole. Particolare non trascurabile, poi, rivela il suo ésprit de finesse ed in un certo senso anche il suo pedigree non dimenticando di rammentare quel tal Carlo Besta, valtellinese di Teglio che fu il suo primo Maestro.
Per noi – gli «era compagno il figlio giovinetto / d’un di que’ capi un po’ pericolosi...» (ci si perdoni la licenza giustiniana,, ma un fratello maggiore gli era certamente e pericolosi lo furono davvero quei fenomenologi della psicopatologia sortiti dai manicomi italiani nel 1978) un tal  Bruno Callieri che gli faceva da facondo chaperon entusiasta e competente – per me e Callieri, era la mattina di un  martedì di metà ottobre del 1968. La location, come si dice oggi, era il Palazzo dei Congressi dell’Amministrazione Provinciale di Milano. L’umwelt unico e irripetibile
Sergio Mellina
 
 
INTRODUZIONE.
 
La psichiatria contemporanea appare contrassegnata da due aspetti essenziali: una visione globale, tendente all’unitarismo (Ganzheit) dei problemi patogenetici nella quale il dato psicologico viene considerato e approfondito di pari passo con quello strettamente biologico; un rinnovato interesse per l’uomo, i suoi valori e i suoi enigmatici legami col cosmo. Così che la malattia mentale, oltre che effetto di un danno encefalico, appare come un aspetto della condizione umana. Il malato è ad un tempo caso clinico e caso umano; la sua malattia è una cruciale esperienza dell’uomo.
 
Devo però aggiungere subito che fra i primi a demolire consapevolmente la psichiatria atomistica del secolo scorso dobbiamo vedere Kraepelin stesso. Il suo negativismo non ha forse dato origine all’autismo, uno dei concetti che (lo dice Minkowski) ha aperto la strada alla odierna corrente antropologica? L’idea medesima di metamorfosi della personalità schizofrenica, di una originalità dell’io schizofrenico e di un suo mutato essere nel mondo è già perfettamente adombrata nelle intuizioni se non nei sistemi di Kraepelin e Bleuler.
 
Sia in psichiatria che in nevrologia, in realtà, è venuto maturando, sul finire, appunto, del secolo scorso un movimento generale di pensiero dal quale si sono differenziate quasi simultaneamente varie concezioni della totalità. Non solo l’intera ricerca di James e Bergson è imperniata sull’idea unitaria dell’attività mentale, nella cui corrente non vi sono elementi isolabili dal tutto (idea che ha informato la psicologia stessa della Gestalt): anche la fisiologia innovatrice di Sherrington è eminentemente unitaria, ed altrettanto lo è quella di Pavlov, nonostante le apparenze.
 
Anche la revisione operata dai così detti «antilocalizzatori» tipo Monakow (l’uomo che Mingazzini stesso definì « Maestro della nuova nevrologia ») armonizza con tale impostazione. Non può dirsi criterio esclusivo di Goldstein tipico gestaltista, quello che i disturbi mentali debbano sempre essere visti in funzione del fondo su cui si profilano: è un’idea che impronta, si può dire, tutta la moderna indagine psichiatrica e nevrologica, dalle afasie alle aprassie alle allucinazioni e ai deliri (Carlo Besta, il fine e geniale semejologo della «sindrome parietale» è un goldsteiniano). Così Jackson, nonostante i suoi legami col pensiero spenceriano, ha precorso i Gestaltisti nell’interpretare i processi dissolutivi cerebrali, e le sue tesi, implicitamente associazioniste, improntano l’indagine moderna delle afasie. Le osservazioni di Head dimostrano, infatti, che i fenomeni afasici, lungi dall’essere spiegati con la pretesa scomparsa delle «immagini» verbali, pongono in giuoco i più complicati processi del pensiero: il simbolo fasico non è leso per sé stesso, ma in forza di un deficit più vasto: ecco perché, ad esempio, lo stesso atto verbale possibile sul piano degli automatismi, è irrealizzabile su quello della spontaneità e dell’attrazione; ciò per una condizione imprecisabile, ma che è certamente globale, né si limita a elementi isolati, ed appare con ogni verosimiglianza riconducibile ad un’alterazione che ha stetti rapporti con la costruzione dello spazio.
 
Che dire infine del globalismo fecondo da cui appaiono guidati psicopatologi come Eugène Minkowski, Ludwig Binswanger, Jurg Zutt o Erwin Straus ? «Ce que nous devons chercher à pénétrer, dice Binswanger, ce n’est pas… la structure du delire, c’est celle de l’homme délirant, c’est la structure de son nouvel être dans le monde»  (Encéphale,1951, p. 112).
 
Anche Gemelli e Zunini (che pur valutano il fondamento biologico della personalità) esortano a «non incasellare» ma a diagnosticare la personalità del soggetto «Introduzione alla psicologia»). E del resto, la ricerca portata, più che sui sintomi, sulla personalità e sul dinamico fluire dei vissuti stigmatizza tutta l’odierna psichiatria, a partire, come  ho accennato da Kraepelin stesso.
 
Chi ha organizzato il Congresso, centrando il secondo tema sulla personalità schizofrenica è dunque perfettamente in linea col moderno indirizzo unitario: nulla è più globale e qualitativo della personalità. «La personne ne se lasse pas disséquer en ses differentes parties, dice Wirsch; si l’on tente cette expérience elle disparaît à notre vue, et avec elle le phénomène psychologique et unique de la maladie» («La personne du schizofrène», P.U.F., 1956, p. 55). « Il carattere appartiene all’essenza dello psichismo », scrive KlagesLes principes de la caractérologie», Alcan 1930). «La personalità afferma Jaspers è il modo particolare col quale si manifestano le tendenze e i sentimenti di un uomo, la maniera secondo cui questi è impressionato dalle situazioni che lo circondano e lo sollecitano». Nell’analisi della personalità così intesa il Jaspers, che non manca di utilizzare l’apporto di Klages, distingue segni formali ovvero strutturali (come il temperamento) e qualità della personalità (tendenze, desideri, interessi, visioni del mondo).
 
Quanto alle personalità abnormi, lo stesso Jaspers insiste particolarmente nel tener separate le personalità che presentano solo disposizioni divergenti dalla media a titolo di varianti pure e semplici, dalle disposizioni patologiche in senso stretto e che sembrano riducibili all’alterazione di una o più disposizioni di fondo. Questo modo di vedere collima con le impostazioni di Kurt Schneider; questi, infatti, ritiene che le personalità abnormi (e tra queste Schneider include le sue «personalità psicopatiche») siano fuori della patologia («Psicopatologia clinica» Sansoni, 1967).
 
Schneider dà per scontato che «mentre le ciclotimie si impiantano su una personalità sostanzialmente “normale”, le schizofrenie si sviluppano su personalità abnormi». Ecco uno dei punti nodali che i relatori sul nostro tema dovranno toccare: è nel giusto Schneider quando afferma ciò? E quali sono gli elementi, le caratteristiche di tale abnormità?
 
Nel suo noto lavoro « Schizofrenia iniziale e psiconevrosi », Cazzullo evita di trattare simili quesiti, anche se non sconfessa le idee di Kretschmer, dichiarando apertamente che l’argomento delle personalità prepsicotiche esce dai limiti imposti al suo lavoro.
 
Klaus Conrad (1905+1961), invece, nel suo altrettanto noto contributo sulla schizofrenia iniziale, reca dati che ricordano il nostro tema: nel riferire sui suoi 107 casi, così testualmente si esprime: «Il numero delle personalità abnormi premorbosa è sorprendentemente piccolo (cinque in tutto) se si considera il concetto di personalità abnormi in senso stretto e se si escludono soprattutto precedenti poussées psicotiche che possono aver prodotto modificazioni essenziali della personalità». («Die  beginnende Schizophrenie », Thieme, Stuttgart, 1958, p. 25).
 
Indipendentemente dal valore assegnabile ai dati, veramente interessanti di Conrad, appare ovvio e di pregiudiziale importanza che dobbiamo intenderci sulla «abnormità» asserita da Schneider quale precorritrice della psicopatologia schizofrenica. Anzitutto occorre fare il punto sullo schizoidismo.
 
Dalle ricerche di Grühle, ad esempio, risulta che la forma di reazione schizoide è lungi dall’esaurire la fenomenologia della personalità prepsicotica degli schizofrenici. Manfred Bleuler sostiene addirittura, in base a sue sistematiche ricerche, che le disposizioni caratterologiche alla schizofrenia variano secondo le famiglie e che non possiamo in alcun modo asserire che la schizoidia predisponga alla schizofrenia. In un recentissimo lavoro di Tsivilko, recensito in Francia nel quale sono riportati 88 casi di schizofrenia a inizio nevrotiforme, non viene assolutamente fatto cenno a lineamenti schizoidi della personalità premorbosa («Annales Méd. Psychol. », 1968, févr). La personalità appare modificata, ma non in direzione schizoidea.
 
Effettivamente tutti noi, credo, possiamo dire di conoscere schizofrenici che non presentavano schizoidismo della personalità premorbosa. L’equazione schizofrenia = schizoidismo (più il quid processuale) dovrebbe essere decisamente scartata. Anche Wyrsch, da cui abbiamo citato gli apporti di Manfred Bleuler e di Gruhle, esorta ripetutamente a non avvicinare troppo la schizoidia alla schizofrenia («La personne du Schizophrène», P.U.F., 1956).
 
Lo schizoidismo può, si, essere una delle componenti della personalità schizofrenica e preschizofrenica, ma per Gruhle e Wyrsch hanno un’importanza non minore, nella struttura personalistica in questione, altre componenti, come la «fragilità della biografia interiore», una difettosa elaborazione dell’io, e note caratterologiche quali la incompatibilità con l’ambiente, la tendenza alla solitudine e al raccoglimento, la capricciosità, la discontinuità, la chiusa ostinazione, la timidezza influenzabile. A questi aspetti Jaspers ne aggiunge altri: «È fuori dubbio, egli scrive nella sua “Allgemeine Psychopathologie”, che gli schizofrenici possono dare l’impressione, prima d’ammalarsi, di possedere una natura chiusa, interiorizzata ed egocentrica, disadatta a vivere nella realtà; trattasi di personalità timide e inibite, instabili e insoddisfatte di sé, inquiete, diffidenti e come sperdute e malsicure, spesso misticheggianti, volte alla metafisica».
 
A questo profilo personalistico un’indagine sistematica dovrebbe poter aggiungere numerosi altri dati, più circostanziati e pregnanti come in parte ha fatto lo psichiatra russo citato sopra. Jaspers non si pronuncia sulla interpretazione clinica delle note da lui rilevate; ma noi non possiamo fare a meno di chiederci: la personalità abnorme che un certo numero di schizofrenici prima della sintomatologia manifesta è soltanto il segno di una predisposizione o è già rivelatrice dell’ignoto processo specifico che solo con l’avanzare del male apporterà la sintomatologia dissolutiva? È una domanda che lo stesso Eugen Bleuler si pose a suo tempo.
 
In realtà non dovremmo sottovalutare la tesi di chi ammette, come noi, che la schizofrenia, a differenza della massima parte degli altri processi psico-morbosi (psicosi distimiche incluse) comporta una modificazione qualitativa, cioè del modo di essere della personalità. Ora, troppi dati c’inducono ad ammettere che molte schizofrenie «inizino» e non soltanto finiscano con tale modificazione. Né si obbietti che l’idea di una metamorfosi personalistica, qui, equivalga più ad una metafora elegante che ad una realtà clinica: sono gli stessi Eugen Bleuler ed  Emil Kraepelin (ed è Wyrsch che ce lo rammenta) ad ammettere o, quanto meno, a sottointendere in tutta la loro opera tale idea, che cioè, mentre nelle psicosi di altra natura la personalità o subisce un deterioramento meramente quantitativo oppure resta immune, in quelle schizofreniche va incontro ad una più o meno profonda trasformazione: «La schizophrénie s’enracine dans la biographie » dice felicemente Wyrsch; «le mode de l’existence se déforme et devient un trouble fondamental de la schizophrénie, ou, pour être plus circonspect l’une des premières conséquences de la maladie».
 
Naturalmente non dobbiamo nasconderci l’estrema difficoltà di distinguere nell’indagine delle personalità adolescenti e giovanissime le modificazioni evolutive normali da quelle patologiche.
 
È un fatto che il tema congressuale se da un lato abbordando la schizofrenia sotto l’angolo personalistico, si adegua a una visuale feconda, dall’altro investe problemi cruciali, e cade, se mi è permesso dire in piena «bagarre» schizofrenica! Pensate: accertare semejologicamente l’inizio d’una schizofrenia, distinguere ciò che è schizofrenico da ciò che non è in una biografia… Saremmo quasi tentati di esclamare con Paul Guirod: «Grandezza e servitù della psichiatria, non poter approfondire un argomento senza doversi rifare alle fonti e alle dottrine generali, non poter porre un interrogativo senza presupporne altri più vasti e insondabili». E tuttavia non c’è da scoraggiarsi. Anzi, le ricerche a cui il tema congressuale non può dare l’avvio e di cui stiamo per udire i risultati, dovrebbero, se condotte con rigore e a largo raggio, migliorare la nostra posizione di fronte al capitolo più problematico della psichiatria. L’importanza, infatti, dello studio personalistico nella schizofrenia è di palmare evidenza, anche dal punto di vista della patogenesi.
 
Anche i biologi stretti come Buscaino, d’altra parte, ammettono che alla patogenesi collabori in misura determinante, accanto ai fattori tossico-dismetabolici, un elemento costituzionale, e per indagare quest’ultimo una via maestra è, appunto, lo studio della personalità psico-fisica.
 
Certo, l’analisi della personalità schizofrenica agli albori del male è quanto mai ardua. quel poco che si sa è quasi per intero basato su dati indiretti, asistematici e macroscopici, se si eccettuano gli apporti di Gruhle, Wyrsch, Berze, Kretscmer e pochi altri. Ma appunto per questo c’è un largo margine alle ricerche, da attuarsi con spirito non prevenuto e ricorrendo a visuali non unilaterali: ne potrebbero scaturire dati non meno validi di quelli che riguardano la personalità di schizofrenici osservati in piena evoluzione morbosa, e coi quali ultimi dovranno essere messi a confronto: ci si dovrà particolarmente chiedere se anche la personalità cosi detta «prepsicotica» schizofrenica non presenti essa pure, rispetto alla personalità normale, segni di metamorfosi, di modificazione, cioè, qualitativa più che quantitativa.
 
Iniziano a parlare i relatori ufficiali come indicato nel sommario.
 
«Io lo ricordo che camminava nei viali dell’ospedale,
la figura alta e magra coperta da un camice buttato sulle spalle,
immerso nella lettura di un volume di Berdjaev*,
e seguìto da un cagnolino».
(Gustavo Gamna. G. E. Morselli: Uno psichiatra da non dimenticare.
“Comprendre”, 6, 1992, pp. 129-134).
 
Bibliografia essenziale.
Gamna Gustavo. G. E. Morselli: Uno psichiatra da non dimenticare. “Comprendre”,1992.
Ferro Filippo Maria. Docteur Morselli. Metis, Chieti, 1995.
Borgna Eugenio. Giovanni Enrico Morselli 1900-1973. Marietti, Genova, 2003.
 
(n.d.r.) *Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev (1874-1948), filosofo ucraino di Kiev emigrato e morto in Francia a Clamart.
P.S. I nomi di battesimo degli Autori, i neretti, i corsivi delle citazioni, sono di chi presenta il testo, per facilitare il lettore.

 
 
 
 
 
 

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